Candido Manca, lo "stradino" martire delle Ardeatine

Fra i martiri delle Fosse Ardeatine figura anche un dipendente dell’Anas, allora AASS, il sardo Candido Manca. La sua figura è ricordata nel bel libro di Mario Avagliano, “Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945”, pubblicato da Einaudi, una storia della Resistenza, della deportazione e dell’internamento militare attraverso gli scritti dei protagonisti.

Nato a Dolianova (Cagliari) il 31 gennaio 1907, Manca nel '25 si arruolò volontario nei carabinieri. Prestò servizio a Roma, e dopo tre anni di ferma fu congedato. Rimasto nella capitale, ottenne il diploma di ragioniere e fu assunto nell'Azienda Autonoma Statale della Strada (AASS, poi ANAS). Fu richiamato alle armi una prima volta nel '35, per un anno, e di nuovo nel '39 per alcuni mesi e poi nel '40, con il grado di vicebrigadiere, sempre rimanendo in servizio presso la AASS. Nel '43 era brigadiere, nella compagnia squadre reali e presidenziali di Roma. Dopo l'8 settembre, riuscì a sfuggire ai tedeschi che avevano occupato le caserme. Insieme ad altri 30 carabinieri sbandati che aveva raccolto con sé, entrò nella banda "Caruso", che faceva parte del Fronte Militare Clandestino di Montezemolo, svolgendo azioni militari e raccogliendo informazioni utili al movimento partigiano e agli Alleati. Fu catturato dalla Gestapo il 10 dicembre del '43, insieme al tenente dei carabinieri Romeo Rodriguez Pereira e al capitano dei carabinieri Genserico Fontana, mentre si stava recando da un contabile che procurava denaro ai partigiani. Rinchiuso nel carcere di via Tasso, subì più volte la tortura, ma non rivelò i nomi dei compagni. Fu fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo del '44. Nel dopoguerra gli fu assegnata la medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Una lapide lo ricorda a via Chiana a Roma.

 

 

«I bisogni dobbiamo farli nella cella stessa in un recipiente chiamato bugliolo»

 

di Candido Manca

 

[Roma, carcere di via Tasso] 3.1.1944

 

Bolò mia cara,

ho ricevuto tutti i pacchi, il penultimo conteneva il Mom, di quest'ultimo fammi il piacere di mandarmene ancora, vedi di trovare i barattoli che credo sia migliore. Vuoi sapere come passo i giorni? Puoi immaginarlo, in una cella di metri quadrati 4 e 25 cm. mezza internata con una finestra munita di inferriata, ramata a vetri, semibuia. Come vitto ci danno due pagnotelle, caffè la mattina e appena un pasto di minestra alle 12. Nella cella siamo in quattro e dormiamo sul pagliericcio con due coperte a testa, i bisogni dobbiamo farli nella cella stessa in un recipiente chiamato "bugliolo"; sono sicuro che la faccenda dell'evacuazione davanti agli altri ti faccia sorridere sapendo quanto io ero suscettibile a tale funzione. Per riuscirci la parola d'ordine è «faccia al muro»... viene aperta la finestra e appena finito si apre lo sportellino della porta, il perché lo puoi immaginare. La salute è ottima, il raffreddore è quasi scomparso. Con la venuta del quarto abbiamo avuto la sorpresa dei pidocchi. Fattolo sapere al comandante questi ci ha fatto fare il bagno e disinfettare i vestiti al vapore. Dirti le peripezie non basterebbe un quaderno, ne abbiamo passato delle belle e delle brutte. Che vuoi fare ci abbiamo riso sopra. Ti avevo detto di mandarmi roba da mangiare di meno perché tesoro mio vedo che la mia permanenza qui sembra che duri e non vorrei dar fondo a quel poco che abbiamo messo da parte (puoi mandarmi della verdura al posto della carne che nutro desiderio). Quanto vi desidero! Dei giorni sono tanto triste per questo motivo. Per tutto il resto tengo alto il morale data la mia innocenza. Hai fatto bene di essere stata da Ciccillo per il primo dell'anno, così ti sei un pò divagata. Quanta tenerezza mi dai quando mi parli dei bambini, sento di adorarli in un modo tale che spesse volte anzi sempre a me e ai miei compagni di cella ci escono le lacrime. Hai fatto male di non aver allestito l'albero di Natale. Perché hai privato gli angioletti nostri di quella contentezza. Ad ogni modo spero che a Mariella per il suo compleanno avrai comprato qualche bel giocattolo e pure a Giancarlo. Come stai in salute? Mi auguro bene. Mandami cento lire specie da dieci e da cinque. Quella somma che avevo addosso è qui in deposito e la daranno quando uscirò oppure alla famiglia se fornita dell'autorizzazione del Comando Tedesco "albergo Flora". Fammi pervenire il libro di italiano "da Dante al Pascoli" che deve essere sulla ghiacciaia, la copertina è color marrone. Comprami un piccolo dizionario italiano-tedesco, bada deve essere tascabile e deve contenere anche come si pronunziano le parole. Stai attenta a fianco della parola tradotta deve esserci anche come deve leggersi. Al porta pranzo ti sei dimenticata di mettere la guarnizione cosa che ha permesso al signor sugo di uscire. Non ti faccio gli auguri per il nuovo anno ti dico soltanto che questo dovrà apportarci la felicità e la salute, altro non chiedo a Iddio. Ti abbraccio e ti bacio caramente assieme ai bambini tuo per sempre

Candido

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Due secoli di Italia che va su due ruote

di Mario Avagliano

 

«Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia», sosteneva Gianni Brera. Ma in un panorama storiografico in gran parte rivolto alla ricostruzione di personalità, battaglie e idee politiche, finora la bicicletta non risultava possedere i quarti di nobiltà sufficienti per assurgere a oggetto di studio da parte degli storici. Nonostante che essa fin dalla sua comparsa, nella seconda metà dell’Ottocento (il primo esemplare circolò nel 1867 per le strade di Alessandria tra gli sguardi stupefatti dei passanti), abbia rivoluzionato usi e costumi della società italiana.

A colmare questo vuoto di ricerca è l’intrigante saggio di Stefano Pivato, «Storia sociale della bicicletta» (Il Mulino), che racconta in modo agile e ricco di aneddoti come il velocipede, così si chiamava all’origine, sia diventato nel corso dei decenni «il terreno di scontro fra passatisti e innovatori».

La velocità delle prime biciclette che sfrecciano per le vie cittadine crea paura e sconcerto, anche perché all’inizio non è facile, anche per abili ciclisti, guidarle senza subire o provocare incidenti essendo complicato stare in equilibrio su mezzi la cui ruota anteriore raggiunge spesso il metro e mezzo di diametro.

Nel corso del primo decennio del Novecento, con l’evoluzione tecnica del mezzo, la bicicletta si avvia a divenire bene di consumo popolare. «Mettetevi alla finestra di una delle arterie principali di qualche grande città», osserva nel 1908 il Touring Club, che è alla testa di chi promuove l’uso del nuovo mezzo, «e voi vedrete all’alba e al tramonto nugoli di operai, d’impiegati, di professionisti che in bicicletta vanno e tornano dal lavoro».

