Storie - Sul processo Eichmann

di Mario Avagliano

 Mezzo secolo fa, nel 1961, a Gerusalemme si celebrò lo storico processo ad Adolf Eichmann, catturato in Argentina dai servizi segreti israeliani. Il processo a Eichmann fu il primo procedimento giudiziario per crimini nazisti celebrato in Israele e il primo ad essere trasmesso integralmente in televisione, con il coinvolgimento di mass media di tutto il mondo.

Lo Stato d'Israele, nato nel 1948, volle celebrare il processo davanti a una Corte di giustizia ordinaria, per dimostrare a tutte le Nazioni cosa fosse stata la Shoah. Fu quindi un processo storico, che segnò un discrimine fondamentale nella ricostruzione della storia della persecuzione degli ebrei. Eppure, nonostante la sua importanza, il processo ancora oggi è assai poco conosciuto nelle sue mille storie e testimonianze, molte delle quali relative all’Italia.

È merito di una piccola casa editrice di Fidenza, la Mattioli 1885, aver avviato un prezioso progetto editoriale, che ha ricevuto anche il patrocinio dell’Ucei, volto a pubblicare tutti gli atti e le testimonianze del Processo Eichmann: 13mila cartelle in varie lingue, principalmente in ebraico, che per la prima volta sono state tradotte e organizzate in una pubblicazione, curata da Livio Crescenzi.

Vista la vastità del materiale, i documenti sono stati suddivisi in tre volumi tematici: uno dedicato agli italiani, uno ai bambini e uno alle parole di Eichmann stesso, con un dvd che raccoglie tutti i filmati del processo. Nel primo volume, intitolato Cinquanta chili d’oro (Mattioli 1885, pp. 230), sono raccolte le storie degli ebrei italiani e dei nazisti che operarono in Italia, attraverso le deposizioni dei testimoni raccolte da oscuri cancellieri nelle aule dei tribunali. Tra i tanti materiali e documenti proposti nel libro, si segnala in modo particolare la lunga deposizione di Herbert Kappler, resa nel carcere di Gaeta, dalla quale emerge con evidenza il ruolo fondamentale avuto dalle forze dell’ordine della Rsi negli arresti degli ebrei dopo la retata del 16 ottobre 1943. In appendice, vengono pubblicate due deposizioni rese da Primo Levi, l'una nel 1960 (relativa al processo Eichmann) e l'altra nel 1971 (relativa al processo contro Friedrich Bosshammer).

Un libro utilissimo per capire la macchina della persecuzione nazista, il collaborazionismo fascista e anche la storia italiana di quegli anni.

 (L'Unione Informa e Moked.it del 4 marzo 2014)

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Storie – Piero Terracina, foto di una vita

di Mario Avagliano

Uno dei Testimoni più straordinari della Shoah italiana è il romano Piero Terracina. Fino al 7 marzo 2014 è in corso al Goethe-Institut di Roma una mostra a lui dedicata, con foto del tedesco Georg Pöhlein e una audio-documentario intitolato “Perché Piero Terracina ha rotto il suo silenzio” a cura di Andrea Pomplun e dello stesso Georg Pöhlein.

Piero Terracina, classe 1928, subì, come tutti gli ebrei italiani, l’infamia delle leggi razziste. Il 15 novembre del 1938, quando entrò in classe e si diresse verso il suo banco, si sentì addosso gli occhi di tutti i suoi compagni. L'insegnante lo bloccò e gli disse: "Esci, che tu non puoi stare qui". Dopo l’armistizio, Piero Terracina sfuggì alla retata del 16 ottobre 1943. Arrestato il 7 aprile 1944, fu deportato, assieme agli otto componenti della sua famiglia, ad Auschwitz, da dove solo lui tornò vivo. Terracina, come altri deportati, si chiuse in un lungo silenzio ed iniziò a parlare della sua vicenda solo a partire dal 1992. 

