"Stirpe e vergogna" di Michela Marzano

di Mario Avagliano

Gli italiani i conti con la propria storia recente, e in particolare con il fascismo, che abbagliò con la sua luce sinistra la maggior parte della popolazione, ancora non li hanno fatti. Nel nostro Paese non c’è stata un’assunzione di responsabilità di ciò che è accaduto dopo la conquista del potere da parte di Benito Mussolini e il varo delle leggi fascistissime – soppressione delle libertà, caccia agli oppositori, leggi razziali, crimini di guerra - con un processo Norimberga o un processo Tokyo, come avvenuto in Germania e in Giappone. Di più, dopo la liberazione l’Italia fu la prima nazione europea a lanciare un’amnistia generalizzata, già nel giugno 1946, a firma del leader dei comunisti Palmiro Togliatti, all’epoca ministro della Giustizia, anche se frutto di un accordo con il democristiano Alcide De Gasperi, capo del governo.

La conseguenza di questa fretta di voltar pagina è che molti italiani che si erano sporcati le mani con il fascismo, ne hanno bellamente approfittato, celando sotto il tappeto il proprio scomodo passato. Una rimozione collettiva, in qualche modo avallata dallo Stato. E così, scavando nelle storie familiari, può capitare di scoprire, consultando un certificato di battesimo, come accade a Michela Marzano, che il vero nome completo del padre non è solo Ferruccio, bensì Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito. Sì, proprio Benito, come Mussolini. E quando gli chiede il perché, lui risponde con nonchalance che il nonno Arturo era fascista. La scrittrice, ex deputata del Pd, rimane traumatizzata e comincia a porsi degli interrogativi inquietanti. A chiedersi se la propria autorappresentazione di donna di sinistra, proveniente da una famiglia democratica e progressista (il padre è da sempre socialista), non presenti qualche falla.

È il tema dell’intenso romanzo Stirpe e vergogna (pubblicato da Rizzoli), in cui Michela Marzano, con uno stile incalzante e avvincente, compie un’indagine retrospettiva sul nonno magistrato, Arturo Marzano, nato vicino a Lecce nel 1897, sottotenente sul Carso nel 1917. E ricordando che nella casa dove ha trascorso l’infanzia a Campi Salentina passava sempre davanti a una grande teca piena di medaglie, bottoni, nastri e fascette, la cerca nella casa dei genitori a Roma. Vi rinviene la tessera del nonno di iscrizione al movimento di Mussolini risalente addirittura al maggio 1919, poco dopo la fondazione dei Fasci di combattimento, e l’attestazione che ha partecipato alla marcia del 28 ottobre 1922. Tutti lo sapevano eccetto lei.

Nonostante la sorpresa e lo sgomento interiore, Michela Marzano non sfugge al passato e anzi testardamente si avventura a frugare nei cassetti, nei documenti e negli album fotografici di famiglia, divorando nel frattempo libri, articoli di giornale e film o documentari su quegli anni, per ricostruire la parabola umana, politica e sentimentale di Arturo. Dal matrimonio con la nonna Rosa, da cui avrà due figli, all’appassionata relazione extraconiugale con Bice (recuperando il carteggio tra i due amanti), dalla sua adesione al fascismo alla sua partecipazione attiva, in qualità di magistrato, alla commissione di Lecce che stabiliva quali italiani mandare al confino per attività antifascista o semplicemente per una barzelletta sul duce o un insulto, fino al processo per l’epurazione nel 1944, ai silenzi successivi su quella storia, alla sua elezione come deputato del partito monarchico nel 1953 e alla sua morte nel 1976, quando la nipote aveva appena sei anni.

Un’inchiesta intima e familiare, quasi sotto forma di diario, che sfiora anche altre pieghe oscure della vita dell’autrice, come il suo difficile rapporto con la maternità e con il padre Ferruccio. E che però, superando gli inevitabili ostacoli del viaggio interiore (il 25 aprile del 2020 Michela confessa di vivere per la prima volta «il giorno della Liberazione con imbarazzo»), diventa anche un’inchiesta pubblica sulle colpe di quasi tutti gli italiani, visto che gli antifascisti furono un’esigua, seppur coraggiosa, minoranza. Come fu possibile che un intero popolo s’innamorasse del duce? E che anche un uomo capace di tenerezza e di «cuore grande» come il nonno Arturo non abbia capito il male del fascismo? La tesi di Marzano è che Il riscatto, come è intitolata l’ultima parte del romanzo, si realizzi solo con il passaggio dallo stato di amnesia del dopoguerra alla presa di coscienza del carattere dittatoriale del fascismo e dell’ampio consenso degli italiani al duce. L’Italia sarà mai in grado di farlo fino in fondo, senza sconti di sorta e senza infingimenti?

