Fosse Ardeatine. Vite perdute e ritrovate

di Mario Avagliano

Roma 24 marzo 1944, quarto giorno di primavera. In una cava di pozzolana sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini con un colpo di pistola alla nuca. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, ebrei, detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione di dieci a uno (ma nella fretta e nella confusione ne vengono uccisi cinque in più), in rappresaglia per l’attacco partigiano del giorno prima in via Rasella, costato la vita a 33 militari della compagnia dell’SS Polizei Regiment Bozen. È il più grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana d’Europa e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra.

Nella ricorrenza del 50° anniversario della scomparsa di Attilio Ascarelli, il medico legale ebreo che dall’estate all’autunno del 1944 diresse le attività di esumazione e di identificazione delle salme della strage delle Fosse Ardeatine, esce un libro intitolato I Martiri Ardeatini. Carte inedite 1944-1945 (AM&D Edizioni, pp. 331, euro 30). Il volume, curato da Martino Contu, Mariano Cingolani e Cecilia Tasca, propone per la prima volta le schede biografiche delle vittime che furono redatte all’epoca dalla commissione, accompagnate da un interessante saggio sui più recenti sviluppi storiografici relativi all’eccidio, una preziosa bibliografia sull’argomento, un profilo del professor Ascarelli, e l’inventario del Fondo a lui intestato e conservato presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Macerata.
In qualità di direttore della commissione medico-legale, Ascarelli raccolse la documentazione prodotta in quei mesi (comprensiva di fotografie delle operazioni di recupero delle salme, dei cadaveri e delle lettere ritrovate sui corpi delle vittime), più altri documenti che via via aggiunse negli anni successivi.
In uno di questi corposi fascicoli, sono contenute 291 schede di martiri (su un totale di 335), alcune più ampie, alcune telegrafiche, che vengono pubblicate in questo volume e ci rivelano particolari inediti di alcuni di loro.
Nulla si sapeva, ad esempio, del commerciante Secondo Bernardini, democristiano, che fu arrestato dalle SS a Pisoniano assieme alle moglie e, dopo la devastazione della casa, venne tradotto nel carcere di via Tasso, dove entrambi «subirono immane torture tra le quali hanno avuto asportazioni delle unghie e fustigazioni sotto le piante dei piedi». Il sottotenente Marcello Bucchi, invece, rinchiuso a Regina Coeli assieme a don Giuseppe Morosini, quando ebbe un colloquio con la madre e questa gli chiese cosa avesse fatto, rispose: “Mamma, la Patria è un ideale tanto grande”.
Le schede rappresentano, come scrive Claudio Procaccia nella prefazione, “un punto di partenza per la creazione di un dizionario biografico delle persone assassinate il 24 marzo 1944”. Se infatti il susseguirsi degli eventi tra il 23 e il 24 marzo è stato ampiamente ricostruito dalla storiografia, così come si è indagato a fondo sull’impronta che l’eccidio ha lasciato nella memoria del dopoguerra (vedi il libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito”), poco invece si conosce, ad eccezione di alcuni personaggi più noti, delle vicende individuali delle vittime, di cui oggi resta traccia – e non per tutti – solo in alcune pubblicazioni locali o a carattere familiare, nelle cerimonie e nelle lapidi presenti a Roma e nelle città di origine.
La ricostruzione delle biografie civili e politiche dei martiri – alcuni dei quali ancora non sono stati identificati – sarebbe invece un’operazione di grande interesse storico, anche perché da essa emergerebbe un microcosmo altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e liberazione.
Alle Fosse Ardeatine furono uccisi italiani originari di ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia (più alcuni stranieri: un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria.
Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali, compresi alcuni colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi era un sacerdote, don Pietro Pappagallo, e anche 75 ebrei (per la maggior parte di essi, i documenti pubblicati in questo volume sono le uniche testimonianze biografiche sino ad ora note). Tra i politici, infine, c’erano esponenti di tutte le forze antifasciste, compresi alcuni degli esponenti più autorevoli del Fronte militare clandestino di Roma, a partire dal loro capo, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Il libro I Martiri Ardeatini, che sarà seguito a breve nel piano editoriale da altri due volumi tratti dal Fondo (uno sui verbali di esumazione della commissione medico-legale e un altro sulla figura del generale Simone Simoni, una delle vittime dell’eccidio), offre quindi la chiave e gli strumenti per riportare alla luce quelle vicende, “perché – come scrisse nel 1945 Ascarelli – si diffonda ovunque l’eco di tanta infamia e perché resti documentata una delle innumerevoli atrocità naziste che commosse la pubblica opinione del mondo civile!”.

