Intervista a Giuliano Piccininno, fumettaro

di Mario Avagliano

Rinasce Trumoon, la storica rivista dei fumettisti salernitani. “Sono passati venti anni da quella straordinaria esperienza. Stiamo preparando un numero unico, commemorativo, che raccoglierà gli inediti di tutti i grandi disegnatori di Salerno, da Bruno Brindisi a Raffaele Della Monica”. A rivelare in anteprima la notizia a la Città, è Giuliano Piccininno, di Giffoni Valle Piana, l’illustratore delle avventure del “cacciatore di vampiri” Dampyr, che nel 1982 è stato uno dei fondatori di quella rivista. “Penso che verranno fuori delle belle sorprese”, dice Piccininno, che ora vive e lavora in quel di Valdagno, in provincia di Vicenza, e in passato ha disegnato alcuni dei personaggi più amati dal popolo degli appassionati dei comics, da Alan Ford a Wile E. Coyote.

Lei è nato a Giffoni, ma in realtà è un salernitano purosangue.
Sì, sono cresciuto a Pastena. La famiglia di mia madre, Emma De Feo, è originaria di Giffoni, ma io e i miei genitori siamo vissuti a Salerno.
La Salerno della sua infanzia è diversa da quella di oggi?
Salerno negli anni Sessanta era a sprazzi ancora una città-giardino. Si respirava un’aria di efficienza, di ordine, di senso civico. Nei primi anni Settanta, nonostante la crisi petrolifera, l’illusione del progresso era ancora viva nei salernitani. Nella seconda metà degli anni Settanta, invece, sono cominciati il degrado, il caos, il traffico, l’imbarbarimento della città. Poi è venuto anche il terrorismo (mi riferisco all’assalto alla colonna militare di Torrione, al giudice Giacumbi…). A me che ero adolescente, Salerno sembrava non avere futuro!
La sua generazione è stata una delle ultime a crescere in un mondo in bianco e nero, a partire dalle immagini della tv. Il fumetto è stato un modo di dare sfogo all’immaginazione, ai colori che avevate dentro?
Senz’altro, almeno per quanto mi riguarda. Ho scoperto che bastava una matita per evocare mondi fantastici. A trasmettermi la passione per il disegno è stato mio padre Giovanni che, nonostante fosse diplomato ragioniere, si dilettava a dipingere. I primi insegnamenti basilari me li ha dati lui. Da piccolo, poi, ero affascinato dal teatro dei burattini. Mi sono cibato molto di quelle storie. Poi pian piano ho imparato a passare dal burattino materico, tridimensionale, al pupazzetto disegnato a china, che si esprime con i balloons, con le nuvolette.
La sua arte fumettistica è frutto di studi e ricerche da autodidatta o ha frequentato scuole specializzate?
Ho frequentato il Liceo Artistico di Salerno, ma ho sviluppato il mio tratto fumettistico da solo, o meglio nell’ambito di un gruppo di compagni di scuola e di altri ragazzi del Liceo Classico accomunati dalla passione del fumetto e che sognavano, come me, di trasformare quella passione in mestiere.
Parla dello Studiocaf, il primo nucleo di quella che sarà considerata la Scuola Grafica Salernitana?
Esattamente. Lo Studiocaf nacque nel 1977, in un locale a pianterreno in via Bastioni, vicino al Duomo. Ci vedevamo lì per immaginare progetti di storie a fumetti, per confrontare le nostre tavole, per esercitarci nel disegno e nella sceneggiatura, visto che a Salerno e a Napoli non esistevano scuole di fumetto. Erano una specie di sedute di autocoscienza, in cui capitava anche di accalorarsi e di litigare, con l’obiettivo di farci maestri di noi stessi, di crescere insieme, di sperimentare a 360 gradi le nostre capacità.
Chi eravate?
Oltre a me, i componenti del gruppo erano Raffaele Della Monica, che ora disegna Zagor; Giuseppe De Nardo, che è lo sceneggiatore di Dylan Dog e di Julia; Maurizio Picerno, che è diventato architetto; Vincenzo Lauria, che scrive e disegna per la Disney; e mio fratello Giorgio Piccininno, che è insegnante di grafica.