(Blog Mario Avagliano, 2021)

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Dopoguerra, la recensione di Mangialibri

di Erminio Fischetti

Sono le undici del mattino di giovedì 26 aprile 1945: le strade di Milano sono ancora scosse dagli echi delle ultime sparatorie e dal frastuono dei mezzi militari in fuga. Alcuni furgoncini corrono e da essi vengono lanciate delle copie di un giornale fresco di stampa. La testata è “Il Nuovo Corriere”, ma in realtà non si tratta d’altro che del “Corriere della sera”, che per l’occasione, segnando la fine di un’epoca, ha cambiato nome. Inoltre, in questo modo il quotidiano prende definitivamente le distanze da un passato che al pari di altri giornali ha visto la storica testata, fondata nel 1876, pesantemente assoggettata al fascismo. Nei mesi precedenti tra i partiti aderenti al Comitato di liberazione nazionale (Cln) circola l’idea di chiudere addirittura il quotidiano di via Solferino al momento della Liberazione, ma poi, nel corso di una riunione alla quale prende parte anche il capo militare della Resistenza Ferruccio Parri, in passato redattore del giornale in questione, viene deciso di consentire l’uscita di almeno un numero, con una nuova testata e una redazione di giornalisti non compromessi in alcun modo con i tedeschi e il passato regime. L’incarico di direttore viene affidato a Mario Borsa, che il regime ha messo addirittura in galera e in campo di concentramento, mentre Gaetano Afeltra, altro dei cui sentimenti antifascisti nessuno dubita, viene affidato il compito di curare il collegamento fra il Cln e le due cellule, fatte per lo più di maestranze e tipografi, antifasciste attive nel giornale…

Mario Avagliano, giornalista, saggista, storico, membro dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza e di molte altre associazioni, ha all’attivo un buon numero di pubblicazioni di rilievo, per lo più focalizzate sulla storia del Novecento e della dittatura mussoliniana. Questo è l’ottavo libro, dopo Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-45, Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-45, Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici italiani 1943-1945, Di pura razza italiana. L’Italia “ariana” di fronte alle leggi razziali, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943, L’Italia di Salò. 1943-1945 e 1948Gli italiani nell’anno della svolta, che scrive con Marco Palmieri, anch’egli giornalista e saggista: il tema, come denota il titolo, sono in questo caso gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, raccontati con lucida chiarezza ed estrema dovizia di particolari, sottolineata da un massiccio apparato di note. L’Italia è sconfitta, umiliata e distrutta; gli italiani hanno voglia di pace, pane, lavoro, ricostruzione, cambiamento; la monarchia che ha avallato il fascismo e poi è scappata a gambe levate viene battuta al referendum (memorabile la scena a tal riguardo con protagonisti Lea Massari e Alberto Sordi in Una vita difficile di Dino Risi del 1961); nasce la Repubblica; si scrive, anche grazie alle donne, che finalmente hanno potuto votare ed essere elette, la Costituzione; i primi governi a trazione democristiana portano il paese sotto l’egida degli USA, nonostante il PCI sia la più grande compagine comunista d’occidente; arrivano i soldi del piano Marshall; i liberatori ex partigiani cominciano a litigare (e i parlamentari italiani non hanno più smesso…), mentre al cinema – la tv ancora non c’è – escono pellicole come Roma città aperta, Giorni di gloria, Abbasso la miseria!, La vita ricomincia, Paisà, Sciuscià, Mio figlio professore, Il sole sorge ancora e L’onorevole Angelina, espressioni di un mood e una Weltanschauung che sono alla base dell’immaginario collettivo delle generazioni successive.

(Mangialibri)

Due secoli di Italia che va su due ruote

di Mario Avagliano

 

«Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia», sosteneva Gianni Brera. Ma in un panorama storiografico in gran parte rivolto alla ricostruzione di personalità, battaglie e idee politiche, finora la bicicletta non risultava possedere i quarti di nobiltà sufficienti per assurgere a oggetto di studio da parte degli storici. Nonostante che essa fin dalla sua comparsa, nella seconda metà dell’Ottocento (il primo esemplare circolò nel 1867 per le strade di Alessandria tra gli sguardi stupefatti dei passanti), abbia rivoluzionato usi e costumi della società italiana.

A colmare questo vuoto di ricerca è l’intrigante saggio di Stefano Pivato, «Storia sociale della bicicletta» (Il Mulino), che racconta in modo agile e ricco di aneddoti come il velocipede, così si chiamava all’origine, sia diventato nel corso dei decenni «il terreno di scontro fra passatisti e innovatori».