Ma in una società ancorata a ritmi immutati da secoli, il mezzo a due ruote si caratterizza come un elemento perturbante per l’ordine sociale e morale. C’è addirittura chi lo considera il diavolo in persona, come fa un raffinato latinista, Luigi Graziani, che nel 1902 compone il carme In re ciclistica Satan: «Ah! Vada alla malora […] alla malora la bicicletta e chi l’inventò e chi l’inforca. Non è forse Satana l’inventore di un mostro sì detestabile? […] Che è lui, sempre lui, che spinge a corse vertiginose e pazze quelle gracili ruote?».

La bicicletta è ritenuta un attentato al decoro di quanti rivestono un ruolo pubblico. In particolare l’uso viene proibito ai preti (il più severo censore si rivela Papa Pio X) e agli ufficiali dell’esercito, perché scompone la veste talare dei primi e le uniformi dei secondi, esponendoli al ridicolo. Il disordine delle vesti che maggiormente scandalizza l’opinione perbenista è però quello delle donne, che per pedalare più comodamente si appropriano di un capo di abbigliamento da secoli esclusiva di mariti e fidanzati: il pantalone.

Pregiudizi che attecchiscono più nel Meridione che al Nord. Le prime statistiche segnalano che i ciclisti nel 1900 sono 109.019 su una popolazione di circa 23 milioni e la città con la più alta concentrazione di biciclette in rapporto alla popolazione è Milano: 163 su 1.000 abitanti. In coda alla classifica Napoli (7), Cagliari (4) e Bari (3). Una spassosa corrispondenza da Napoli su un giornale milanese riferisce che tra i «più fieri avversari dei poveri ciclisti (ci) sono i cocchieri da Nolo. La bicicletta è il loro odio: quando ne vedono passare una, mandano un mondo di frizzi e di bestemmie all’indirizzo del povero ciclista che se li sentisse diverrebbe pallido per la commozione. Il complimento più comune e meno terribile che accompagna l’apparizione di un velocipedista, è questo: “Te puozze spezza’ e gamme”: poi vengono in un crescendo rossiniano gli altri: “Te puozze fa ’a cape sei parte” e “Te puozze rompere ’a Noce d’o cuolle”».

Ma col passare del tempo, racconta Pivato nel suo libro, anche questi divieti vengono superati. La bici diventa il mezzo di locomozione più diffuso nelle città come in campagna, utilizzato durante la Grande Guerra (Enrico Toti girò tutta l’Europa grazie a una bici con un solo pedale), il primo dopoguerra e infine la Resistenza, durante la quale la bicicletta viene adoperata dai gappisti nelle città per compiere atti di guerra contro i nazifascisti, e dai resistenti per portare documenti ai partigiani o agli ebrei in fuga, come fecero Gino Bartali e don Primo Mazzolari.

Il ciclismo in quegli anni è lo sport più popolare nel Belpaese e i suoi due eroi, Coppi e Bartali, appassionano gli italiani e li dividono in due fazioni. Nel primo dopoguerra, non a caso, la bici è anche protagonista, nel 1948, di uno dei capolavori della cinematografia mondiale di tutti i tempi, Ladri di biciclette.

A partire dagli anni Sessanta, in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e nel periodo della prima crisi energetica globale, si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Basti pensare alle domeniche dell’austerity senza automobili della fine degli anni Settanta, quando le città tornano a riempirsi di bici. Fino ai tempi di oggi, dei mutamenti climatici, in cui si assiste alla rivincita della bicicletta, diventata mezzo di mobilità green, affermandosi, a sentire uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, quale simbolo di un «nuovo umanesimo» diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale.

 (pubblicato su "Il Mattino" del 5 gennaio 2020 e su "Il Nuovo Quotidiano di Puglia" del 7 gennaio 2020)

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Biacchessi, pagine partigiane a rischio di «smemoria»

di Mario Avagliano

 

Ad uno ad uno, purtroppo, se ne stanno andando gli ultimi testimoni della Resistenza contro la dittatura fascista e l’occupazione nazista. Centinaia e centinaia di ex partigiani ci lasciano così, senza troppe celebrazioni, accompagnati spesso dalle note di Bella ciao, con intorno qualche vecchio compagno, i familiari, rare bandiere tricolori. Muoiono come persone normali, umili e semplici, protagonisti della grande stagione delle scelte, e lasciano un vuoto che è impossibile da colmare. E con loro potrebbero svanire anche le storie dell’Italia partigiana. «L’Italia liberata. Storie partigiane», di Daniele Biacchessi (Jaca Book) parte proprio da qui, dalla fine anagrafica di una generazione di italiani che in soli venti mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, riprese le redini del Paese e lo condusse attraverso la Costituzione repubblicana verso la democrazia, dopo lunghi anni governati dal regime fascista, dalle barbarie e dall’orrore del nazismo.

La battaglia per la memoria della Resistenza di Biacchessi non parte adesso. Dal 2004 il giornalista-saggista-regista e interprete porta in giro per l’Italia (spesso nei luoghi simbolo della guerra di liberazione) e in Europa uno spettacolo di teatro civile in versione solista o accompagnato da Gang, Gaetano Liguori, Michele Fusiello, Massimo Priviero e altri. Questo spettacolo è ora diventato un libro, con l’obiettivo di «narrare la vita di uomini e di donne che con le loro azioni coraggiose hanno cambiato il corso della Storia e smontare attraverso l’oggettività della documentazione, orale e scritta, la forza delle parole e della narrazione, le tesi false del nuovo revisionismo».

Uno dei meriti di questo lavoro è puntare l’attenzione, con taglio divulgativo, oltre che sulle storie note dei sette fratelli Cervi, della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia, delle stragi di civili a Boves, Sant’Anna di Stazzema, Montesole e tante altre località, del terribile eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma (nel quale furono uccisi anche numerosi meridionali) e delle violenze delle autorità di Salò e delle bande fasciste, anche su altre vicende meno conosciute, compreso alcuni episodi di resistenza nel Sud tra il settembre e l’ottobre del 1943.

Un ampio capitolo è ovviamente dedicato al moto di popolo delle quattro giornate di Napoli, nato in seguito alla razzia della città scatenata dai tedeschi, che saccheggiano la città, uccidono un marinaio, Andrea Mansi di stanza a Rovello, sulla soglia dell’università, lungo il Rettifilo, rastrellano centinaia di persone, rapinano cittadini, sparano sulle donne che fanno la coda davanti ai negozi, lasciano per giorni senza pane una città di un milione di abitanti.