(Il Messaggero, 23 marzo 2013)

Quel 'segreto brutto' di Primo Levi

di Mario Avagliano

Ada Gobetti, moglie di Piero e autrice di quel Diario partigiano che narra le pulsioni, le contraddizioni e la complessità del movimento di liberazione, aveva ammonito gli storici a rappresentare la Resistenza senza «impacchettarla con un bel cartellino per mandarla al museo». E aggiungeva: «Se sapremo analizzare spregiudicatamente quel periodo con i suoi contrasti, i suoi limiti, i suoi errori, daremo ai giovani la possibilità di una scelta».
Preoccupazioni fondate. Nel dopoguerra l’epopea resistenziale è stata rappresentata con un’aurea di romanticismo e qualche eccesso di retorica. Almeno fino al 1991, anno di uscita di Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri) di Claudio Pavone. Da allora la storiografia ha fatto passi da gigante nella direzione di un’analisi più veritiera di quel periodo, che ne esaltasse il carattere patriottico ma indagasse anche sui limiti, le divisioni e le violenze del movimento (vedi l’eccidio di Porzus, in cui persero la vita tra gli altri Francesco De Gregori, zio del cantautore, e Guido Pasolini, fratello del poeta) e sulle vendette del dopoguerra. Cosa che la letteratura aveva già fatto da tempo, con i romanzi di Italo Calvino, Carlo Cassola e Beppe Fenoglio.
Ora, alla vigilia del 25 aprile, giunge in libreria un nuovo saggio, Partigia. Una storia della Resistenza, di Sergio Luzzatto (Mondadori), lanciato da una lunga e documentata recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera, che si occupa della breve stagione partigiana di Primo Levi, l’autore di Se questo è un uomo, sulle montagne di Amay, in Valle d’Aosta, tra l’ottobre 1943 e il febbraio 1944, e che ancora prima dell’uscita ha già infiammato il dibattito tra intellettuali e storici, suscitando aspre polemiche.