La velocità delle prime biciclette che sfrecciano per le vie cittadine crea paura e sconcerto, anche perché all’inizio non è facile, anche per abili ciclisti, guidarle senza subire o provocare incidenti essendo complicato stare in equilibrio su mezzi la cui ruota anteriore raggiunge spesso il metro e mezzo di diametro.

Nel corso del primo decennio del Novecento, con l’evoluzione tecnica del mezzo, la bicicletta si avvia a divenire bene di consumo popolare. «Mettetevi alla finestra di una delle arterie principali di qualche grande città», osserva nel 1908 il Touring Club, che è alla testa di chi promuove l’uso del nuovo mezzo, «e voi vedrete all’alba e al tramonto nugoli di operai, d’impiegati, di professionisti che in bicicletta vanno e tornano dal lavoro».

Ma in una società ancorata a ritmi immutati da secoli, il mezzo a due ruote si caratterizza come un elemento perturbante per l’ordine sociale e morale. C’è addirittura chi lo considera il diavolo in persona, come fa un raffinato latinista, Luigi Graziani, che nel 1902 compone il carme In re ciclistica Satan: «Ah! Vada alla malora […] alla malora la bicicletta e chi l’inventò e chi l’inforca. Non è forse Satana l’inventore di un mostro sì detestabile? […] Che è lui, sempre lui, che spinge a corse vertiginose e pazze quelle gracili ruote?».

La bicicletta è ritenuta un attentato al decoro di quanti rivestono un ruolo pubblico. In particolare l’uso viene proibito ai preti (il più severo censore si rivela Papa Pio X) e agli ufficiali dell’esercito, perché scompone la veste talare dei primi e le uniformi dei secondi, esponendoli al ridicolo. Il disordine delle vesti che maggiormente scandalizza l’opinione perbenista è però quello delle donne, che per pedalare più comodamente si appropriano di un capo di abbigliamento da secoli esclusiva di mariti e fidanzati: il pantalone.

Pregiudizi che attecchiscono più nel Meridione che al Nord. Le prime statistiche segnalano che i ciclisti nel 1900 sono 109.019 su una popolazione di circa 23 milioni e la città con la più alta concentrazione di biciclette in rapporto alla popolazione è Milano: 163 su 1.000 abitanti. In coda alla classifica Napoli (7), Cagliari (4) e Bari (3). Una spassosa corrispondenza da Napoli su un giornale milanese riferisce che tra i «più fieri avversari dei poveri ciclisti (ci) sono i cocchieri da Nolo. La bicicletta è il loro odio: quando ne vedono passare una, mandano un mondo di frizzi e di bestemmie all’indirizzo del povero ciclista che se li sentisse diverrebbe pallido per la commozione. Il complimento più comune e meno terribile che accompagna l’apparizione di un velocipedista, è questo: “Te puozze spezza’ e gamme”: poi vengono in un crescendo rossiniano gli altri: “Te puozze fa ’a cape sei parte” e “Te puozze rompere ’a Noce d’o cuolle”».

Ma col passare del tempo, racconta Pivato nel suo libro, anche questi divieti vengono superati. La bici diventa il mezzo di locomozione più diffuso nelle città come in campagna, utilizzato durante la Grande Guerra (Enrico Toti girò tutta l’Europa grazie a una bici con un solo pedale), il primo dopoguerra e infine la Resistenza, durante la quale la bicicletta viene adoperata dai gappisti nelle città per compiere atti di guerra contro i nazifascisti, e dai resistenti per portare documenti ai partigiani o agli ebrei in fuga, come fecero Gino Bartali e don Primo Mazzolari.

Il ciclismo in quegli anni è lo sport più popolare nel Belpaese e i suoi due eroi, Coppi e Bartali, appassionano gli italiani e li dividono in due fazioni. Nel primo dopoguerra, non a caso, la bici è anche protagonista, nel 1948, di uno dei capolavori della cinematografia mondiale di tutti i tempi, Ladri di biciclette.

A partire dagli anni Sessanta, in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e nel periodo della prima crisi energetica globale, si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Basti pensare alle domeniche dell’austerity senza automobili della fine degli anni Settanta, quando le città tornano a riempirsi di bici. Fino ai tempi di oggi, dei mutamenti climatici, in cui si assiste alla rivincita della bicicletta, diventata mezzo di mobilità green, affermandosi, a sentire uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, quale simbolo di un «nuovo umanesimo» diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale.

 (pubblicato su "Il Mattino" del 5 gennaio 2020 e su "Il Nuovo Quotidiano di Puglia" del 7 gennaio 2020)

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