La rivolta esplode fulminea tra il 27 e il 28 settembre al Vomero, in via Chiaia, in piazza Nazionale, in decine di punti diversi della città. È la rivolta degli eroi bambini, dal volto sporco e dallo sguardo furbo, e degli scugnizzi di Napoli. Il dodicenne Gennaro Capuozzo resta al suo posto di servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa, presa sotto il fuoco di carri armati nazisti. Viene colpito in pieno da una granata mentre difende la sua città. Filippo Illuminato, tredici anni, e Pasquale Formisano, diciassette, corrono incontro a due autoblindo che cercano d’imboccare via Roma da via Chiaia. Avanzano decisi e rapidi, fino a quando cadono esanimi mentre lanciano una bomba contro i nazisti. In ogni rione emergono i capipopolo: Stefano Fadda a Chiaia, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Il 30 settembre i nazisti sgomberano la città. Il nemico si lascia dietro una lugubre scia di rappresaglie: gruppi di guastatori massacrano alcuni giovani in località Trombino.

Ma Biacchessi parla anche dell’insurrezione di Matera del 21 settembre 1943 e di Lanciano del 5-6 ottobre, delle stragi naziste a Rionero in Vulture il 24 settembre e a Caiazzo, in provincia di Caserta, il 13 ottobre, delle bande partigiane in Abruzzo e della battaglia di Bosco Martese del 25-26 settembre, definita da Ferruccio Parri «la prima battaglia campale in campo aperto della resistenza italiana».

Di grande interesse le storie di formazioni partigiane mitiche come la banda Tom e di partigiani eroici come Dante Di Nanni, pugliese residente a Torino, che il 18 maggio 1944 si barrica in casa e resiste da solo all’assalto di un centinaio di fascisti e nazisti, uccidendone 9 e ferendone 17, fin quando circondato e coperto di sangue, preme il ventre alla ringhiera del balcone e saluta col pugno alzato gridando «Viva l’Italia». Poi si getta di schianto con le braccia aperte sull’asfalto.

In chiusura, le interviste dello stesso Biacchessi ad alcuni protagonisti dell’epoca, padri della repubblica: Tina Anselmi, Vittorio Foa, Giuliano Vassalli, Giorgio Bocca, il quale regala una riflessione amara ma con un fondo di verità, almeno per una parte di nostri connazionali: «Come diceva Livio Bianco di Giustizia e Libertà, “la Resistenza è stata una lunga e meravigliosa vacanza”, nel senso che pur nel dramma è stato un periodo bello, un momento in cui si ritrovavano tutti i valori democratici fondamentali. Ma è durato poco, perché poi gli italiani hanno continuato ad essere quello che sono sempre stati: voltagabbana e servitori».

(Il Mattino, 10 dicembre 2019)

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Storia nazionale riletta tra Stalin e De Gasperi

di Mario Avagliano

Ancora oggi molte storie generali e libri di testo per studenti universitari continuano a descrivere l’Italia del dopoguerra come «vassalla» di Washington e totalmente subalterna alla politica americana e sottovalutano l’influenza sovietica sui partiti e sugli intellettuali italiani. Ma il leader democristiano Alcide De Gasperi fu davvero un burattino nelle mani del presidente americano Harry Truman, come lo descrivevano i manifesti di propaganda elettorale del Fronte Popolare alle politiche del 1948? E il segretario comunista Palmiro Togliatti cercò realmente una «via italiana» al socialismo?

A fare chiarezza sulla politica estera italiana è il saggio «L' Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda», appena uscito per i tipi del Mulino e opera di Elena Aga Rossi, una delle maggiori studiose della politica e dell'intervento degli Alleati in Europa e dell'influenza dell'Unione Sovietica in Italia nei primi anni della guerra fredda.

Sull'una e l'altra tematica Elena Aga Rossi, lavorando in più archivi, non solo italiani ma anche sovietici, americani e inglesi, ha prodotto alcune ricerche originali che hanno in più casi costituito punti di svolta sulla storia politica del nostro paese e ora trovano qui una sistemazione unitaria, che va dai piani alleati per la divisione dell'Europa, sullo sfondo della Campagna d'Italia, fino al ruolo di De Gasperi nella rottura con le sinistre del maggio 1947 e ai rapporti del Pci e del Psi con l'Unione Sovietica.

In realtà, l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza occidentale, data per certa durante la guerra dalle conferenze di Jalta e di Teheran, fu poi messa in discussione alla fine del 1947, non soltanto per l’ipotesi di un possibile colpo di mano comunista, ma soprattutto nel caso di una vittoria elettorale dei partiti di sinistra alle politiche del successivo aprile. La stessa Urss progettava una graduale sovietizzazione d’Europa nell’arco di un paio di generazioni, grazie anche alla prevista crisi del capitalismo.

Elena Aga Rossi con i suoi studi ha contribuito a smontare, sulla base di documenti d’archivio, alcuni miti della storia italiana. La svolta di Salerno di Togliatti, ovvero l’improvvisa apertura di credito del Pci al governo Badoglio, che spiazzò gli altri partiti di sinistra, sarebbe stata un’indicazione di Stalin e non una decisione autonoma del segretario comunista. La presunta autonomia del Pci (e anche del Psi di Pietro Nenni) rispetto all’Urss e la ricerca di una via nazionale sarebbe stata solo di facciata ma non di sostanza, come testimoniano la piena adesione dei comunisti italiani al Cominform e la vicenda di Trieste, sulla quale Togliatti si appiattì sulla linea di Stalin e di Tito. L’apertura degli archivi sovietici, avvenuta solo negli anni Novanta, ha consentito di documentare questi rapporti e di vedere per la prima volta «l’altra faccia della luna».

La longa manus dell’Urss si sarebbe manifestata anche con un condizionamento della politica editoriale di quegli anni in Italia, suggerendo alle principali casi editrici, compreso l’Einaudi e Laterza, la pubblicazione di saggi di chiara impronta filocomunista e antiamericana e di contro ostacolando la diffusione di libri di denuncia dell’oppressione sovietica come «Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzenicyn e «Vita e destino» di Vassilij Grossman.

La stessa decisione di De Gasperi di rompere la coalizione con socialisti e comunisti e di varare un governo moderato, non sarebbe il frutto «avvelenato» del suo viaggio in Usa del gennaio 1947 ma una scelta dello statista democristiano dovuta a fattori interni, quali la sconfitta della Dc ai turni elettorali delle amministrative a Roma e altre città e delle regionali in Sicilia e la scarsa affidabilità dei partiti di sinistra, più di lotta che di governo. Una svolta politica sofferta (sul punto la Dc era divisa) e che è stata vista a lungo come la fine delle speranze di cambiamento generate dalla Resistenza e solo di recente è stata inquadrata come determinante per la ricostruzione del Paese in senso democratico.

Non c’è dubbio, rileva Elena Aga Rossi, che gli Usa (peraltro più teneri e accomodanti verso gli italiani rispetto agli inglesi) esercitarono una pesante influenza, politica ed economica, sull’Italia del dopoguerra, prima con la Commissione alleata di controllo e poi attraverso il Piano Marshall. Ma il nostro Paese era allo stremo delle forze e aveva poche alternative, poiché senza gli aiuti americani non si sarebbe potuta concretizzare la ricostruzione e ogni tentativo di ottenere aiuti da parte dell’Urss non ebbe alcun seguito, anzi i sovietici furono in prima fila nel richiedere all’Italia le riparazioni di guerra. E d’altronde quel piano fu alla base del boom degli anni successivi e consentì all’Italia di entrare nel club delle grandi potenze.