Partigia è il termine gergale con cui in Piemonte venivano chiamati i combattenti antifascisti e Luzzatto racconta l’apprendistato da ribelle del giovane dottore in chimica torinese che, giunto lì da “sfollato”, si unisce ad una banda composta da comunisti e anarchici, fino alla cattura assieme a Luciana Nissim e Vanda Maestro, ebree come lui, al trasferimento a Fossoli e al viaggio verso Auschwitz.
L’episodio centrale che viene scandagliato da Luzzatto è la fucilazione da parte della banda di partigiani di Levi, all’alba del 9 dicembre 1943, su un campo innevato del Col de Joux, sopra Saint-Vincent, di due giovanissimi elementi della stessa formazione, Fulvio Oppezzo di Cerrina Monferrato e Luciano Zabaldano di Torino, di 18 e 17 anni, per l’accusa di furto. Un’esecuzione a freddo, senza un processo istruttorio. I due nel dopoguerra verranno fatti passare per vittime dei fascisti e diventeranno martiri della Resistenza.
La storia non è inedita ed era stata già ricostruita da Frediano Sessi in Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), uscito in libreria lo scorso gennaio e, prima ancora, nel 2008, dal ricercatore piemontese Roberto Gremmo sulla rivista Storia ribelle.
«La necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e variamente gravi – spiega Luzzatto -, ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia».
Lo stesso Levi si vergognava di quell’episodio. In un passaggio di un suo libro, Sistema periodico, uscito nel 1975, nel capitolo Oro, aveva accennato alla fucilazione e l’aveva definita «un segreto brutto» che aveva spento in lui e nei suoi amici «ogni volontà di resistere, anzi di vivere». Ma in una sorta di autocensura, non aveva citato i nomi e le circostanze di quanto accaduto.
Luzzatto non è nuovo a operazioni di smitizzazione di personaggi simbolo della storia italiana. Lo aveva già fatto con un saggio dissacrante sulla figura di Padre Pio. Non c’è da scandalizzarsi. È giusto inquadrare anche un protagonista della cultura italiana e mondiale come Primo Levi nella sua umanità e nelle sue debolezze, testimoniate dalla tragica fine per suicidio nel 1987. Peraltro il senso di colpa e lo smarrimento che emergono dalla sue parole e dal suo comportamento non offuscano la sua figura che, come osserva Ernesto Ferrero, «anche da questo episodio esce più grande che mai».
Tuttavia a molti, come ad esempio Marco Revelli, figlio del partigiano Nuto, e autore dell'Einaudi al pari di Luzzatto, non è piaciuto «l’uso scandalistico» di questa vicenda storica. Gad Lerner su la Repubblica si è detto turbato, difendendo Primo Levi e definendolo un Maestro. Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche, ha anticipato che il periodico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dedicherà gran parte del prossimo numero di maggio all’affaire Levi, con un saggio di Alberto Cavaglion in cui si criticano «senza mezzi termini i grandi rischi che le operazioni a effetto possono comportare, confondendo in definitiva le acque sulla figura di Levi e sul ruolo della Resistenza».
Anche lo storico Giovanni De Luna, sempre sulle colonne di la Repubblica, ha espresso un giudizio severo: «Non accetto nel revisionismo questa continua enfasi sulla rottura della cosiddetta "vulgata resistenziale", sulle scoperte di "verità tenute nascoste". Sono argomenti privi di fondamento. Tutto ciò era emerso da tempo».
Sul fronte opposto, quotidiani come Libero e Il Giornale hanno applaudito alla «svolta» di Luzzatto, citando anche le pagine del suo libro dedicate al clima di violenze e di vendette dell’immediato dopoguerra a Casale Monferrato, e lodando la sorta di «mano tesa» a Giampaolo Pansa e alle sue tesi, soprattutto dopo le critiche feroci che lo stesso Luzzatto gli aveva rivolto negli anni scorsi.
Non c’è dubbio che la ricerca storica debba essere libera e senza censure, raccontando anche gli episodi imbarazzanti o scabrosi della Resistenza. A settant’anni dai fatti (proprio quest’anno ricorre l’anniversario), gioverebbe però ricordare i valori di fondo della guerra di liberazione e la lezione di Italo Calvino nel romanzo Il Sentiero dei Nidi di Ragno: «Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono».

(Il Messaggero, 28 aprile 2013)

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Gino Bartali. Il coraggio del campione

di Mario Avagliano

«Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita», cantava Paolo Conte. Ma è grazie ai suoi meriti extrasportivi, la partecipazione alla Resistenza e il salvataggio di molti ebrei, che Gino Bartali, il campionissimo italiano delle due ruote, è stato celebrato anche oltre Atlantico, con la pubblicazione del saggio Road to Valor dei canadesi Andres e Aili McConnon, fratello e sorella, rispettivamente ricercatore storico e giornalista di varie testate statunitensi (New York Times, Wall Street Journal e Guardian).