Quali erano i vostri modelli?
Spaziavamo tra tutti i generi di fumetti, da quelli colti a quelli popolari. Enzo Lauria prediligeva il fumetto umoristico. De Nardo amava il fumetto classico. Io e Raffaele Della Monica eravamo i versatili del gruppo grazie al nostro interesse per lo stile grottesco di Magnus.
Nel 1982 Piccininno si diploma in scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Quello stesso anno, nasce la rivista Trumoon.
Ad un certo punto fu chiaro che l’unica strada per entrare nel mondo dei comics era quella dell’autoproduzione, e quindi dell’autopromozione. Bisognava avere il coraggio di spendere qualche soldo, di investire per il nostro futuro. Devo dire che coltivavamo anche il sogno di diventare editori di noi stessi. Sogno che si è scontrato presto con il fatto che, quando la rivista ha cominciato a circolare, sono arrivate le proposte di lavoro.
Quanto tempo è durata Trumoon?
Due anni, dal 1982 al 1984. Abbiamo prodotto 4 numeri, anche se molto corposi. E’ stata un’esperienza bellissima, autogestita sì, però in modo professionale. Abbiamo fatto delle cose pazze, presentando la rivista in giro per l’Italia alle mostre di fumetti, nelle edicole, nelle scuole, nelle case editrici. Ci siamo divertiti, abbiamo anche litigato, ma è stato il passo decisivo della nostra carriera. Qualcuno ha dimenticato, e non tutti citano Trumoon come dovrebbero nel loro curriculum. Se non ci fosse stata questa rivista, saremmo rimasti quasi tutti degli illustri sconosciuti.
Nel frattempo al gruppo originario di Studiocaf si erano aggiunti altri elementi...
Erano arrivati Luigi Coppola e Roberto De Angelis, che peraltro avevano già idee originali e una preparazione grafica eccellente. Quelli che hanno iniziato proprio con Trumoon, e di cui quindi possiamo “rivendicare” la scoperta, sono stati Bruno Brindisi e Luigi Siniscalchi, che allora erano assai giovani e quindi un po’ sprovveduti dal punto di vista tecnico.
Con Trumoon è nato il mito della scuola salernitana del fumetto. A distanza di venti anni, qual è stato il segreto del vostro successo?
Credo che il segreto del nostro successo sia stato l’unire la passione per il disegno alla ricerca e alla tecnica. Dopo le prime esperienze di lavoro, gli editori si sono resi conto che quei ragazzi salernitani erano professionali, erano capaci di mantenere i ritmi di produzione del fumetto seriale e popolare, e così abbiamo avuto le porte aperte dappertutto. E’ nato così l’aspetto leggendario della scuola salernitana, come un gruppo di giovani capace di cimentarsi in tutti i generi e di fornire un rapporto tra qualità e produttività che non si era mai visto, si trattasse di fumetto d’autore o di fumetto popolare.
Chi è stato il primo del gruppo a diventare professionista?
Raffaele Della Monica, che ebbe un contratto con una casa editrice di fumetti porno d’autore, che allora erano una bella palestra di crescita professionale. Poi entrambi, lui prima di me, abbiamo trovato posto nel team di disegnatori di Alan Ford. Nel frattempo ho cominciato a lavorare anche per le Edizioni Cioè, e in particolare per Boy Comics e per Tilt.
Nel 1987 è diventato anche insegnante di arte.
Ero in possesso dell’abilitazione all’insegnamento. Un mio amico dell’Accademia mi invitò a presentare una domanda di supplenza in una provincia dove ci fosse qualche possibilità di entrare nella scuola. Scegliemmo Vicenza. Con mia grande sorpresa, fui chiamato. Poi partecipai al concorso a cattedra a Venezia, vinsi, ed eccomi qui, al Liceo Scientifico di Valdagno.
Negli anni successivi lei ha disegnato molti personaggi per bambini.
Ho lavorato con il Corrierino dei Piccoli, disegnando le Tartarughe Ninja, Tiramolla, Prezzemolo di Gardaland e i personaggi della Warner Bros, in particolare Wile E. Coyote e Daffy Duck. Recentemente anche Magic Geox.
