Quei massacri ordinati dai Borbone

di Mario Avagliano

Il patriota Luigi Settembrini così descriveva nel 1847 il Regno delle Due Sicilie: «nel paese che è detto giardino d’Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio». E Carlo Pisacane, in una lettera a Giuseppe Fanelli, uno dei pugliesi dei Mille, affermò che anche il Sud aveva dei doveri tremendi perché “ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta”.

Gianni Oliva nel suo recente saggio Napoli e la Sicilia: un regno che è stato grande (Mondadori), ha invece sostenuto che dal 1734 al 1861 il Mezzogiorno visse un grande fervore intellettuale e di rinnovamento sociale, non negando però che il regime borbonico si distinse per la sua opera di repressione dei patrioti.
Ma chi furono davvero i Borbone? Sovrani illuminati, mecenati del progresso, costruttori di un Mezzogiorno moderno e avanzato, oppure regnanti dispotici e illiberali, pronti a sopprimere ogni anelito o aspirazione alla democrazia e alle riforme, anche ricorrendo a mercenari e banditi?
Un nuovo lavoro di Antonella Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate (Arte Tipografica Editrice, pp. 101, euro 12), appena pubblicato, fornisce nuovi elementi a chi propende per la seconda tesi, proponendo la ristampa anastatica di due manoscritti dell’epoca che parlano delle stragi avvenute nel febbraio di quell’anno in due città del Molise che, durante i mesi della nascente Repubblica Napoletana, furono devastate dalle orde sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria, al quale i Borbone, per tentare di arginare il fenomeno rivoluzionario, avevano affidato il duro compito della repressione.
L’esercito del cardinale, sbarcato il 7 febbraio in Calabria, si macchiò di efferati delitti nella sua avanzata verso Napoli (che occupò nel mese di giugno). Gli omicidi in primo piano in questo libro sono quelli dei fratelli Brigida, due giovani patrioti che furono trucidati, assieme ad altri compagni, a Termoli, e quello di Domenico De Gennaro, un giudice di Casacalenda che aveva sostenuto le idee repubblicane.
Le storie sono narrate nei dettagli: la strage di Termoli, da un testimone oculare dei fatti, Teodosio Campolieti, e quella di Casacalenda, da padre Giuseppe La Macchia, il parroco del paese, che fu anche protagonista dei fatti.
Gli elementi che accomunano i due memoriali sono essenzialmente tre: i patrioti vittime di tradimenti ed inganni, la devastazione dei luoghi, e la pietas cristiana invocata sia per i vincitori che per i vinti, nel memoriale su Termoli, dalla madre dei fratelli Brigida, ed in quello su Casacalenda, dal sacerdote La Macchia.
Si tratta, insomma, di due testimonianze forti delle atrocità commesse in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata dall'esercito dei sanfedisti, costituito da mercenari albanesi, contadini del luogo ed avanzi di galera liberati per l'occasione dal cardinale Ruffo con la promessa di un lauto bottino di guerra.
Altamura, ad esempio, venne sottoposta ad assedio e a causa dell’intenso cannoneggiamento, dovette soccombere. Non vennero risparmiati vecchi, donne e bambini; alcuni conventi di suore furono profanati e la città venne data alle fiamme e saccheggiata dalle truppe sanfediste. Le stesse stragi si ripeterono ad Andria e a Trani e Gravina venne saccheggiata e data in premio ai mercenari.
Altre stragi o fucilazioni sommarie si registrarono nei decenni successivi. Un caso esemplare: nel Cilento, definito dalla polizia borbonica la “culla del ribellismo meridionale”, nel 1829 i fratelli Patrizio, Domenico e Donato Capozzoli, tutti e tre patrioti, catturati, furono fucilati a Palinuro e le loro teste mozze portate in giro nei paesi vicini per servire da monito alle popolazioni.
Il libro della Orefice segue quello precedente, Il Pantheon dei Martiri del 1799, e i manoscritti proposti nel libro provengono dallo stesso fondo archivistico di Mariano D'Ayala, con annessa trascrizione e note introduttive della Orefice, dello storico fiorentino Luigi Pruneti e dell'avvocato Mario Zarrelli.
I fratelli Brigida e Il giudice Domenico De Gennaro sono tre dei tanti patrioti oscuri e sconosciuti del Mezzogiorno che tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento animarono le lotte riformiste contro i Borbone e il Risorgimento italiano. Spiega la Orefice: “La mia vuole essere una risposta a chi, negli ultimi tempi, sta tentando un revisionismo storico sul Risorgimento, santificando i briganti e considerando traditori del regno i nostri martiri del 1799. Dai memoriali traspare la vera natura di quanti combatterono per il Borbone, perché lo fecero e da quanto vero "amore per la terra" furono mossi. Come sempre ho lasciato parlare i documenti, quelli veri, quelli scomodi”.

(Il Mattino, 14 giugno 2013)

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Gemellare Roma e Napoli. Un sogno che si rifà al passato

Nel nostro percorso di scrittori della Memoria, non manchiamo di seguire le vicende delle nostre squadre del «cuore»: la Roma e il Napoli.