Ginettaccio, staffetta partigiana, durante la seconda guerra mondiale contribuì a sottrarre centinaia di ebrei tra Toscana e Umbria dalle grinfie dei nazifascisti, salvando un’intera famiglia dalla deportazione ad Auschwitz. Il libro made in Usa, che ripercorre le sue gesta, ora approda anche in Italia, dove sarà in libreria il 23 maggio col titolo La strada del coraggio – Gino Bartali, eroe silenzioso (edizioni 66thand2nd).
Inediti dettagli su Bartali, classe 1914, originario di Ponte a Ema, frazione di Firenze, che nella sua leggendaria carriera ha vinto tre Giri d’Italia e due Tour de France, erano stati rivelati alcuni mesi fa da Adam Smulevich su «Pagine Ebraiche». In una testimonianza il fiumano Giorgio Goldenberg (che da quando vive in Israele ha cambiato il suo nome in Shlomo Pas) aveva raccontato che il popolare Ginettaccio e il cugino Armandino Sizzi nella primavera-estate del 1944 nascosero per alcuni mesi a Firenze, nella cantina di una casa in via del Bandino, di loro proprietà, i quattro componenti della sua famiglia (padre, madre e due bambini, Giorgio e Tea), impedendone l’arresto da parte dei nazisti.
Il libro americano, ricco di testimonianze e documenti, è diviso in tre parti e ricostruisce l'infanzia e la giovinezza del campione, fino al trionfo al Tour de France del 1938 (e Gino si lamenterà delle ingerenze politiche del regime fascista che gli impedirono di realizzare l'accoppiata Giro-Tour, vietandogli la corsa rosa); il periodo bellico, la sua militanza nell’Azione Cattolica, mal tollerata dal fascismo, e l'attività clandestina nella Resistenza; e poi, dopo la liberazione, il ritorno alle competizioni ciclistiche e la storica rivalità con Fausto Coppi che divise il tifo sportivo dell’Italia repubblicana, nel fervore della ricostruzione, trasformandosi anche in un fenomeno socio-politico: Coppi simil-Peppone, “rosso” e laico, e Bartali-don Camillo, “bianco” e cattolico. Fino alla seconda straordinaria vittoria al Tour del 1948, con gli occhialoni infangati di fango, che in qualche modo allentò la tensione esplosa nel Paese dopo l'attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti, e alla morte avvenuta a Firenze nel maggio del 2000.
Memorabili le sue battute «L'è tutto sbagliato l'è tutto da rifare», il suo spirito bonario, il fumare come una ciminiera e la verve polemica da toscano, che non disdegnava il buon Chianti.
Bartali fu staffetta partigiana a partire dall'autunno 1943 su incarico dell'arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, e al servizio della rete clandestina Delasem messa in piedi dall’ebreo pisano Giorgio Nissim. Il ciclista toscano fingeva di allenarsi per le grandi corse a tappe che sarebbero riprese dopo il conflitto ma in realtà trasportava documenti falsi, celati in una sorta di cilindro montato sulla canna della bici, simile a una pompa per tubolari, per circa 630 ebrei nascosti in case e conventi tra Toscana e Umbria. Centinaia di km percorsi in bici avanti e indietro, da Firenze ad Assisi (la strada del coraggio), per “consegnare” nuove identità alle famiglie ricercate con feroce determinazione dai fascisti della Rsi e dai nazisti.
Bartali non si vantò mai di questa sua esperienza e non volle raccontarne i dettagli. «Non si specula sulle disgrazie altrui», soleva rispondere a chi gli chiedeva ulteriori ragguagli. Soltanto dopo la sua scomparsa, è stato possibile approfondire questo capitolo della sua esistenza, che potrebbe presto portarlo a essere iscritto nel registro dei Giusti del Museo Yad Vashem di Gerusalemme. E grazie a Ginettaccio, nel 2014 proprio la sua Firenze potrebbe avere l’onore di aprire il Tour De France. Una candidatura appoggiata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Conseil Représentatif des institutions juives de France. Quell’anno infatti si celebra il centenario dalla nascita di Gino Bartali, campione sulle due ruote e nella vita.

(Il Messaggero, 24 maggio 2013)

 P.S.: apprendiamo proprio oggi che purtroppo la partenza del Tour 2014 sarà da Londra. Firenze a questo punto è in pole position per il 2015!

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I ragazzi di Via Buonarroti. Una storia della resistenza

E' appena uscito il nuovo volume della collana "Il Filo Spinato", dal titolo "I ragazzi di via Buonarroti. Una storia della Resistenza", a cura di Massimo Sestili, con introduzione di Mario Avagliano.

IL LIBRO

La storia dei cinque ragazzi di via Buonarroti – Paolo Petrucci, Paolo Buffa, Enrica Filippini-Lera e Vera e Cornelio Michelin-Salomon – è rappresentativa di quanto accadde in Italia durante l'occupazione nazista, delle diverse forme di resistenza che si svilupparono, dei diversi ambienti sociali e politici che vi parteciparono, dei tanti giovani che rendendosi conto di vivere in un mondo inconciliabile, si schierarono per la libertà e pagarono duramente il loro impegno con il carcere, la deportazione e la morte. Pur nascendo nel contesto dell'antifascismo romano e dell'occupazione nazista di Roma, la storia dei cinque ragazzi si sviluppa prima al Sud, con la missione che coinvolse tragicamente Giaime Pintor; poi al Nord, dove Paolo Buffa si recò in missione come tenente delle N. 1 Special Forces dopo la liberazione di Roma; ed infine ad Aichach in Germania, dove Enrica e Vera vennero deportate. Arrestati anch’essi dai nazisti e processati dal tribunale tedesco di guerra, i tre ragazzi erano stati giudicati innocenti.