I ritratti del fotografo tedesco Georg Pöhlein ci raccontano il personaggio Piero Terracina, con la sua passione e la sua umanità. L'audio documentario di Andrea Pomplun è invece dedicato alla storia della cattura, della deportazione e della morte della famiglia di Piero Terracina ad Auschwitz. La mostra è arricchita da altre testimonianze: le lettere dei ragazzi delle scuole in cui Terracina è stato ospite, i ricordi di Walter Veltroni, di Riccardo Di Segni e le riflessioni di chi ha curato la mostra e collaborato con Terracina. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 18 febbraio 2014)

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Storie - I Paggi di Pitigliano

di Mario Avagliano

Una famiglia, i Paggi. Una città, Pitigliano (e la vicina Sorano). Un ramo della diaspora ebraica, i Sefarditi. La storia è fatta di microstorie, di frammenti di memoria, di vicende di persone. Un frammento familiare che racconta molte cose della vita degli ebrei italiani a cavallo tra il Cinquecento e il Novecento è la preziosa ricostruzione delle vicende dei Paggi realizzata, con spirito da cronista e con passione civile, da Vera Paggi nel libro “Il vicolo degli Azzimi. Dal ghetto di Pitigliano al miracolo economico” (Panozzo editore).

Le origini del cognome Paggi sono abbastanza misteriose. Qualcuno sostiene che i Paggi fossero ebrei originari della Spagna, da dove fuggirono verso la fine del 1400 per salvarsi dalle persecuzioni. E dalla Spagna sarebbero sbarcati in Toscana, per poi trovare rifugio e protezione a Pitigliano. Un’altra fonte, invece, sostiene che i Paggi ebrei fossero in Italia da molto tempo prima delle persecuzioni spagnole, e il cognome deriverebbe dalla posizione che occupavano alla corte dei Papi da dove furono costretti - come molti altri ebrei dell'Italia Centrale, ad esempio i Servi - a fuggire dopo la metà del XVI secolo, anche qui incalzati dalle persecuzioni. A Pitigliano sarebbero stati accolti dagli Orsini. Ma Vera Paggi indica un’altra fonte interessante, il libro I cognomi Sardi di origine ebraica, da cui risulterebbero Paci, Paxi e il sefardita Pache e Pace come traduzione italiana di Shalom.

Colpisce come già nel Cinquecento gli ebrei a Pitigliano, dopo la buona accoglienza riservata loro dagli Orsini, sotto i Medici fossero non solo costretti a costruire a proprie spese il ghetto nel quale vennero rinchiusi (delimitato su un lato dal vicolo degli Azzimi, che dà il titolo al libro e ora si chiama vicolo Marghera), ma avessero l’obbligo di indossare un segno di riconoscimento (l’anteprima della stella gialla): un cappello rosso per gli uomini e una manica dello stesso colore per le donne.

A Pitigliano la prima emancipazione degli ebrei è datata alla fine del Settecento, grazie al governo illuminato del granduca lorenese Pietro Leopoldo. All’epoca le famiglie più note di mercanti e bottegai ebrei sono Ajò, Della Pergola, Paggi, Sadun, Servi, Spizzichino, che gestiscono il rifornimento di prodotti industriali, anche lungo le strade del contrabbando dallo Stato pontificio, e lo smercio dei prodotti agricoli e zootecnici locali.

Il racconto di Vera Paggi segue vari personaggi della saga familiare. Uno dei più simpatici è Salomone, classe 1848, alto quasi due metri, che aveva fama di essere l’uomo più bello della Maremma e che mangiava frittate anche di quaranta uova. Come molti Paggi, anche lui era appassionato di gioco e di scommesse e pare che fosse un grande giocatore di Ruota. Il giuoco della Ruota consisteva nel far rotolare grandi forme di formaggio per i vicoli di Pitigliano. Scommettitore, nella sua ultima puntata avrebbe mangiato 18 uova e bevuto 18 bicchieri di vino uno dietro l’altro. Uno stile di vita godereccio - testimoniato da numeri quasi da cabala in perfetto pregiudizio antiebraico - che gli costò caro perché rimase 18 anni paralizzato, e quindi morì. Era il 29 aprile 1915.

Nella galleria sfilano altri personaggi: Gastone Paggi, che verrà ucciso con il suocero nella strage nazista di Civitella della Chiana il 29 giugno 1944; il socialista Filiberto, fondatore del partito a Scansano e perseguitato dai fascisti; il professore universitario Bruno, nel 1923 il più giovane medico d’Italia. Imprenditori, professionisti, mercanti.