(Il Mattino, 19 ottobre 2019)

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Per una storia complessiva dell’8 settembre

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

Il pomeriggio dell’8 settembre di sessantaquattro anni fa, dalle frequenze di Radio Algeri, il Comandante in capo delle forze anglo-americane nel Mediterraneo, Dwight David Eisenhower, annunciò ufficialmente al mondo intero che l’Italia aveva chiesto ed ottenuto l’armistizio.

La notizia fece rapidamente il giro del mondo perché, sebbene Mussolini fosse già stato deposto il 25 luglio 1943, in seguito al «colpo di stato» che aveva portato alla guida del governo il maresciallo Pietro Badoglio, l’Italia era la prima potenza dell’Asse Roma-Berlino-Tokio a cedere le armi e a capitolare. Per la nostra nazione, però, la resa siglata con gli anglo-americani – non l’8, ma il 3 settembre 1943 a Cassibile in Sicilia – non sancì la fine della guerra, poiché il territorio nazionale continuò ad essere per altri venti mesi teatro di guerra tra eserciti stranieri, nonché di una «guerra civile» tra opposte fazioni di italiani (sulla Resistenza come guerra civile vedi il saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991).

L’8 settembre, inoltre, anche a causa di una gestione approssimativa da parte dei vertici istituzionali e militari, segnò l’inizio di quello che Elena Aga Rossi ha efficacemente definito lo sbando (Una nazione allo sbando, L’armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, Bologna 1993). A questa espressione, a ben vedere, se ne potrebbe aggiungere un’altra. L’8 settembre rappresentò infatti anche l’inizio della divisione. Innanzitutto venne diviso il territorio della penisola: l’Italia centro-settentrionale venne di fatto occupata dalla Wehrmacht (che aveva già fatto affluire numerose divisioni dal Brennero prima dell’annuncio), mentre sulle regioni centro-meridionali venne progressivamente esteso il controllo degli anglo-americani. Una parte di italiani si trovò così sotto la RSI e l’occupazione tedesca, un’altra parte sotto il Regno del Sud e l’occupazione (o liberazione) degli Alleati. Nelle zone ancora sottomesse al nazifascismo, migliaia di civili, presunti oppositori, furono deportati nei campi di concentramento tedeschi. Centinaia di migliaia di militari, schierati in patria e all’estero al fianco dei tedeschi d’improvviso non più alleati, vennero rapidamente catturati, disarmati e deportati nei campi di concentramento e di lavoro coatto del Terzo Reich, dove affrontarono una lunga e dura prigionia non come prigionieri di guerra ma come Internati Militari Italiani. Un gran numero di italiani, quindi, venne messo di fronte alla necessità di scegliere – spesso sotto ricatto – se continuare a collaborare con i nazisti ed i fascisti o rifiutare rischiando la vita propria e dei propri cari.

Per questi (ed altri) motivi, l’8 settembre 1943 ha rappresentato e continua a rappresentare una data-simbolo, probabilmente unica, nella storia contemporanea italiana. Una data che come poche altre ha influenzato l’intero dibattito politico-culturale italiano del dopoguerra e che ancora oggi fa sentire i suoi effetti e il suo peso nella memoria di quegli anni e di quegli avvenimenti, nelle nuove e vecchie generazioni. Tanto è vero che, a ragione, si è parlato di «memoria divisa», mentre il panorama storiografico, a distanza di quasi settant’anni, presenta ancora molte lacune e non è stato ancora in grado di scrivere una storia complessiva dell’armistizio e delle sue conseguenze.

Se la ricostruzione degli avvenimenti dal punto di vista diplomatico-politico-istituzionale può dirsi tutto sommato acquisita – con le sue luci e le sue ombre e nonostante alcuni dettagli e retroscena che ancora attendono maggiore chiarezza – grazie agli studi fondamentali, in ordine cronologico, tra gli altri di Zangardi (1943: 25 luglio-8 settembre, Feltrinelli, 1964, Musco (La verità sull’8 settembre, Garzanti, 1965), Toscano (Dal 25 luglio all’8 settembre, Le Monnier, 1966), Aga Rossi (L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Ministero per i beni e le attività culturali, 1993 e Una nazione allo sbando), De Felice (Mussolini l’alleato, Einaudi, 1996-1998).

Altrettanto, però, non si può dire di altri aspetti, a cominciare da quello militare. In questo ambito, infatti, i principali studi basati sui documenti custoditi negli archivi delle diverse armi sono rappresentati esclusivamente da pubblicazioni «ufficiali» volute e condotte dagli stessi Uffici Storici: Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943 dello Stato maggiore dell’Esercito (1975), La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto e La marina, gli armistizi e il trattato di pace della Marina (1971 e 1979), L’aeronautica italiana nella guerra di liberazione. 8 settembre 1943-8 maggio 1945 dell’Aeronautica (1950) e I carabinieri nella Resistenza e nella guerra di Liberazione dei Carabinieri (1978). Questi lavori, ai quali va comunque riconosciuto il merito di aver fatto conoscere fonti militari importanti, non sempre sono però esenti da intenti giustificazionisti e comunque, proprio per via del loro carattere di «relazioni ufficiali», non sono sufficienti a colmare la lacuna lasciata dalla latitanza degli storici sul tema, con poche eccezioni tra cui il lavoro di sintesi e di inquadramento generale L’Armistizio dell’8 settembre 1943, scritto da Giorgio Rochat per il «Dizionario della Resistenza» di Einaudi.

La storia militare dell’8 settembre, del resto, non è facile e richiederebbe una ricerca capillare e approfondita per le quali non sempre esistono le fonti. Si tratta infatti di una vicenda dai mille rivoli e risvolti, che ha un punto di partenza chiaro e certo – la mancanza di direttive e ordini precisi – dal quale discendono però innumerevoli situazioni differenti, da zona a zona, da reparto a reparto e addirittura per singoli militari.

Provando a tracciare un quadro schematico della situazione, la prima differenza va fatta tra le truppe schierate in Italia e quelle all’estero. Per le prime, bisogna distinguere tra Italia meridionale (da dove era più facile trovare riparo dietro le linee alleate o tra la popolazione civile in attesa dell’arrivo degli inglesi e degli americani) e Italia settentrionale (saldamente presidiata dai nazisti e quindi dove la principale alternativa alla cattura e alla deportazione era la fuga sui monti con le nascenti bande partigiane). Tra i militari che inizialmente si diedero alla macchia e diedero vita o ingrossarono le file della Resistenza, in questa prima fase, inoltre, bisogna distinguere tra coloro che condussero la lotta partigiana fino alla fine della guerra e coloro che invece vennero catturati, si consegnarono o riuscirono ad imboscarsi. Da non dimenticare, infine, la scelta di segno opposto di coloro che per convinzione politico-ideologica, per un certo senso del dovere e dell’onore militare, per opportunismo, paura o ricatto accettarono immediatamente di continuare a combattere la guerra al fianco dei tedeschi e sotto la bandiera della neonata RSI.