Ma per una tragica fatalità, il 24 marzo 1944 si trovavano ancora nel carcere di Regina Coeli e uno di essi, Paolo Petrucci, fu tradotto alle Fosse Ardeatine e trucidato insieme ad altri 334 innocenti con un colpo alla nuca. Un ampio apparato di lettere, fotografie e documenti inediti, frutto di anni di ricerca, aiuta a ricostruire la vita e il destino dei cinque ragazzi di via Buonarroti e rende palpitante la lettura di queste pagine, capaci di commuovere fino alle lacrime.   

L’AUTORE

Laureato in Filosofia e docente di Letteratura e Storia, Massimo Sestili in questi ultimi anni si è interessato dell’errore giudiziario nella letteratura. Ha pubblicato il volume L'errore giudiziario. L'affaire Dreyfus, Zola e la stampa italiana (2004). Ha curato e tradotto opere di Bernard Lazare (Contro l'antisemitismo, 2004, e L'antisemitismo. La sua storia e le sue cause, 2006), di Jules Verne (Un dramma in Livonia, 2009) e di Émile Zola (L'Affaire Dreyfus, 2011). Attualmente si sta interessando della Resistenza e della lotta per la casa a Roma nel secondo dopoguerra. Su questi temi ha pubblicato articoli e interviste. Negli anni è stato promotore di vari corsi di formazione dedicati alla didattica della Storia e della Letteratura nelle scuole. Collabora con varie riviste, tra cui “Patria Indipendente”.  

<<So che vi è un elevato numero  di probabilità di perdere la vita  e che in ogni modo sarà una prova durissima e dolorosa, pure ho deciso  di affrontarla perché tale è il dovere (non verso l’umanità come assieme  di uomini, ma per l’Umanità,  cioè per quei pochi che soli vivono). Se non cadrò forse mi sentirò riscattato e degno di vivere, se andrà altrimenti, la coscienza di non essermi sottratto  al dovere mi aiuterà ad affrontare  la prova suprema>>. (Paolo Buffa) 

Le falsità della trasmissione di Baudo su via Rasella: la rettifica del Tg3

Ieri sera, martedì 30 luglio, nel corso del Tg3 delle 19 (edizione nazionale) è stato letto il comunicato di rettifica delle falsità sui fatti di via Rasella pronunciate durante la puntata dell'8 luglio de "Il viaggio". Il direttore Bianca Berlinguer ha letto la seguente precisazione: "Nella puntata di lunedì 8 luglio de “Il viaggio”, su RAI 3, condotto da Pippo Baudo, sono state fatte delle affermazioni imprecise e non corrispondenti a verità sull'eccidio delle Fosse Ardeatine e sui fatti di Via Rasella. Non fu offerta, infatti, alcuna possibilità ai partigiani dei Gap (gruppi di azione patriottica e non di azione proletaria come si è detto nella trasmissione) di offrirsi per salvare le vittime destinate alla fucilazione nelle Fosse Ardeatine: il Comando tedesco rese pubblica la notizia dell’eccidio solo dopo il suo compimento come riconosciuto dallo stesso maresciallo Kesserling nel corso di un processo. Ben due sentenze, poi, della Corte di Cassazione hanno qualificato l’azione diVia Rasella come “legittimo atto di guerra”. Il ricordo dei martiri delle Fosse Ardeatine, cui va sempre il nostro commosso pensiero, deve essere sempre improntato alla verità storica e mai strumentalizzato. La direzione RAI 3 prende doverosamente atto del comunicato dell’ANPI nazionale, rammaricandosi di quanto accaduto".

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Storie - I dimenticati dell'8 settembre

di Mario Avagliano

L’8 settembre 1943 non è una data qualsiasi del calendario della memoria dell’Italia. Settant’anni fa l’annuncio dell’armistizio segnò davvero una svolta, aprendo la strada al riscatto di una nazione che aveva conosciuto vent’anni di dittatura fascista, la soppressione delle libertà politiche e civili e le leggi razziali, e si era alleata con la Germania di Adolf Hitler.
Anche in questo anniversario, si è parlato troppo poco della vicenda dei circa 650 mila internati militari italiani che rifiutarono di aderire alle SS tedesche e poi all’esercito della Rsi del redivivo Mussolini, pagando la loro scelta con il campo di concentramento, il lavoro obbligatorio e, a volte, con la morte, a seguito degli stenti, delle malattie, della fame o del comportamento brutale dei carcerieri tedeschi.