Fino alle leggi razziste del 1938, che cambia il corso delle loro vite. Il professor Bruno Paggi viene cacciato dall’università di Pisa ed è costretto ad emigrare all’estero (come altri membri della famiglia), Oliviero Paggi non può continuare la sua carriera nell’esercito come sognava.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la figura che emerge nella famiglia è quella di Claudio, diciottenne antifascista, che già all’indomani della caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, abbatte il busto del Duce al calzificio Passigli, la fabbrica dove lavorava come operaio. A metà settembre decide di tentare la fuga verso Sud oltre le linee, nell’Italia liberata dallo sbarco degli Alleati e raggiunge Bari, dove cerca di arruolarsi nell’esercito alleato. Rifiutato, a Carbonara incontra un altro ebreo di Firenze, partito dalla Garfagnana, e animato dallo stesso desiderio di impegnarsi nella Resistenza: Franco Luzzatto. Il campo di Carbonara è anche un centro di arruolamento della resistenza jugoslava. Il 20 ottobre del 1943 vengono formate due brigate, una in sostegno di Re Pietro, l’altra, la Prima Brigata Oltremare, a sostegno della Resistenza jugoslava in appoggio a Tito. Entrambe otterranno il beneplacito delle autorità inglesi, che forniranno ai giovani arruolati le divise e l’appoggio logistico per l’addestramento. I giovani andranno a combattere in Jugoslavia contro i tedeschi. A Claudio non resta che l’arruolamento nella Prima Brigata Oltremare, ma è una decisione sofferta, che segue dopo molte esitazioni. I volontari che aderiscono alla Prima Brigata Oltremare sono tanti. Fra questi, ci sono numerosi ebrei slavi, alcuni che provenivano dal più grande campo di concentramento italiano il Ferramonti di Tarsia a Cosenza, in Calabria. In tutto sono ventidue ebrei. Per questo viene deciso di costituire in seno alla Brigata, un Plotone Speciale Ebraico. Claudio morirà in Bosnia nel febbraio 1944.

Gli altri membri della famiglia vivono esistenze in bilico, separate: storie di fughe in Svizzera, di clandestinità, di paura, fino al momento della liberazione, al difficile dopoguerra, al reintegro in una Nazione che li aveva considerati cittadini di serie B e li aveva perseguitati. Una famiglia spezzata dal fascismo e dalla guerra, raccontata attraverso le lettere, i documenti, i diari e i ricordi che una generazione ha tenuto per quasi mezzo secolo protetti in un cassetto.

(L'Unione Informa e Moked.it dell'8 aprile 2014)

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Storie – Commediografo senza nome

di Mario Avagliano

Due segnalazioni interessanti. Oggi 6 maggio, alle ore 17.30, presso la sala conferenze dell'Istituto piemontese per la storia della Resistenza, sarà presentato il libro di Luca Fenoglio Angelo Donati e la "questione ebraica" nella Francia occupata dall'esercito italiano (Zamorani). Il saggio ricostruisce la vicenda di Angelo Donati, ebreo, fante in trincea durante la prima guerra mondiale, poi cofondatore del fascio di Parigi, che nei dieci mesi dell’occupazione italiana della Francia meridionale si adoperò per salvare molti suoi correligionari dalla deportazione.

Ieri invece, alla Casa della Memoria e della Storia di Roma, si è tenuta una giornata in ricordo di Aldo De Benedetti, scrittore, commediografo e sceneggiatore tradotto e messo-in-scena anche all'estero, attivo sin dagli anni Trenta. Dopo l’approvazione delle leggi razziali, fu costretto a firmare i suoi lavori con lo pseudonimo di Benedetto Laddei. Sono stati letti brani dei suoi testi ed è stato proiettato il film Due lettere anonime di Mario Camerini, datato 1945 e interpretato da Clara Calamai e Andrea Checchi (vincitore del Nastro d'Argento 1946 come miglior attore protagonista), sceneggiato da Aldo De Benedetti senza che il suo nome potesse comparire sulle locandine. Anche questo accadeva in Italia sotto il fascismo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 6 maggio 2014)