Bisogna avere una sensibilità particolare per narrare storie a fumetti destinate ai bambini?
Bisogna avere memoria, ricordarsi di se stessi da bambini. Tecnicamente, poi, occorre un “segno” abbastanza rotondo, che gli inglesi chiamano childy, e che i più piccoli apprezzano molto. Per fortuna, questo segno io ce l’ho.
Ha mai disegnato storie sue e personaggi inventati da lei?
A metà degli anni Novanta ho pubblicato un mio personaggio, Ozzy, poi assieme a De Nardo, ho scritto e illustrato diverse storie mie, pubblicate sull’Intrepido. E’ stato un breve e felice periodo di assoluta libertà creativa. Ricordo che su uno degli ultimi numeri dell’Intrepido, per casualità assoluta, si concentrarono lavori di molti di noi salernitani: io, De Nardo, Della Monica, Brindisi, Siniscalchi. Purtroppo l’Intrepido chiuse, per problemi di cattiva gestione interna, e così quella esperienza ebbe termine.
Nel 1997, però, entrò nella scuderia della Bonelli.
Mi chiamarono a disegnare Dampyr, il cacciatore di vampiri, e da allora è diventato la mia piacevole condanna. E’ un personaggio di grande spessore, mi piace molto, anche perché l’ho seguito fin dall’inizio. Sarebbe facile dire che si tratta di un antieroe, in realtà è un mezzo vampiro per parte di padre, che scopre di avere un tipo di sangue che è l’unica cosa che può uccidere i vampiri. Di fronte alla scelta se diventare un vampiro, e acquisire l’immortalità, oppure restare un essere umano, e di conseguenza combattere il male, opta per il bene, per l’umanità.
Salerno è mai entrata nelle sue tavole?
Nel 2000 ho pubblicato un calendario insieme ad altri disegnatori dove ho proposto una mia visione a fumetti di Salerno, molto sentita e appassionata. Per il resto, non nascondo che a volte uso il campanile del Duomo come sfondo di paesaggi urbani.
Che rapporto ha con la sua città?
Amo Salerno, ci torno volentieri e la trovo davvero rinata rispetto al passato. A Pasqua ho fatto un giro per il centro storico e l’ho trovato meraviglioso. E’ una città che, per quanto la conosco, non finisce mai di stupirmi per le sue bellezze. Vedo segnali positivi anche nel mondo dell’arte, grazie a queste grandi mostre che si stanno organizzando.
Lei vive da anni a Valdagno, nel Nordest. Che cosa le manca di Salerno?
Da disegnatore, potrei dire la luce. Dove vivo, i giorni luminosi sono assai pochi. Ma mi manca anche il vento di mare, quella brezza marina che spira tra i palazzi di Pastena, e poi mi manca il paesaggio della mia terra. Qui il territorio è tutta una megalopoli padana, fatta di capannoni e di industrie, che da Torino arriva a Venezia e a Udine. Non c’è quello spazio libero fra i centri abitati, quella natura quasi selvaggia del Cilento o dell’entroterra salernitano.
Lei è stato un quattrocentista di buon livello e resta un uomo anche di sport. Segue le sorti della Salernitana?
Ultimamente poco. Sono rimasto colpito dalla brutta storia del treno, dopo la partita con il Piacenza, e mi sono disinteressato del calcio. Ora preferisco il rugby, dove l’ambiente mi pare più sano. Sono in contatto con la squadra di Salerno e sono preparatore atletico e dirigente della squadra di Valdagno, che milita in serie C. Naturalmente l’atletica resta il primo amore…
Ha mai avuto problemi o si è trovato a disagio per il suo essere meridionale?
No. Sono convinto che il problema del leghismo si spieghi antropologicamente, e sia legato a questioni di branco. Gli abitanti del Nordest, presi singolarmente, sono persone tranquille e generose. E quando dimostri di essere capace di lavorare quanto e più di loro, come hanno fatto tanti meridionali emigrati qui, ti rispettano e ti stimano.