Eppure la loro fu una scelta di resistenza, un tentativo di salvare l’Italia, di non farla tornare ad essere “una semplice espressione geografica”, restituendole un ”governo democratico”, come chiarisce uno di loro, il sottotenente friulano degli Alpini Giovanni Malisani, in una pagina del suo diario dell’epoca, che sarà presentato il prossimo 20 settembre a Udine.
Un’altra storia poco conosciuta è quella dei militari italiani prigionieri nei campi degli Alleati che all’indomani dell’armistizio decisero, non senza difficoltà ed ostacoli da parte degli angloamericani, di cooperare alla lotta per la libertà. Così commentava la fine della guerra uno di loro, il calabrese Antonino Corigliano, da un campo di prigionia in India, nel suo taccuino pubblicato dal figlio Gregorio (I diari di mio padre 1938-1946, Luigi Pellegrini Editore): “Le forze del bene hanno trionfato su quelle del male, schiacciando i serpenti che, con le loro spire, tentavano di stritolare le potenze amanti della pace, del lavoro e della libertà. Ed a fianco di questi popoli forti e vittoriosi, ha marciato in 20 mesi di lotta il popolo italiano, togliendo una parte di quel fango che ci era stato gettato, da parte di un regime d’oppressione e di falsità”.

È proprio grazie agli internati militari, ai cooperatori, alle forze armate del ricostituito esercito italiano del Regno del Sud, ai deportati politici e, naturalmente, ai partigiani (tra i quali ci furono tantissimi ebrei), che l’8 settembre non fu la data della vergogna o della morte dell’Italia, bensì della sua rinascita.
Ma l’armistizio, come ha sottolineato giustamente Anna Foa, a seguito dell’occupazione tedesca e della politica razzista della Repubblica Sociale di Mussolini, nelle regioni del centro-nord segnò anche il tragico passaggio dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite degli ebrei. Alla quale collaborarono molti loro connazionali italiani, così come avevano fatto al tempo dell’applicazione delle leggi razziali. Anche questo va ricordato.

(L'Unione Informa e il portale moked.it del 10 settembre 2013)

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Via Tasso: la storia non deve chiudere. Il museo della Liberazione di Roma in via Tasso è a rischio chiusura