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Storie – Noemi Cingoli, dal liceo artistico “Via di Ripetta” ad Auschwitz

di Mario Avagliano

Ci sono tante storie di deportati ancora sconosciute ai più, che escono dal “cono d’ombra” della Shoah solo grazie al meritevole sforzo di qualche ricercatore o di qualche persona dotata di buona volontà e di passione civile. Una di queste storie è quella della romana Noemi Cingoli, ex studentessa del Liceo artistico “Via di Ripetta”, la cui vicenda umana è stata ricostruita da Costanzo Di Giovanni, docente di matematica e fisica in quello stesso istituto, con l’intento di “restituire dignità a coloro che non tornarono”.

Da ragazza Noemi ha copiato i gessi dei Dioscuri che giganteggiano nell'aula magna del Liceo artistico e il 23 maggio scorso la sua figura è stata ricordata proprio lì, con un appassionato intervento di Piero Terracina, che nel maggio del 1944 viaggiò nello stesso treno di Noemi diretto ad Auschwitz, e con l’inaugurazione di una stele commemorativa. Per inciso, va ricordato che in questo istituto, nel 2008, un professore negazionista aveva urlato che la Shoah non esiste.

Nata il 25 settembre 1913, ultima dei quattro figli di Alfredo Cingoli, negoziante di tessuti originario di Ascoli Piceno, e di Clelia Ravà, la bella Noemi all’epoca della deportazione era sposata con il torinese Mario Segre, epigrafista e archeologo di fama internazionale, espulso dall’università in seguito alle leggi razziste del 1938, che per sopravvivere dava lezioni private e curava la compilazione di alcune voci dell’Enciclopedia minore diretta da Giovanni Gentile, firmandole con il nome dell’amica archeologa Luisa Banti.

Dopo la caduta del fascismo, tra gli ebrei c’è chi spera in un’alba nuova. Ma non la suocera di Noemi, Ida Luzzatti, che il 4 settembre 1943 scrive profetica: «Calmato l’entusiasmo di quei primi giorni dopo il 25 luglio, contiamo le delusioni che l’hanno seguito, ed i pericoli gravissimi dai quali siamo continuamente minacciati. E, se anche il nuovo Governo ha provveduto e sta provvedendo perché Roma possa essere riconosciuta città aperta, noi siamo tutt’altro che tranquilli. Mario nostro si mantiene ottimista, ma credo che sia una mosca bianca. Io non me la sono mai vista così la situazione». E infatti Ida e la figlia Elena il 16 ottobre finiranno nelle mani dei nazisti: Ida morirà di stenti in treno durante la deportazione, Elena sarà gasata ad Auschwitz.

Scampati alla retata, Noemi, il marito Mario e il figlioletto Marco trovano ospitalità presso l’Istituto Svedese di Studi Classici in Via Omero, nella zona di Valle Giulia. Grazie all’extraterritorialità i tre si sentono al sicuro. Ma, come si legge nella ricostruzione di Di Giovanni, in primavera cadono in un’imboscata della polizia fascista. La mattina del 5 aprile 1944, in seguito ad una delazione, sono fermati da due agenti mentre si trovano all’esterno dell’Istituto assieme a Filippo Magi, assistente per l’Archeologia classica alla Direzione Generale dei Musei Vaticani.

Vengono arrestati e rinchiusi nel carcere di Regina Coeli a disposizione delle autorità tedesche. Due giorni dopo sarà arrestato sempre a Roma, in circostanze analoghe, un ragazzo di 16 anni, Piero Terracina, e portato nel carcere assieme a tutta la famiglia.

 Del caso dei Segre si interessa anche la Segreteria di Stato vaticana, nella persona di Giovanni Battista Montini (il futuro Papa Paolo VI) che il 15 aprile interviene presso l’Ambasciatore di Germania Ernst von Weizsacker nel vano tentativo di salvare gli arrestati dalla deportazione e dalla morte: “Si implora dalle autorità germaniche il rilascio dell’intera famiglia Segre".