(La Città di Salerno, 18 aprile 2004)

Scheda biografica

Giuliano Piccininno nasce il 5 settembre del 1960 a Giffoni Valle Piana. Nel 1977, mentre frequenta il Liceo Artistico di Salerno, fonda con gli amici De Nardo, Della Monica e Picerno e Lauria lo Studiocaf, primo nucleo di quella che sarà poi definita "Scuola Grafica Salernitana". Dopo aver conseguito il titolo di Scenografo all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, nel 1982 vara la rivista autogestita “Trumoon”, grazie alla quale esordiscono anche altri giovani autori salernitani oggi noti quali Brindisi, De Angelis, Coppola, Bigliardo; l'esperienza dura pochi numeri in quanto tutti gli autori trovano in breve lavoro presso vari editori. Passa al professionismo nel 1984 con Alan Ford che disegna fino al 1987, anno durante il quale, a seguito di concorso, entra in ruolo come insegnante di Disegno e Storia dell'Arte. Stabilitosi a Valdagno, in provincia di Vicenza, inizia a collaborare alle testate "Masters of the Universe" e "Magic Boy". Dal 1992 lavora per Il Corrierino disegnando le Ninja Turtles ed i personaggi della Warner (Wile E. Coyote, Daffy Duck), per il nuovo Intrepido su testi di De Nardo, e per Starcomix, sulle cui pagine da’ vita ad un personaggio interamente suo, “Ozzy", con avventure successivamente raccolte in volume dalla Tornado Press. Dal 1994 disegna e sceneggia Arthur King, l’insolito personaggio di Bartoli e Domestici. Nel 1995 coordina per la Tornado Press il progetto "Thrash" allo scopo di promuovere disegnatori esordienti. Del 1996 disegna e scrive storie per “Prezzemolo”, il draghetto mascotte del parco di Gardaland edito dalla multinazionale danese Egmont e produce la serie supereroistica di “Rave”, pubblicata dalla Tornado Press. Nel 1997 approda alla Sergio Bonelli Editore, come disegnatore del cacciatore di vampiri “Dampyr”, lavoro che lo impegna tuttora. Recentemente ha scritto e disegnato le avventure di “Magic Geox”, albi pubblicitari diffusi in tutto il mondo.

Intervista a Maria Giustina Laurenzi, attrice

di Mario Avagliano

Attrice, regista televisiva e teatrale, autrice di sceneggiature e di testi per il teatro. La cinquantenne salernitana Maria Giustina Laurenzi è un vulcano di iniziative. E’ una delle registe preferite di Dacia Maraini e ha frequentato a lungo casa Moravia. E’ amica di Lina Wertmuller e ha recitato in molte delle sue pellicole, come “Francesca e Nunziata”, il film-tv tratto dal fortunato libro di Maria Orsini Natale e andato in onda su Canale 5 la scorsa stagione. La Laurenzi vive tra Salerno e Roma, dove ha la sua base di lavoro, e il prossimo 5 aprile presenterà al Teatro delle Arti il suo ultimo documentario, voce narrante la Maraini, dedicato alla provincia di Salerno tra miti, storia e cultura.

