Scannapieco, sax e "salernitanità" in giro per il mondo
- Scritto da Mario Avagliano
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di Mario Avagliano
In Europa è la Francia la patria del jazz. E perciò può accadere che un sassofonista italiano sia più famoso a Parigi che a Roma o a Milano. E’ il caso del salernitano Daniele Scannapieco, classe 1970, talento del jazz made in Italy, vincitore quest’anno del prestigioso premio Django D’Or, il riconoscimento per il miglior giovane musicista del 2003. Il suo primo cd da solista, fresco di sala di registrazione, è in vendita a Parigi già dal 10 aprile scorso, mentre uscirà in Italia solo a giugno-luglio. Da Campagna, dove è nato e dove sta trascorrendo le vacanze pasquali, Scannapieco confessa il suo amore per Salerno (“per me è una delle città più belle del mondo”) e parla con orgoglio della scuola jazzistica salernitana.
Quando nasce la sua passione per il jazz?
Prestissimo, a sei anni, anche perché vengo da una famiglia di musicisti. Mio padre Antonio suonava per mestiere la fisarmonica. Mio zio Federico, che ora non c’è più, suonava il clarinetto e mi invogliò a studiare il suo strumento. Mi ricordo che mi esibivo nella banda di Campagna, insieme ai miei cugini e a mio fratello Tommaso.
Hanno continuato pure loro?
Mio cugino Michele Montefusco, figlio della sorella di mia madre, è diventato un ottimo chitarrista, vive a Napoli e suona nell’Orchestra Italiana di Arbore. Mio fratello Tommaso suona il contrabasso e si esibisce spesso dal vivo nei locali di Salerno.
Dalla banda di paese passò al Conservatorio…
Sì, cominciai a studiare al Conservatorio di Salerno. Avevo un bravo maestro, Gaetano Capasso. Ricordo che volevo abbandonare lo studio del clarinetto, perché mi ero appassionato al sax. Suonarlo mi procurava delle vibrazioni particolari nel corpo ed è stato subito amore! Capasso mi convinse a diplomarmi, a non perdere tanti anni di fatica e lo ringrazio ancora per questo.
Chi erano i suoi compagni al Conservatorio?
Con me c’erano Dario Deidda, Giovanni Amato e Peppe Lepore. Tramite Dario entrai nel giro del JazzClub dei musicisti salernitani.
Sul finire degli anni Ottanta a Salerno c’era una fucina di giovani talenti…
Effettivamente è stato un periodo d’oro per i musicisti salernitani e anche per me. Con Dario Deidda, Pietro Condorelli e Amedeo Ariano mettemmo su gruppo di jazz che si chiamava “Dade”. Suonavamo nei locali di Salerno, di Cava e di Napoli, il Botteghelle, il Metrò, il Bogart, il Moro, il Piazza Amedeo…
Partecipava anche lei alle jam-session a “Il Posto”, a Fratte?
“Il Posto” fu un’idea eccezionale. Ricordo che, nonostante fossimo squattrinati, pagavamo 100 mila lire al mese a testa per l’affitto di quei locali e quasi ogni giorno ci vedevamo lì e suonavamo ore e ore, parlando, confrontandoci, imparando gli uni dagli altri. Oltre ai fratelli Deidda, c’erano Amedeo Ariano, Giovanni Amato, Aldo Vigorito, Giampiero Virtuoso, Gianni Ventre, il chitarrista blues degli Almamegretta, purtroppo scomparso…
Nacque a Fratte la scuola jazzistica salernitana?
Non lo so. Una cosa è certa: grazie a quella nidiata di musicisti, Salerno adesso è una città che conta moltissimo nel panorama jazzistico italiano. Tanto per dirne una, la migliore sassofonista italiana, Carla Marciano, è salernitana.
La scuola jazzistica salernitana si è inaridita o continua a produrre talenti?
Non si è affatto inaridita. Citerei per esempio il cavese Julian Mazzariello, che è destinato a diventare uno dei più grandi pianisti italiani. Lui e Dario Deidda forse sono i musicisti salernitani più talentuosi, quelli - come dire - toccati dal “dono di Dio”. Ma ne stanno emergendo anche altri.
Nomi e cognomi, per favore.
Una rivelazione è sicuramente Pierpaolo Bisogno, vibrafonista e percussionista. In questo periodo sta suonando con Sandro Deidda alla trasmissione “Novecento” di Baudo. Poi ci sono i sassofonisti Peppe Plaitano e Antonello Altieri. E sicuramente ne dimentico altri.
Nel ’90, dopo il diploma al Conservatorio, lei si trasferì a Roma. Come fu l’impatto con la capitale?
Partimmo insieme, io, Amedeo Ariano, Dario e Sandro Deidda, e Jerry Popolo. Affittammo un appartamento vicino alla Stazione Termine. I primi tempi furono duri, anche dal punto di vista economico. Pur di racimolare qualche lira e di farci conoscere, accettavamo di tutto, anche di suonare musica funky o altri generi.