Dopo alcune tappe intermedie la famigliola è trasferita nel campo di Fossoli, dove resterà però solo poco tempo. Il 16 maggio 1944 l’appello annuncia la partenza e, scortati dalle SS, i deportati sono avviati alla stazione di Carpi. Terracina ricorderà: “Ci caricarono nei vagoni, eravamo stipati tanto che difficilmente ci si poteva sdraiare. Alla sera il treno cominciò a muoversi e si fermò in quasi tutte le stazioni. Viaggiammo tutta la notte e la mattina seguente, la sete divenne un serio problema perché l’acqua era finita. Il pianto dei bambini, le mamme disperate non sapevano più cosa fare. L’indifferenza dei civili alle stazioni, alla vista dei vagoni merci ed ai pianti dei bambini, non può certo essere dimenticata. Tutti sapevano”.

Nel pomeriggio del 22 maggio il trasporto arriva ad Auschwitz. La mattina del 23 maggio 1944, il convoglio ferroviario entra a Birkenau attraverso la nuova linea ferroviaria. Senza neanche il tempo di salutarsi, Mario raggiunge la fila di sinistra, Noemi e il piccolo Marco quella di destra. Non si rivedranno più. Dei 582 ebrei scesi dal convoglio (tra i quali un bambino nato durante il trasporto), 186 uomini e 70 donne sono selezionati per il lavoro. Gli altri 326, tra i quali Noemi Cingoli (30 anni), Mario (39 anni) e Marco Segre (2 anni), saranno avviati verso le camere a gas. Moriranno la sera stessa.

Frida Misul, ebrea livornese sopravvissuta ad Auschwitz, in una lettera a Umberto Segre, riporta le ultime parole di suo fratello Mario: «Coraggio domani c’incontreremo di nuovo».

 (L'Unione Informa e Moked.it del 27 maggio 2014)

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Storie - Sarfatti in tedesco

di Mario Avagliano

E’ dalla scorsa settimana in libreria in Germania il saggio "Gli ebrei nell'Italia fascista" di Michele Sarfatti (Einaudi), finalmente disponibile oltre che in traduzione inglese ("The Jews in Mussolini's Italy") anche in lingua tedesca. Il titolo è "Die Juden im Faschistischen Italien. Geschichte,Identität, Verfolgung", De Gruyter,Berlin 2014, con la traduzione di Thomas Vormbaum e Loredana Melissari.

Un bel riconoscimento per lo storico italiano che più di ogni altro ha scandagliato le vicende della persecuzione degli ebrei nel nostro Paese. E un modo per far conoscere meglio anche in Germania le leggi razziste del 1938 e la persecuzione delle vite successiva all‘8 settembre 1943.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 giugno 2014)

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Storie - Il razzista Almirante

di Mario Avagliano

Piccolo ripasso di storia su Giorgio Almirante. Quando nell’agosto del 1938 il siciliano Telesio Interlandi, campione dell’antisemitismo fascista, viene nominato da Mussolini direttore dell’ignobile rivista «La Difesa della razza», chiama alla segreteria di redazione il suo giovane collaboratore al «Tevere» Almirante, nato a Salsomaggiore Terme, rampollo di una nobile famiglia molisana, che poi nel dopoguerra sarebbe diventato segretario del Msi.
Almirante si mette subito in luce. In un articolo sul numero 6 della rivista di quello stesso anno, intitolato Né con 98 né con 998, esplicita così la sua convinzione razzista: «il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato. Chi teme ancor oggi che si tratti di un'imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo».
Sul numero 3, sotto il titolo Roma antica e i giudei, Almirante aveva già fatto risalire le origini del razzismo fascista al tempo dei romani, sostenendo che in fatto di antigiudaismo gli italiani «non hanno avuto né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia». Polemizzando con Julius Evola, ancora nel ’42, sul numero 13, in un articolo dal titolo “…Ché la diritta via era smarrita… Contro le ‘pecorelle’ dello pseudo-razzismo antibiologico”, sottolineerà che «Il razzismo nostro deve essere quello del sangue […]. Altrimenti, finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei».

Forse sarebbe bene ricordare questi fatti (e quelli successivi di Almirante brigatista nero nella Repubblica di Salò) a chi oggi lo loda e a chi torna a chiedere di intitolargli strade a Roma e altrove.

(L'Unione Informa e Moked.it dell'8 luglio 2014)

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