Partiamo dalla Salerno della sua infanzia...
La mia è una famiglia di commercianti. Mio padre e mia madre si amavano molto. Ho avuto un’infanzia bellissima. Vivere in una città piccola facilita le amicizie, gli incontri, i giochi. Abitavo in via Principessa Sighelgaita e passavo interi pomeriggi a giocare con i miei amici nell’allora Orto Botanico.
Com’era la Salerno di quel tempo?
La Salerno degli anni Cinquanta era una città urbanisticamente elegante, con un lungomare di grande fascino. Poi purtroppo, a cavallo degli anni Sessanta, quando ero adolescente, ho visto sorgere i mostri, i palazzoni di cemento, specie nella zona orientale. Culturalmente, invece, c’era ben poco, a parte alcune figure importanti come Alfonso Gatto. Un giorno, avevo quindici anni, mi ritrovai a leggere le poesie di Gatto al Casino Sociale, con lui presente. Ricordo ancora che al termine della serata si complimentò con me e io arrossii.
Quando nasce la sua passione per il teatro?
Io studiavo al Liceo Artistico, con mia cugina Loredana Gigliotti, che poi è diventata una brava pittrice. Quasi subito, però, mi resi conto che quello non era il mio mondo, e così a 14-15 anni cominciai a frequentare un gruppo di ragazzi che faceva teatro, tra i quali c’era Geppino Gentile, che ora insegna letteratura spagnola all’Università. Insieme a loro feci i primi passi in quel mondo nel gruppo di Alessandro Nisivoccia.
Ci parli di Nisivoccia.
Avevamo entrambi i nasi più belli di Salerno; belli perché lunghi, intendo dire. Lo prendevamo bonariamente in giro perché imitava Gasmann. Siamo rimasti amici. Quando lo incontro per strada, ci abbracciamo contenti.
Il ‘68 lei lo vive sulle “barricate”…
Partecipai intensamente a quella stagione. Ho dei ricordi bellissimi. Per esempio, le riunioni carbonare negli appartamenti per organizzare le occupazioni della scuola. Facevo parte di un gruppo di persone vitali che aveva uno scopo nella vita. Ci credevamo veramente, i ragazzi di oggi non se ne rendono conto. Avevamo la sensazione di vivere una rivoluzione, eravamo certi che tutto il mondo sarebbe cambiato.
E’ in quel turbinio di passioni e di ideali che conosce Michele Santoro?
Sì. Michele era già allora un leader. T’incantavi a sentirlo parlare. Era un ragazzo di grande intelligenza, che sapeva il fatto suo. Tra l’altro era bellissimo. Piaceva molto alle ragazze. Con lui organizzammo anche spettacoli di strada. Ricordo un memorabile “Fanfani e Pulcinella”.
Santoro faceva teatro?
Faceva parte del gruppo teatrale dal quale, nel 1970, ebbe origine Teatrogruppo.
Il Teatrogruppo di Salerno fu una delle realtà più interessanti del teatro sperimentale di quegli anni.
La nostra intenzione era “politica”. Volevamo realizzare spettacoli che arrivassero in maniera diversa alla gente, producendo un teatro non più borghese ma di ricerca. C’erano Paola Apolito, Geppino Gentile, Carlo Vassallo, Ciro Caliendo, Gabriella e Giuliana D’Amore, Andrea Bastolla, Fiorenzo Santoro, Attilio Bonadies, Michela Manzoni. Ognuno di noi ha preso strade diverse, chi è diventato magistrato, chi docente universitario, chi preside, ma quell’esperienza fu davvero formativa per tutti, perché eravamo animati dalla voglia di stare insieme, di creare insieme.
Con il Teatrogruppo rappresentaste spettacoli nei luoghi sacri della cultura italiana, dalla Biennale di Venezia alla Piccola Scala di Milano.
Le nostre messe in scena erano il frutto di una grande ricerca sulla musica, i canti e i balli della tradizione popolare del salernitano. Era una cosa nuova per il teatro italiano e quindi ci invitarono un po’ dappertutto. Uno spettacolo assai emozionante fu a Torino, sotto un tendone da circo, ad una rassegna nazionale di teatro di ricerca. Cominciò a piovere e sotto il fragore della pioggia la nostra cantante, Adriana Ciaco, intonò una ninna nanna popolare che mise i brividi a tutti gli spettatori. Fu come se ci avesse restituito un pezzo di mondo antico.
Nel 1977 lei fonda e dirige Teatra.
Erano gli anni del femminismo. Sentivamo l’esigenza di sperimentare un teatro scritto e interpretato secondo il punto di vista delle donne. All’inizio pensammo a una scissione dal Teatrogruppo, ma lì c’erano i nostri fidanzati e mariti, e allora ci limitammo a declinare il gruppo al femminile. Scoprimmo che c’è un modo diverso di narrare al femminile, che da storie minime riesce a tirare fuori interi mondi. Adesso questo tipo di linguaggio è facilmente riconoscibile, per esempio in donne regista come Francesca Comencini, ma allora era una novità rivoluzionaria.
Scrivendo e recitando per Teatra conosce Dacia Maraini.
La incontrai per la prima volta nel 1979, nel corso di un convegno sul teatro delle donne. Qualche tempo dopo lei mi chiamò a dirigere un suo spettacolo teatrale, Suor Juana. Era il mio primo contratto da professionista. Fu un successo e da allora Roma diventò la mia città di vita e di lavoro.
Lei ha curato la regia di molti testi teatrali, cinematografici e radiofonici di Dacia Maraini. Com’è nel privato questa grande scrittrice?