Come fece ad uscire dall’anonimato?
Ebbi la fortuna di stringere amicizia con Stefano Di Battista, uno dei migliori sassofonisti del mondo. Lui mi presentò al pianista Stefano Sabatini e così cominciai a suonare con loro stabilmente.
Quando ha cominciato a suonare in Francia?
Era un giorno di marzo del 1999. Stefano Di Battista si presentò da me con una prenotazione aerea e mi disse: “Prepara le valige che partiamo per Parigi”.
Come andò?
Fui baciato dalla fortuna. Paco Sery stava registrando un disco a Parigi. Stefano andò a trovarlo e Paco gli chiese se conosceva un sassofonista tenore. E così mi trovai a suonare con lui. Poi conobbi Andrè Ceccarelli, il famoso batterista francese, che mi presentò a Dee Dee Bridgwater.
E’ nato così un sodalizio che dura ancora oggi.
Dee Dee è una persona straordinaria, oltre ad essere una delle cantanti più apprezzate del panorama jazzistico internazionale. Ha delle qualità vocali superlative. In tournée con lei ho fatto il giro degli Stati Uniti e d’Europa, da Instabul a Oslo. Un’esperienza eccezionale.
Tanto che l’anno scorso la Bridgwater l’ha voluta in sala di registrazione.
Ho suonato per il suo ultimo disco, “This is new”, e nelle prossime settimane mi esibirò con lei in Svizzera.
Nel 2002 è anche uscito il primo cd del suo quintetto jazz, High Five.
Il disco si chiama “Jazz for more…” e sta andando forte nelle vendite. Devo dire che il nostro gruppo è davvero ben assortito: Fabrizio Bosso alla tromba, Julian Mazzariello al piano, Pietro Ciancaglini al contrabasso e Lorenzo Tucci alla batteria. Ci stanno chiamando a suonare dappertutto. Il 6 luglio saremo al “Paris Jazz Festival”, come gruppo di spalla del grandissimo sassofonista americano Joe Lovano.
Ritorna a Parigi?
Per un jazzista il richiamo di Parigi è irresistibile. A differenza dell'Italia, in Francia esiste un vero e proprio mercato del jazz e per la gente è normale comprare i dischi jazz. Però negli ultimi anni il jazz è in forte ascesa anche nel nostro Paese.
A proposito di dischi, sta per uscire il suo primo cd da solista.
Uscirà entro l’estate. E’ un disco composto tutto di pezzi nuovi, scritti da me, da Stefano Di Battista e da Fabrizio Bosso.
Di che genere?
Diciamo hard bop. E’ un genere che rappresenta uno sviluppo del Be bop, uno stile jazzistico dal ritmo veloce e elaborato, caratterizzato dall'uso di accordi dissonanti, salti di note e maggiore libertà strumentale. In una parola è "movimento", energia, io lo trovo geniale e credo che anche il pubblico apprezzerà!
Lei ha collaborato con alcuni tra i più grandi musicisti jazz italiani e internazionali, da Roberto Gatto a Giovanni Tommaso, da Andrè Ceccarelli a Tony Scott, da Paco Sery e Joe Lovano. A chi deve di più?
A parte Di Battista, direi Giovanni Tommaso. Lui ha creduto in me quando ancora non ero nessuno, mi ha preso nel suo gruppo e mi ha portato per la prima volta all’Umbria Jazz.
Ha suonato anche con musicisti pop?
Poche volte, per fortuna. Amo troppo il jazz. Ho suonato con Fred Bongusto, con Stefano Palatresi e con Tullio De Piscopo e, in più di un’occasione, anche con Sergio Cammariere. Siamo amici.
Qual è stato il concerto più memorabile della sua carriera?
L’esibizione al Town Hall di New York, il 12 gennaio del 2001, con gli Italian Jazz All Stars. Quello è un luogo storico per il jazz e per me è stato un momento importante, anche di riconoscimento.
Un giramondo come lei è legato alla sua terra?
Io mi sento legatissimo a Campagna. Quand’ero piccolo, mi stava stretta. Sognavo Roma, sognavo l’estero. Ora invece solo qui a Campagna riesco a studiare e a comporre con serenità. Nelle grandi città e in tournée vivi a mille tutto il giorno. Qui invece si sente scorrere l’acqua del fiume, c’è un’aria pulita, passa una macchina ogni 15 minuti, posso giocare sul prato con il mio nipotino.
E a Salerno ci viene mai?
Eccome. La considero una delle città più belle del mondo, con quel lungomare meraviglioso. Negli ultimi anni poi è anche migliorata dal punto di vista estetico. Ci torno sempre volentieri.
Nel salernitano c’è un locale dove è possibile ascoltare del buon jazz?
Ce ne sono almeno tre. Ovviamente il Fabula di Salerno, e poi il Bishop a Lancusi, che ogni martedì propone serate jazz “da paura”, e il “Round Midnight jazz club”, che ha un pubblico di appassionati molto selezionato.
(La Città di Salerno, 20 aprile 2003)
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