In questo frangente, al dolore per la morte di Ciro Esposito ci accompagnano la tristezza e la rabbia perché essa rischia, come in altre occasioni, di essere dimenticata. Nessuno di noi potrà dirsi innocente, se non faremo fino in fondo la nostra parte per eliminare ogni forma di violenza dalle manifestazioni calcistiche e tornare alla sana passione di una volta.

Felice, che è più in età, ricorda le sue consegne pomeridiane del pane con il triciclo per poter acquistare il biglietto della partita e quei Roma-Napoli degli anni cinquanta, quando i tifosi della città partenopea percorrevano la Via Appia (non c’era l’autostrada) e arrivati a piazza dei Re di Roma venivano accolti dai romanisti con sberleffi, lazzi, folclore e tric trac. I ricordi di Mario sono legati ai riccioli e al genio di Diego Armando Maradona e a quei coloratissimi derby del Sole degli anni Ottanta in cui romanisti e napoletani, uniti da un gemellaggio, da buoni cugini fraternizzavano e sognavano insieme di porre fine allo strapotere calcistico delle squadre del nord.

Le partite tra Roma e Napoli entravano nei film, come supporto di svago ed allegria e non di violenza. Nei luoghi pubblici di Roma e Napoli ci si poteva dichiarare tifosi di una delle due squadre, senza incorrere in aggressioni verbali e fisiche.

Poteva accadere che un pullman dei napoletani si guastasse e i romanisti presenti si dessero da fare per riparare il guasto. Negli stadi non esistevano curve riservate o settori per gli ospiti.

Questa storia è purtroppo acqua passata. Il presente è triste e le curve degli stadi si sono riempite di estremisti e di violenti e di cori infami e razzisti, come quelli che per esempio si possono leggere sui forum di alcuni «tifosi» della Roma: «Senti che puzza scappano li cani /stanno arrivando i napoletani / o colerosi, terremotati, / con il sapone non vi siete mai lavati…../ Napoli merda, Napoli colera / sei la vergogna dell’Italia intera». Dall’altra parte: «Tevere affogali tutti romanisti bastardi».

Come molti altri settori delle istituzioni, chi ha diretto il calcio non si è dimostrato all’altezza, visti i risultati: da quelli agonistici a livello internazionale alle condizioni delle società sportive e al problema della violenza. Lo stadio è uno degli specchi del Paese, un catino del bene e del male ove si consumano le passioni, troppe volte in modo irrefrenabile.

Dopo i tragici fatti della finale di Coppa Italia e l’agguato ai tifosi napoletani nei pressi dell’Olimpico, nelle settimane scorse abbiamo provato ad avviare un percorso che portasse al ripudio della violenza e dell’intolleranza, consapevoli di percorrere una strada irta di difficoltà, fatta di disinteresse e diffidenza. Ma sorretti dalla forte preoccupazione che il solco tra romanisti e napoletani scavato da questo episodio e dal razzismo crescente verso Napoli e il Sud che si diffonde come un virus nelle curve e nelle scuole, generi altri drammi, altre divisioni, altre violenze.

 
Abbiamo interessato gli speaker dell’Olimpico e dello Stadio S. Paolo, uno dei capi delle tifoserie organizzate romaniste, una radio locale romanista e nei mesi scorsi il Presidente del Coni e l’ex presidente del Pavia Calcio che all’inizio anni novanta intraprese l’iniziativa di «Uno Stadio per Amico».

Ci hanno dato attenzione e disponibilità il Presidente del Coni, del Pavia Calcio e lo speaker dello Stadio San Paolo. Questa è la situazione. Prevale più la preoccupazione di ricevere probabilmente critiche del tifosi più esagitati e di impegnare parte del loro tempo in un’iniziativa buonista che forse non paga.

È nata allora l’idea di lanciare un gruppo su Facebook (https://www.facebook.com/#!/groups/580927008693509/) che unisse tutti coloro che vogliono ripristinare un ideale gemellaggio tra le squadre di Roma e Napoli, due città bellissime, legate da un rapporto plurisecolare e da storie patriottiche comuni, come la Repubblica romana e la Repubblica napoletana, rivolgendo un appello a mobilitarsi anche ai personaggi napoletani e romani del mondo della cultura, della letteratura e dello spettacolo. Le prime adesioni sono state molte e convinte. La speranza è che la goccia nel mare di questo gruppo diventi onda e travolga i violenti e i razzisti dell’una e dell’altra parte.

Dimostrando che i veri romanisti e napoletani non si riconoscono né nell’estremista Daniele De Santis né nell’arruffapopolo Genny la carogna. Perché la morte di Ciro, come ci ha ricordato la sua generosa mamma, non sia vana.

Mario Avagliano
Scrittore della Memoria e tifoso del Napoli

Felice Cipriani
Scrittore della Memoria e tifoso della Roma

(Corriere della Sera, 30 giugno 2014)

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