Dacia è una delle mie migliori amiche, è una persona con la quale ho diviso tante cose, dai viaggi, all’arte, al teatro, fino alla vita di tutti giorni. Per me è stata anche una maestra, mi ha insegnato molto a livello di scrittura e mi è stata vicina nei momenti di scoraggiamento, quando volevo mollare tutto. Di carattere è un po’ brusca, tra amiche la chiamiamo Madame Bruschetti. In realtà è un donna straordinaria, buonissima.
Tramite la Maraini lei ha frequentato anche Alberto Moravia.
Ho trascorso molte vacanze nella loro casa di Sabaudia. Moravia era quello che si dice un burbero buono. Ricordo che di sera rimanevamo in pochi, poiché la maggior parte degli ospiti usciva. Io sedevo accanto a lui e con la mia faccia tosta gli chiedevo di raccontarmi dei suoi viaggi. Passavo ore e ore ad ascoltare incantata le sue esperienze e le sue peripezie in Africa, in Cina, in giro per il mondo. Era un vero affabulatore. Diceva sempre che se non avesse fatto lo scrittore, sarebbe diventato un avventuriero.
Nella sua carriera artistica c’è un altro incontro “fatale” con una grande donna della cultura e dello spettacolo italiano, Lina Wertmuller.
Lina mi chiamò a collaborare alla sceneggiatura di una storia sulle canzoni napoletane, intitolata “Napoli luntanamente”, insieme a Raffaele La Capria. Quella sceneggiatura non è mai diventata un film, ma solo uno spettacolo teatrale. E’ iniziata però un’amicizia che dura tuttora e che ci porta a condividere sogni, progetti, speranze. Insieme a lei ho realizzato il Don Chisciotte, con la collaborazione del Conservatorio di Salerno e di quel bravissimo musicista che è Antonio Sinagra.
Anche la Wertmuller quanto a carattere non scherza…
La sua frase tipica è: “State attenti, che io picchio!”. Ed è vero, è un peperino, è una donna guerriera, ma insieme a Dacia è anche una delle persone più buone e generose che io conosca.
Con la Wertmuller lei è tornata anche a fare l’attrice.
Sì, ho recitato in alcuni suoi film: Ninfa Plebea, Francesca e Nunziata e Io speriamo che me la cavo. A proposito di quest’ultima pellicola, voglio raccontarvi un aneddoto che mi riguarda. Quando chiamarono la Wertmuller per proporle la regia di questa pellicola, ero a casa sua, stavamo lavorando a una sceneggiatura. Mandammo subito un amico ad acquistare il libro di Marcello D’Orta in libreria. Quando ce lo portò, lei mi disse: “Leggimelo tu, con il tuo bell’accento napoletano…”. Da allora è diventato un rito: ogni volta che fa un film, mi chiama a recitare o in qualche modo a partecipare al suo lavoro. Sono diventata un suo portafortuna.
In Francesca e Nunziata lei ha interpretato la zia di Sofia Loren.
Mi sono divertita da morire a girare un film tutto in costume, e poi con grandi attori come Giancarlo Giannini e Sofia Loren. La Loren è di una bellezza sconvolgente, ed è anche simpatica. E’ una donna semplice, mi creda.
La settimana prossima presenta il suo ultimo documentario televisivo, “Gran Tour”, dedicato alla provincia di Salerno, con la voce narrante di Dacia Maraini.
E’ il diario di viaggio di Dacia Maraini tra i miti, le suggestioni, la cultura, i profumi, la storia della nostra bellissima provincia. Mi hanno aiutato molto a realizzarlo dei miei amici fedelissimi, tra i quali mio cugino Lorenzo Gigliotti. L’idea è nata insieme al Presidente dell’ente provinciale Alfonso Andria, una persona veramente speciale, che ama profondamente il teatro. Posso aggiungere una cosa su di lui?
Prego.
Andria non sembra neanche di questa epoca qui. E’ impegnato su mille fronti, lavora dalla mattina alla sera, e pure nello stress rimane un uomo pieno di grazia, di cultura, un gentiluomo di altri tempi, distante anni luce dai politici rampanti di oggi, che sono soltanto rabbia e guerra.
A proposito di Salerno, è cambiata rispetto agli anni Settanta?
I sindaci degli ultimi anni si sono dati un gran da fare. Salerno si è letteralmente trasformata, recuperando l’antica bellezza e il suo fascino di città che si affaccia sul mare e sale dolcemente lungo le colline.
Ha nuovi progetti legati a Salerno?
L’Asl salernitana mi ha chiesto di realizzare un documentario sulla salute mentale. Ho già iniziato i sopralluoghi e devo dire che sono rimasta favorevolmente impressionata. La qualità della vita di chi soffre è migliorata in modo incredibile rispetto ai tempi bui dei manicomi.
Da donna di spettacolo e di cultura, che giudizio ha del clima culturale della Salerno di oggi.
Ho un giudizio molto positivo. Vedo dei bagliori di rinnovamento che fanno ben sperare. Penso alla rassegna teatrale al Teatro Verdi curata da Gennaro Cappuccio e da Franco Tozza, alle grandi mostre d’arte nel complesso di Santa Sofia, alle sette orchestre dell’Università, all’associazione D’Una che organizza un festival cinematografico delle donne. Dopo trent’anni sono stanca di vivere a Roma, e grazie a tutte queste iniziative, trovo sempre più spesso l’occasione di poter trascorrere lunghi periodo di tempo a Salerno, la città che amo e dove ho tutti i miei affetti.