All’estero la situazione fu ancora più complessa, perché le opportunità di scampare alla cattura e alla deportazione erano quasi azzerate dalla lontananza dalla madrepatria, dal fatto di essere schierati fianco a fianco con i tedeschi, dalla minore disponibilità della popolazione civile ad aiutare forze che fino al giorno prima erano d’occupazione e dalla confusione generata dall’assoluta mancanza di informazioni sulla situazione generale. Le alternative furono allora le seguenti: consegna delle armi e delle posizioni ai tedeschi (per decisione dei comandi sul campo o spontaneamente da parte delle truppe), fuga con i partigiani locali, tentativi di resistenza armata collettiva da parte di interi reparti (finiti però nel sangue come a Cefalonia per via della superiorità di fuoco e di organizzazione dell’ex-alleato).

Per dare un contributo alla storia militare dell’8 settembre e delle sue conseguenze, in questi ultimi anni abbiamo condotto una ricerca approfondita in tutta Italia sulle lettere e i diari degli Internati Militari Italiani (IMI), ormai conclusa, di prossima pubblicazione nella collana storica della casa editrice Einaudi. Ma non è solo l’aspetto militare dell’armistizio a presentare lacune o autentici buchi neri in sede di ricostruzione storica. Nella storia complessiva dell’armistizio ancora da scrivere, infatti, andrebbero considerati, oltre agli avvenimenti, anche gli stati d’animo, le emozioni, le sensazioni e le convinzioni che da esso maturarono e che furono poi alla base delle diverse «memorie» di quegli avvenimenti che si sono sedimentate nella cultura italiana del dopoguerra.

Ed è per questo che una storia complessiva dell’armistizio, sarebbe il punto di partenza indispensabile e propedeutico ad una storia complessiva italiana, dalla fine della guerra ai giorni nostri.

("Rassegna", ANRP, n. 9/10/11, Anno XXIX, settembre-novembre 2007)

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Morte dal cielo per gli internati e deportati

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

Tra i crimini perpetrati dai nazisti nel corso della seconda guerra mondiale ce ne è uno che spesso viene dimenticato, ma che è costato la vita a migliaia di uomini e donne, tra lavoratori coatti, deportati civili e internati militari. Durante gli allarmi aerei, i carcerieri nazisti obbligavano i deportati e gli internati a non abbandonare il posto di lavoro, per non interrompere l’attività produttiva, oppure a non uscire dalle baracche dei campi di concentramento, che non recavano le necessarie insegne e segnalazioni per essere riconosciuti dai bombardieri. In questo modo atroce, specie negli ultimi due anni di guerra, persero la vita migliaia di persone. Solo tra gli Internati Militari Italiani, secondo una stima verosimile di Claudio Sommaruga, i bombardamenti aerei causarono circa 2.700 vittime, alle quali devono essere aggiunti migliaia di altri morti, in numero impossibile da definire con esattezza, tra “schiavi”, deportati civili e prigionieri di guerra italiani e di altre nazionalità.

Malgrado cifre così rilevanti, questo tema non è stato ancora esplorato a fondo e con sistematicità in sede di ricerca storica. Nel corso degli ultimi anni, però, il tema della massiccia campagna aerea scatenata dagli angloamericani per piegare la Germania di Hitler, prima e durante l’attacco terrestre, sta tornando al centro dell’attenzione e dell’interesse di studiosi e ricercatori. Tali studi hanno il merito di aver spostato, per la prima volta, il focus dell’analisi e della ricostruzione degli avvenimenti, dagli aspetti più propriamente militari, strategici e tecnici, a quelli relativi all’impatto sulla popolazione civile tedesca e al prezzo da essa pagato in termini di vite umane. Un prezzo senza dubbio elevatissimo, ma nell’ambito del quale non può essere dimenticato quello pagato anche da militari e civili che si trovarono in Germania per effetto della grande deportazione di uomini e donne attuata dai nazisti e che persero la vita in seguito ai comportamenti criminali dei loro carcerieri.

La campagna aerea sulla Germania.

La decisione di sottoporre la Germania ad un intensa campagna di bombardamenti aerei venne presa nel corso dell’incontro tra Churchill e Stalin nell’agosto del 1942. Tale decisione rappresentò un capitolo saliente della lunga polemica relativa all’apertura del cosiddetto “secondo fronte”: in risposta alle continue richieste di uno sbarco angloamericano nel nord Europa da parte di Stalin, infatti, in quell’incontro Churchill rispose con la promessa di uno sbarco in Africa Settentrionale entro la fine dell’anno e, appunto, un massiccio programma di bombardamenti aerei sul suolo tedesco, in vista dello sbarco in Europa rinviato all’anno successivo. Obiettivo dichiarato della campagna aerea fu da un lato di fiaccare la Germania di Hitler dal punto di vista materiale, colpendo infrastrutture, apparati industriali e produttivi, dall’altro di piegare il morale di civili e militari, nella speranza di spingere la popolazione a far mancare il proprio sostegno e consenso al regime nazista.

I primi bombardamenti inglesi di una certa entità sulla Germania risalgono alla primavera del 1940, in un momento particolarmente critico per l’Inghilterra, dopo l’occupazione tedesca della Norvegia e l’invasione della Francia. Churchill del resto era personalmente convinto che una intensa campagna di bombardamenti pesanti sulla Germania potesse rappresentare un contributo decisivo alla vittoria finale contro Hitler anche perché, in assenza di un forte esercito di terra, l’Inghilterra aveva avviato la preparazione alla guerra aerea contro la potenza continentale tedesca fin dalla metà degli anni Trenta. Fino a tutto il 1942, però, per la guerra aerea furono anni interlocutori, perché mancavano ancora quei miglioramenti organizzativi e operativi che sarebbero stati messi in atto più tardi dalla Royal Air Force, ma soprattutto perché la potenza aerea degli Alleati aumentò in maniera esponenziale solo quando gli Usa schierarono in Europa i loro bombardieri, nel corso del 1942. A questo punto la RAF si dedicò prevalentemente al bombardamento notturno delle zone industriali, mentre l’aviazione americana prese in consegna fabbriche, vie di comunicazioni, stazioni ferroviarie e depositi di carburante, colpendo durante il giorno.

Il 1943 rappresentò un momento di svolta nella strategia della guerra aerea, perché Churchill e Roosevelt si accordarono per dare priorità alla campagna aerea, in attesa dell’apertura del “secondo fronte” terrestre, ulteriormente rinviata al 1944. Verso la fine del 1943, inoltre, divenne chiaro che finché l’aviazione alleata non avesse sconfitto la Luftwaffe, lo sbarco nel nord della Francia e la successiva avanzata verso il cuore della Germania avrebbe presentato ancora troppi rischi. Così, in seguito all’intensificarsi dell’azione aerea, nel corso del 1944 l’equilibrio tra le due forze aeree cominciò a volgere in favore degli Alleati, quando i tedeschi non riuscirono più a rimpiazzare le perdite con la produzione di nuovi velivoli a causa dei danni che i bombardamenti stessi avevano provocavano all’industria  aeronautica e a quella petrolifera.