di Stefania Miccolis

Il museo storico della Liberazione in via Tasso a Roma é in serie difficoltà economiche «Se non riusciamo ad approvare il bilancio preventivo del 2013 - dice il presidente Antonio Parisella - il museo verrà commissariato». Nella legge istitutiva che risale al 1957, è scritto che il Museo deve rappresentare la lotta di liberazione a Roma dall'8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, «ma si occupa di totalitarismi, di lotte di Resistenza, di antifascismo; nella nostra biblioteca, nell'archivio, nella mediateca c'è materiale a tutto campo su tali argomenti, e comprende anche documentazione di paesi esteri: vi sono diari della campagna in Russia, fotografie sul fronte greco. Ha il compito di fornire, raccogliere e conservare materiale su tutta l'esperienza di antifascismo».
Numeroso è il pubblico che ogni anno lo visita, dalle 13mila alle 15mila persone, e sempre più crescente è quello straniero. Le scuole vengono in visita con le loro classi gratuitamente. Gli studenti universitari fanno ricerche per le loro tesi e studiosi italiani e stranieri usufruiscono della biblioteca e degli archivi. Per citare solo due casi: Mario Avagliano ne ha tratto il libro Il partigiano Montezemolo (Dalai editore, 2012) e Robert Katz vi scrisse Roma città aperta: Settembre 1943 - Giugno 1944 (II Saggiatore) presentato in anteprima al Museo in segno di gratitudine.
«Ma tutto questo e i progetti ancora da realizzare verrebbero vanificati se ci fosse il commissariamento - prosegue Parisella -. Un commissario non può contare su quelle solidarietà che sono legate al nostro modo di essere: noi abbiamo relazioni di vertice e di base, non solo a Roma; abbiamo contatti con decine di gruppi, di associazioni di quartieri, centri sociali, centri per anziani, scuole, e collaborazioni con tutte le regioni italiane. E un commissario, per quanto bravo, non ci riuscirebbe: questa rete non si improvvisa! Anche il gruppo di volontari che lavora con noi di fronte a una situazione commissariale si troverebbe a disagio».
Diciotto sono i volontari di alta qualificazione, insegnanti in pensione, persone che si dedicano con grande passione, e ogni anno il gruppo si aggiorna anche con giovani. Poche le cifre simboliche date per incarichi di amministrazione, per l'archivio e la biblioteca; le risorse servono o per investimenti di ricerca o per il funzionamento della struttura. «Due anni fa la Regione cou una legge si impegnò con 25mila euro e il Comune con 12mila euro. Questi soldi erano stati messi in bilancio per il 2013, ma non sono stati erogati e le attuali amministrazioni, per le note vicende finanziarie, non sono in grado di fare fronte alle necessità entro il 31 dicembre».
II Museo deve trovare 37mila euro in poco più di un mese. Nel loro sito vi è una sottoscrizione aperta «e i nostri amici in Italia sono molti e si mobilitano sempre; ma se facessero una sottoscrizione fra i parlamentari e i consiglieri regionali del Lazio, il contributo sarebbe consistente, anche dal punto di vista morale: sarebbe un esempio». Il presidente Parisella sa benissimo che in questo momento gli istituti non possono soccorrersi l'un l'altro con il poco che viene dato loro. Inoltre è difficile coinvolgere qualsiasi ufficio ministeriale o dell'amministrazione locale con i grossi problemi finanziari e politici che hanno. Spera che il governo rifaccia una legge di rifinanziamento del Museo per ottenere l'autonomia economica: «Abbiamo inviato una richiesta al Ministro della cultura per sistemare la situazione futura del Museo e per fare una legge che permetta almeno di stare tranquilli. Ma bisognerà aspettare». Hanno un importante progetto da realizzare nel 2014 per conto della Presidenza del consiglio dei ministri: si chiama «Museo diffuso della Resistenza italiana» e si tratta di «un coordinamento, tramite un portale, degli oltre 160 musei della Resistenza che esistono in Italia. Si realizzeranno collegamenti, percorsi, un modo di comunicare in Italia e all'estero». Hanno poi progetti di pubblicazioni: un album con testi e fotografie della mostra di donne resistenti, perché venga usato nelle scuole; e un volume con il diario della campagna in Russia e i documenti autobiografici sulla Resistenza, lasciati dall'ex direttore del Museo Arrigo Paladini. «Le risorse per il 2014 ci sono, ma non quelle per quest'anno». Il Museo storico della Liberazione di Roma va salvato; Calderoli lo aveva barbaramente inserito nell'elenco degli enti inutili, ma è una preziosa fonte di storia, e non va né persa, né dimenticata.

Pubblicato su L'Unità del 5 novembre 2013

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Storie – Il complesso di Sciesopoli e gli 800 bambini sopravvissuti alla Shoah

di Mario Avagliano

Nell’immediato dopoguerra, tra il 1945 e il 1948, a Selvino, graziosa cittadina del bergamasco, in Val Seriana, il complesso architettonico di "Sciesopoli", inaugurato nel 1933 dal regime fascista come colonia montana dei Figli della Lupa e dei Balilla, venne adibito a rifugio e centro di riabilitazione ed educativo per 800 bambini ebrei orfani provenienti da ogni parte d'Europa, sopravvissuti ai campi di sterminio e alla Shoah, che in gran parte poi si trasferirono in Palestina. Ora quel luogo della Memoria è a rischio di distruzione.
Il complesso di Sciesopoli, come ha ricostruito il ricercatore Marco Cavallarin, fu progettato dal celebre architetto razionalista Paolo Vietti-Violi e costruito con le più avanzate tecnologie del tempo, prendendo il nome da un eroe del Risorgimento, il calzolaio milanese Antonio Sciesa, ucciso nel 1840 in una sommossa contro gli austriaci. La colonia venne attrezzata con dormitori, refettori, una piscina, un cinema, un’infermeria, un parco verde di 17.000 metri quadrati e cortili per le adunate. Qui i ragazzi fascisti venivano addestrati ad essere futuri guerrieri del regime.