(La Città di Salerno, 28 marzo 2004)

Scheda biografica

Maria Giustina Laurenzi è nata a Salerno il 19 maggio del 1951. Laureata in Lettere Moderne, ha frequentato il corso di sceneggiatura cinematografica di Gigliola Scola e quello di scrittura teatrale di Dacia Maraini. Dal 1970 al 1980 ha lavorato come attrice, animatrice teatrale e ricercatrice con il Teatrogruppo di Salerno, realizzando numerosi spettacoli che sono stati rappresentati, tra l’altro, alla Biennale di Venezia, alla Piccola Scala di Milano, al festival internazionale di Lenzburg e al festival di Chieri. Tra il 1977 e il 1980 è stata assistente volontaria alla cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo dell’Università di Salerno. Sempre nel 1977 ha fondato e diretto, fino al 1985, il gruppo teatrale Teatra, per il quale ha scritto e messo in scena gli spettacoli: S.C.U.M., Vuoto a perdere, Viaggio di ritorno, Dipartire, Alla ricerca del bottino perduto. Dal 1980 lavora assiduamente con Dacia Maraini, per la quale ha firmato la regia di numerosi testi teatrali (Suor Juana, Viaggio nella memoria, Lezioni d’amore, Lettere al padre), cinematografici (Trio e Scialle azzurro) e radiofonici (Quarto mondo). Per il teatro, nel 1987 ha diretto Uscita d’emergenza, di Manlio Santarelli, con il gruppo Il Giullare, e più di recente, El Retablo de Maese Pedro (2003), opera musicale da Manuel De Falla. Per il cinema, ha scritto tra l’altro il film Tutti gli anni, una volta all’anno (1994), con Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman e Lando Buzzanca, presentato fuori concorso al festival del Cinema di Venezia. Dal 1985 lavora alla Rai come regista ed autrice. Ha recentemente firmato con Mauro Morbidelli e Loredana Rotondo una serie di ritratti di Rai Educational dal titolo Vuoti di memoria.

Intervista a Lorenzo Gigliotti, regista

di Mario Avagliano


Se c’è un regista televisivo italiano che rappresenta l’antitesi della tv spazzatura e dei reality show, è il salernitano Lorenzo Gigliotti, che nell’ultimo decennio ha realizzato alcuni dei programmi culturali di più alto spessore mandati in onda dalla Rai, da Storia dell’Economia con Galbraith a Storia della Letteratura Italiana con Edoardo Sanguineti. Non a caso Bernardo Bertolucci ha scritto di lui: “Senza dubbio quella di Gigliotti è televisione di qualità”. Gigliotti è anche regista di alcuni apprezzati documentari di Rai Educational, e in passato ha girato diversi spot pubblicitari, tra cui due del Pastificio Amato. Da New York, dove si trova adesso, parla della tv italiana e dei suoi progetti futuri, tra cui spicca la realizzazione di un documentario sulle feste popolari salernitane negli Stati Uniti d’America.