Da questo momento in poi la guerra aerea angloamericana funzionò in piena efficienza, concentrandosi pesantemente su tutte le strutture chiave dell’economia tedesca. Nel corso del 1944 venne sganciato sulla Germania la maggior parte del tonnellaggio complessivo di bombe di tutta la guerra. Anche perché, conquistato il dominio dell’aria, i bombardieri inglesi e americani poterono agire pressoché indisturbati e senza incontrare più alcuna resistenza, mentre i caccia e i cacciabombardieri, non più impegnati in compiti di scorta, poterono dedicarsi agli attacchi di precisione contro il sistema dei trasporti a terra. Quando gli angloamericani sbarcarono in Normandia, la Germania poteva contare solo su qualche centinaio di aerei funzionanti, contro gli oltre 12 mila alleati, e il suo potenziale bellico, produttivo e logistico era stato messo a dura prova da mesi e mesi di bombardamenti quotidiani.

Le ricerche recenti

Con i mezzi disponibili all’epoca, la precisione dei bombardamenti aerei era molto approssimativa e fin dai primi “esperimenti”, nelle fasi iniziali della guerra, ci si rese conto che la loro efficacia nel colpire obiettivi precisi era decisamente ridotta, specie di notte quando venivano effettuate la gran parte delle missioni per sfuggire agli sbarramenti e alla reazione della contraerea. Questo motivo indusse gli inglesi a non disdegnare la tattica dei bombardamenti a tappeto, che finirono inevitabilmente per colpire anche le città e i sobborghi urbani a ridosso delle zone industriali e delle grandi vie di comunicazione. Il prezzo pagato dai civili tedeschi fu senza dubbio alto e drammatico, con circa mezzo milione di uomini, donne e bambini rimasti uccisi sotto gli attacchi aerei e la distruzione di intere città.

Sulla campagna aerea degli angloamericani, due ricerche tradotte e pubblicate anche in italiano hanno recentemente riacceso l’attenzione di opinione pubblica e studiosi, sottolineandone e mettendone pienamente a fuoco il suo drammatico impatto sulla popolazione civile. La prima, condotta da Jörg Friedrich (La Germania Bombardata, Mondatori 2004), traccia una dettagliata mappa geografica e cronologica delle azioni dell'aviazione inglese e americana sul territorio tedesco, analizzando le armi impiegate, le strategie attuate, le zone più colpite, la dislocazione dei rifugi, le reazioni della collettività, che cosa si riuscì a salvare e cosa andò distrutto. L’altra è opera di Anthony C. Grayling (Tra le città morte. I bombardamenti sulle città tedesche: una necessità o un crimine?, Longanesi 2006) e offre un quadro altrettanto dettagliato dei luoghi colpiti e delle vittime provocate dalle esplosioni e dagli incendi.

Senza volersi addentrare nella questione “militare” riproposta in alcune di queste pagine – se i bombardamenti così massicci e indiscriminati ebbero un ruolo più o meno determinante nel decidere le sorti del conflitto o se una parte di queste vite umane avrebbero potuto esser risparmiate – sta di fatto che anche in questa fase di rinnovato interesse storico, il crimine nel crimine perpetrato dai nazisti contro deportati e internati rischia di passare sotto silenzio. Di tale crimine, del resto, praticamente non c’è traccia alcuna in quei pochi documenti “ufficiali” che oggi sono reperibili negli archivi italiani e tedeschi. Così come è particolarmente improbabile stilare un “bilancio” preciso delle vittime, distinguendo questa “voce” all’interno della tragica contabilità più generale delle vittime della barbarie nazista. Un contributo decisivo allo sforzo di ricostruzione storica, però, lo possono dare senza dubbio le memorie e i diari dell’epoca. In essi, le sirene degli allarmi aerei e le esplosioni vicine e lontane, sono annotazioni praticamente quotidiane. E con esse anche la paura, e la morte: “Una bomba mi è cascata a 50 metri da mè – scrive l’internato militare Giuseppe Marchi nel suo diario, riferendosi al bombardamento di Hagen del 2 dicembre 1944 – 70 dei miei compagni morti e le baracche tutte in fiamme, io sono rimasto coi pantaloni, e pastrano tutta l’altra roba mi era bruciata. Tremavo dalla paura, nel vedere quel macello, una gamba da una parte e un braccio da quell’altra, non ero capace di lasciarmelo passare” (Due veronesi nei lager, Istituto veronese per la storia della resistenza e dell’età contemporanea, Cierre edizioni 2001).

Un crimine nel crimine nazista

Un così alto tributo di vite umane pagato dagli internati e dai deportati civili trova spiegazione innanzitutto nel fatto che i lager dove essi erano rinchiusi non avevano alcuna segnalazione della croce rossa riconoscibile dall’alto e soprattutto erano ubicati a poca distanza dagli impianti industriali, dove i prigionieri venivano impiagati, o dai nodi stradali e ferroviari. I lager, inoltre, non avevano rifugi antiaerei e quando suonavano gli allarmi i prigionieri erano costretti a rimanere chiusi nelle baracche di legno, sotto la minaccia armata dei loro carcerieri. Frequenti furono anche i casi di uccisioni e ferimenti – senza alcuna possibilità di soccorso fino al cessato allarme – di chi non rispettava l’ordine.

I deportati e gli internati avviati al lavoro coatto, invece, spesso erano costretti a rimanere sul posto di lavoro per non interrompere l’attività produttiva anche sotto la minaccia dei bombardamenti. Una volta che i bombardieri avevano sganciato il loro carico esplosivo, invece, questi “schiavi” venivano immediatamente impegnati nello sgombero delle macerie e nelle operazioni di recupero e sepoltura delle vittime, senza alcuna protezione sanitaria. Anche laddove i rifugi esistevano, infine, erano quasi sempre riservati ai tedeschi, mentre gli IMI e i deportati potevano usufruire tutt’al più di piccole fosse con qualche asse di legno che in realtà non fornivano alcun riparo né dalle schegge, né dagli incendi. Per approfondire il tema nella maniera più dettagliata possibile, dunque, una strada importante da seguire è quella della raccolta, dell’analisi, della verifica e dell’incrocio delle informazioni contenute nelle memorie e nei diari dell’epoca, come quelli che stiamo utilizzando per scrivere una storia “dal vivo” e raccontata dai diretti protagonisti, della deportazione civile e dell’internamento militare.