Caduto il fascismo e finita la guerra, nel settembre del 1945 una delegazione guidata da Raffaele Cantoni, presidente della Comunità Ebraica di Milano, e da Moshe Ze’iri, membro della Brigata Ebraica (poi diventato direttore della Casa), si recò negli uffici di Luigi Gorini, esponente del partito socialista nonché chimico di chiara fama (uno dei pochi docenti che, sotto il regime mussoliniano, aveva rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo), delegato dal Cln di Milano a controllare i beni requisiti, e ottenne la colonia “Sciesopoli” per i bambini ebrei rimasti orfani e sopravvissuti alla Shoah. Così centinaia di giovani profughi ebrei giunsero a Selvino da ogni parte d’Europa e vi trovarono “un paradiso a lungo sognato, un castello da fiaba e a fatica si rendono conto di essere liberi, rinati a nuova vita”, come ha scritto Aharon Megged nel 1997 nel suo libro Il Viaggio verso la Terra Promessa (edizioni Mazzotta). La popolazione di Selvino, guidata dal sindaco Emilio Grigis, l’ex partigiano “Moca”, li accolse con generosità e, assieme ai volontari della Brigata Ebraica e della comunità ebraica milanese, ridonò loro il sorriso. Qui impararono l’ebraico e ritrovarono la speranza e la voglia di vivere. Nella sala da pranzo del complesso, campeggiava una grande scritta: " I giovani sono il futuro del nostro popolo". E infatti quei bambini furono tra gli oltre 25.000 ebrei sopravvissuti alle persecuzioni naziste e fasciste che, tra la fine del 1945 e il novembre del 1948, partirono clandestinamente dalle coste italiane in direzione della Palestina mandataria dove si stava costruendo il futuro Stato di Israele. Cinque di loro moriranno nella guerra di indipendenza del 1948. Successivamente “Sciesopoli”, fino al 1984, divenne un centro di accoglienza per bambini disagiati. Nel 1983 un gruppo di sessantasei ebrei che erano stati profughi nel complesso fece ritorno a Selvino, accolti dal sindaco Vinicio Grigis e dalla popolazione della cittadina. A seguito di quel viaggio si stabilì il gemellaggio tra il Comune di Selvino e il kibbutz Tze’elim, nel Neghev, dove molti dei “bambini di Selvino” si erano man mano stabiliti a partire dal 1946. Su iniziativa di Marco Cavallarin e di Miriam Bisk, figlia di Lola e Salek Najman, due profughi ebrei che lavorarono come volontari a Sciesopoli, nei giorni scorsi è partita una raccolta di firme per salvare il complesso, che ora è in stato di abbandono, e trasformarlo in un Memoriale dei Bambini di Selvino, che ricordi i giovani sopravvissuti ai lager e onori il generoso popolo selvinese e delle contrade limitrofe e le organizzazioni ebraiche italiane e internazionali che li soccorsero, li assistettero e organizzarono i viaggi in Palestina. La petizione è indirizzata al presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, al presidente della Provincia di Bergamo, Ettore Pirovano, e al sindaco di Selvino, Carmelo Ghilardi. Il comitato promotore, del quale, oltre a Cavallarin e a Miriam Bisk, fanno parte Carlo Spartaco Capogrego, Massimo Castoldi, Grazia Di Veroli, Walker Meghnagi, Valerio Onida, Patrizia Ottolenghi, Giorgio Sacerdoti, Carlo Smuraglia e Dario Venegoni e alcuni ex bambini di Sciesopoli o loro discendenti, propone agli enti di promuovere un progetto capace di preservare quella pagina di storia, come ad esempio un Museo Europeo dell’Aliyah Beth, dell’immigrazione clandestina in Palestina dopo la Shoah. Come far pervenire le adesioni? Ci sono diversi modi, ma la più diretta è scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., indicando nome, cognome, qualifica professionale e/o etico/associativa, città di residenza. Oppure sul sito di avaaz.org (un sito per petizioni) o sulla pagina di Facebook dedicata all’iniziativa.

(L'Unione Informa e Moked.it del 31 dicembre 2013)

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