("Rassegna", ANRP, n. 3-4, Anno XXIX, marzo-aprile 2007)

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Disegni di prigionia come fonte storica. Gli schizzi e i dipinti di Pierino Saragni, prigioniero in Africa

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

La prigionia dei militari italiani durante la seconda guerra mondiale è un tema quasi del tutto inesplorato ed ignorato dalla storiografia italiana del dopoguerra. Più che di prigionia, meglio sarebbe parlare delle prigionie – numerose e molto diverse tra loro – alle quali sono stati sottoposti centinaia di migliaia di militari italiani tra il 1940 e il 1945 (ed oltre, se consideriamo anche l’attesa per il rimpatrio di molti di loro). Questo discorso, su di un piano più generale, può essere esteso anche al fenomeno dei reduci nel suo complesso (anche in questo caso reduci da numerose e differenti situazioni). Un tema sul quale ha recentemente riacceso una luce di interesse – che per decenni è rimasto confinato nell’esclusiva sfera d’attenzione delle associazioni dei reduci e delle loro riviste e pubblicazioni a diffusione inevitabilmente limitata – il volume di Agostino Bistarelli intitolato «La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra». Il libro, pubblicato da Bollati Boringhieri, ha contribuito a colmare una lacuna, considerato che – come ha scritto Claudio Pavone nell’articolo di presentazione dell’opera su Repubblica dello scorso 10 ottobre -  «nonostante le sue imponenti dimensioni (centinaia di migliaia di persone), il fenomeno [dei reduci] abbia trovato poco spazio nella storiografia e presenza molto limitata nella memoria collettiva, al contrario di quanto era avvenuto per i reduci della prima guerra mondiale». Per questi ultimi, infatti, esisteva fin dal 1974 uno studio organico di Giovanni Sabatucci, «I Combattenti del primo dopoguerra» (edito da Laterza).

Anche per le prigionie – a proposito delle quali sta per essere pubblicata una nostra ricerca sugli Internati Militari Italiani – esiste una analoga disparità di trattamento in sede storiografica tra le due guerre mondiali. Se per il conflitto del ’15-’18, infatti, si può far riferimento al volume di Giovanna Procacci «Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra» (Editori Riuniti, 1993), per quello del ’40-’45 non si va oltre qualche buon approfondimento, tra cui «Le diverse prigionie dei militari italiani» di Giorgio Rochat, in appendice a «Le guerre italiane 1935-1943» (Einaudi, 2005).

 

La memoria divisa

Tale carenza di studi e ricerche, naturalmente, non è riconducibile solo ad una mancanza di volontà da parte degli storici. L’approccio storiografico al tema dei reduci e, più nel dettaglio, a quello dei reduci dalle diverse prigionie della seconda guerra mondiale, evidentemente, presenta non poche difficoltà. Innanzitutto, nel dopoguerra c’è stato, e c’è ancora, lo scoglio da superare della cosiddetta «memoria divisa». La mancata esistenza di una memoria univoca e, appunto, «condivisa» delle esperienze vissute tra il 1940 e il 1945 fonda le sue radici proprio nel groviglio di situazioni differenti in cui i militari italiani si sono trovati prima e dopo l’8 settembre: diversi fronti (Francia, Africa Orientale, Nord Africa, Grecia, Jugoslavia, Russia); diverse scelte fatte in seguito all’armistizio (resa e consegna delle armi ai tedeschi, tentativi di resistenza, arruolamento sotto la bandiera dell’alleato del giorno prima, fuga con i «ribelli» in Italia e all’estero); diversi fronti su cui hanno continuato la guerra dopo l’armistizio (partigiani italiani o stranieri, Corpo Italiano di Liberazione, RSI, formazioni tedesche); diverse prigionie (sotto gli Alleati anglo-americani in campi disseminati in varie parti del mondo, sotto i russi, sotto i tedeschi come IMI e lavoratori coatti, sotto i russi e gli jugoslavi dopo aver già vissuto la prigionia nazista); diverse scelte fatte durante la prigionia e l’internamento (adesione o rifiuto alla proposta di arruolarsi nelle SS o con la RSI durante l’internamento, adesione o rifiuto alla proposta rivolta agli ufficiali di lavorare per i tedeschi, cooperazione o non cooperazione con gli Alleati).

Questo complesso e variegato mosaico rappresenta una delle principali eredità che la seconda guerra mondiale ha lasciato al Paese nel periodo della sua ricostruzione, materiale e politica. Con l’aggravante che molti di questi uomini, volenti o nolenti, per convinzione o per obbligo, per senso del dovere o per puro caso, si erano trovati dapprima a combattere la guerra d’aggressione voluta del regime fascista e poi a rinnegarla e contrastarla in vario modo e in varie forme dopo il suo fragoroso fallimento. Tutto ciò fece prevalere, praticamente su tutti, la voglia di voltare pagina e di calare un velo di oblio su vicende personali e collettive nelle quali a posteriori si faticava a riconoscersi.

 

Le fonti scomparse

Il ritardo storiografico ha anche motivazioni legate alla scarsa disponibilità di fonti in tema di prigionia. I documenti «ufficiali» italiani sono per lo più schede di rimpatrio e pratiche per la pensione, ma sono andati dispersi tra mille uffici amministrativi, distrutti, oppure coperti da limiti di privacy. I documenti di parte straniera sono di altrettanta difficile reperibilità o sono stati deliberatamente distrutti, come nel caso dei nazisti responsabili di una gestione sistematicamente criminale dei prigionieri. Salvo qualche Relazione, però, i documenti «burocratici» costituiscono una importante banca dati statistica – di grande importanza per gli storici – ma non forniscono ulteriori informazioni sulle reali esperienze vissute in prigionia. Per indagare questi aspetti, dunque, oltre le testimonianze rese successivamente dai reduci, restano i pochi «effetti personali» che essi riuscirono a far arrivare in patria o a portare con sé dopo la guerra: cartoline, lettere, diari, appunti, fotografie (molto rare) e disegni, che oggi sono per lo più sparse in innumerevoli micro-archivi familiari. A questo genere di fonti ci siamo rivolti per approfondire la storia degli IMI di prossima pubblicazione, nonché delle altre prigionie (chiunque volesse farci consultare copia dei propri documenti può contattarci all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).

 

I disegni di Pierino Saragni

Uno spaccato interessante della prigionia in Africa emerge dai numerosi disegni che l’allora soldato Pierino Saragni – nel dopoguerra pittore e autore di vetrate artistiche soprattutto per chiese, nonché cavaliere del lavoro per meriti artistici – realizza negli anni di reclusione sotto gli Alleati, tra l’estate del 1943 e la fine del 1945 (si ringrazia la famiglia, ed in particolare la figlia Marialuisa e la nipote Erica Valle, per averne permesso la pubblicazione). Sebbene gli anglo-americani non abbiano condotto una gestione deliberatamente criminale dei prigionieri, a differenza del sistema concentrazionario nazista verso russi e italiani, anche quella prigionia ha avuto le sue efferatezze, le sue sofferenze fisiche e psicologiche ed il suo prezzo elevato in termini di vite umane. Essa ha riguardato 400.000 uomini catturati dagli inglesi in Africa Orientale e Settentrionale, 40.000 dai francesi in Tunisia e 125.000 dagli americani in Tunisia e Sicilia. Pierino Saragni è uno di questi ultimi (nato a Milano il 1° febbraio 1910, viene chiamato alle armi il 2 settembre 1942 e inviato in Sicilia, prima a Messina poi a Bagheria, con un Battaglione della Guardia Costiera, presso il Comando Difesa Porto; fatto prigioniero nel 1943, viene portato in Tunisia e in Algeria e rimpatrierà solo nell’ottobre del 1945; è morto a Genova il 18 aprile 1988). Naturalmente non tutti vissero lo stesso tipo di esperienza.

I disegni di Saragni mettono innanzitutto in evidenza l’ambiente della prigionia, che si svolge prevalentemente nelle tende da campo (Disegni 1, 2 e 3). Anche se non ci sono le baracche, tipiche ad esempio della prigionia in Germania, «il mio posto letto sotto la tenda» ha le caratteristiche di ogni prigionia: poco spazio a disposizione, la branda tenuta in ordine nei limiti del possibile, un misero bagaglio e pochi oggetti personali salvati al momento della cattura ammassati in un angolo, pochi strumenti di sopravvivenza gelosamente custoditi come la gavetta, il cucchiaio, la borraccia. Altro elemento universale – oltre all’onnipresente reticolato che incornicia la vista di un orizzonte vuoto e squallido – è l’odiosa scritta con la vernice bianca sul retro della giacca (che nel caso di Saragni è «PW», Prisoner Of War), associata ad un numero di matricola («1015», Disegno 1). La matita di Saragni, dunque, ferma sul foglio le caratteristiche più aberranti della prigionia moderna: spersonalizzazione dell’individuo, realizzata attraverso la sua riduzione ad un numero o ad una sigla (evidente nel ritratto di un compagno che, prima del nome, è il «N. 1041»; Disegno 4), e con la condivisione forzata di spazi ristretti con un gran numero di uomini (Disegno 2); abbrutimento fisico e morale, evidente nelle frequenti immagini di uomini che trascorrono la giornata buttati a terra, con lo sguardo perso nel vuoto, vestiti di stracci – pochi o molti a seconda del clima gelido o torrido – che spesso sono il lontano ricordo di una divisa, sempre la stessa, indossata da anni (Disegno 3).

A tutto questo, però, i prigionieri cercano di resistere organizzando nel campo attività culturali e ricreative come – dove ciò è consentito – partecipando con testi ed illustrazioni ai giornali e ai bollettini diffusi nel campo (Disegno 5). A livello individuale, invece, ciascuno ricorre ai propri espedienti, come nel caso delle vignette autoironici in cui Saragni ritrae un gallo che suona a ritmo «allegro ma non troppo» (Disegno 6) o lo sbigottimento di un malcapitato PW che ha avuto la sventura di dover ricorrere all’infermeria del campo (Disegno 7).

Dai disegni spuntano anche i volti dei carcerieri, e qui le strade dei singoli prigionieri tornano a prendere direzioni diverse. Saragni fa il ritratto dell’«amico algerino» (Disegno 8), che non ha nulla a che vedere, ad esempio, con i freddi tedeschi. Così come lo scenario assume dei connotati diversi quando, finita la guerra, gli ex-prigionieri - sopravvissuti all’immane tragedia – restano a lungo in attesa di poter rientrare in Italia e riabbracciare le loro famiglie: in attesa di quel giorno e del ritorno ad una vita normale, su di un tavolo spunta persino un vaso colorato con dentro una pianta (Disegno 9).

("Rassegna", ANRP, n. 12, Anno XXIX, dicembre 2007)

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Il libro di Avagliano e Palmieri L’Italia e il complesso passaggio dalla dittatura alla democrazia

di Adam Smulevich

Un’Italia dalle due facce. Da una parte un Paese lanciato verso il futuro, aperto alla sperimentazione e all’innovazione, sull’onda dell’entusiasmo per la ritrovata libertà dopo oltre venti anni di spietata dittatura. Dall’altra macerie ovunque, lutti e lacerazioni, una quotidianità caratterizzata da molte sfide e inciampi.
Proseguendo un felice percorso di ricostruzione storica delle recenti vicende italiane, Mario Avagliano e Marco Palmieri, nel loro nuovo libro Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947) pubblicato da Il Mulino, portano nuovamente il lettore a confrontarsi con temi che restano vivi, centrali e talvolta distorti nel confronto pubblico e politico. Un triennio, quello preso in esame, che si apre con la fine della dittatura e che ci lascia con il varo del più formidabile presidio democratico, la Costituzione repubblicana. Un percorso tutt’altro che semplice, nel Paese delle molte ferite aperte, delle illusioni e delle disillusioni, che Avagliano e Palmieri delineano attraverso una ricca e varia documentazione. Diari privati, lettere e rapporti di polizia. Ma anche le manifestazioni del costume e della cultura di quel tempo.
“La guerra è finita. Restano però il razionamento del pane, gli abiti e i cappotti rivoltati, le scarpe risuolate, le case senza i servizi essenziali, le strade e le ferrovie dissestate, la borsa nera, la polvere delle macerie e una disperazione che alimenta gravi agitazioni sociali, ma anche la criminalità e il banditismo”. È in quel contesto non certo idilliaco, ma per fortuna sotto la guida di personalità illuminate e concrete, che maturano risposte di segno opposto rispetto al passato mussoliniano. “Appena tre anni dopo – si legge infatti – molto è cambiato. L’Italia è una repubblica, ha una nuova Costituzione e ha scelto per la prima volta nella sua storia il proprio assetto politico-istituzionale attraverso due tornate elettorali a suffragio universale maschile e femminile segnate da una straordinaria partecipazione popolare”. Un triennio che rappresenta quindi “uno snodo cruciale, un’autentica stagione costituente, in tutti i sensi”.
Di grande interesse, tra le altre, le pagine che sono dedicate al ritorno dei sopravvissuti alla Shoah italiani e dell’emigrazione ebraica verso l’allora Palestina mandataria, il futuro Stato di Israele. Spiegano gli autori: “Come per i reduci della guerra, della prigionia e della deportazione politica, anche gli ebrei sopravvissuti alla Shoah al rientro in patria trovano un paese in ginocchio che ha voglia di lasciarsi al più presto alle spalle tutti gli orrori e tutte le responsabilità degli anni della dittatura e della guerra, compreso le leggi razziali del 1938 e la partecipazione di molti italiani alla cattura e alla deportazione dei connazionali ebrei”. L’Italia li accoglie pertanto con “indifferenza, perfino con freddezza”.
Ci sono però anche belle storie da raccontare, come quella che ha per protagonista la città ligure de La Spezia, “la porta di Sion” da cui salparono in tanti in cerca di un futuro diverso. È un trasporto che passa alla storia quello dell’8 maggio 1946 quando di mattina, “dopo sei settimane di proteste e uno sciopero della fame dei rifugiati, anche grazie all’intervento di De Gasperi salpano due navi, Fede e Fenice, con un migliaio di persone a bordo”.
L’Italia resta comunque anche il Paese in cui “più che altrove” si incrociano le vie di fuga delle vittime con quelle dei loro stessi aguzzini, ora sconfitti e braccati”. Il caso esemplare che gli autori citano è quello di Merano e del Sudtirolo, che furono zona di transito “anche per nazisti e collaborazionisti che tentavano di mettersi in salvo in vista della sconfitta finale”. Un altro tema su cui resta molto da scrivere e che questo bel libro, che sarà oggi presentato alle 18 a Roma a Palazzo Ferrajoli, ha il merito di ricordare.

(Moked.it, 25 settembre 2019)

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