La sua famiglia è salernitana?
Sì, appartengo a una famiglia di commercianti salernitani. Nel primo Novecento il mio nonno paterno possedeva un’industria di scarpe. Mio nonno gestiva un famoso negozio di giocattoli, la Galleria Gigliotti, che sorgeva dove è adesso il bar Nazionale. Quando risiedo a Salerno, vivo nella casa dove è nato mio padre, che si trova sul lungomare, all’altezza del centro storico.
Com’era la Salerno della sua infanzia?
Ho sempre amato Salerno, i suoi profumi, la sua luce, i suoi vicoli. Il privilegio di abitare vicino al mare, rende il ricordo ancora più piacevole. Certo, poi c’era l’altra faccia della medaglia di una città che per lunghi anni è stata senza biblioteca, senza un teatro, e che presentava pochissimi appuntamenti musicali e culturali di livello. In quegli anni era dura vivere a Salerno per chi guardava oltre l’orizzonte della provincia. Ricordo che quando si organizzava un concerto al Casino Sociale o al Canottieri, per me era un avvenimento!
I suoi inizii sono musicali più che televisivi…
Nella mia famiglia l’arte è di casa. Da ragazzo ho studiato a lungo pianoforte, sulla scia di mio padre Francesco, che suonava jazz. Ma sono cresciuto cibandomi non solo di musica. Mia sorella Loredana è una brava pittrice. Mia cugina Giustina Laurenzi è una regista teatrale e televisiva. Mio zio Vittorio Gigliotti è un architetto di valore mondiale, che con Paolo Portoghesi ha realizzato tra l’altro la Moschea di Roma e la Chiesa di Fratte. Mia cugina Brigitte è la scenografa di Zeffirelli…
A un certo punto, però, ha lasciato lo studio del pianoforte.
Ho capito che non era quella la mia strada e così, dopo essermi diplomato al Liceo Scientifico “Da Procida”, mi sono dedicato alla filosofia. Mi sono laureato all’Università di Salerno con Achille Mango come relatore e una tesi abbastanza singolare per l’epoca: un video sul narcisismo. Credo che sia stata la prima o una delle prime tesi italiane in video.
Nel 1985 ha vinto il concorso del Ministero dei Beni Culturali.
Si trattava di realizzare una serie di documentari per la Conservazione dei Beni Demoetno-antropologici, sotto la guida del famoso antropologo Diego Carpitella. Da allora l’antropologia è diventata la lente attraverso la quale leggo la realtà.
Dal 1990 è entrato nella ristretta cerchia dei registi televisivi della Rai.
Ho curato la regia sia di programmi culturali che di intrattenimento, passando dalla Storia dell’Economia, girata a Boston, negli Stati Uniti, al concerto live dell’Orchestra Italiana di Renzo Arbore a Ischia.
Con una parentesi anche nel mondo pubblicitario.
Ho lavorato per la BBDO International, l’agenzia che tra l’altro cura la pubblicità della Pepsi Cola. Mi sono divertito, non rinnego quell’esperienza, ho sperimentato un diverso modo di narrare per immagini, anche se il genere che prediligo è senza dubbio il documentario.
Perché?
Trovo che il documentario sia uno strumento conoscitivo della realtà e sia utile per capire in profondità certi argomenti.
Tra i tanti programmi e documentari che ha realizzato, qual è il lavoro di cui va più fiero?
Sicuramente i documentari di antropologia. Se devo citarne uno, direi quello sui Gigli di Nola, che io considero la più bella festa del mondo, e che è stato mandato in onda dalla Rai e anche da alcune televisioni americane.
Lei ha lavorato con importanti personaggi della cultura, della scienza e dell’arte. Chi l’ha colpita di più?
Non sempre la grandezza e l’umanità vanno a braccetto. Bernardo Bertolucci si è rivelata una persona di una grazia e di una gentilezza unica. Un altro personaggio di una dolcezza estrema e di grande fascino intellettuale è Edoardo Sanguineti. Ma mi è anche capitato di lavorare con personaggi antipatici, odiosi, scostanti, come un famoso musicista, di cui non voglio fare il nome.
Le piace la tv di oggi, dominata dai format e dalle fiction?
Sono lontano da questa tv che mi sembra una lunga sequela di spot interrotta ogni tanto da qualche programma. Anche le trasmissioni culturali spesso sono gestite come lunghi spot televisivi senza pensare che la cultura, l’apprendimento ha bisogno di altri tempi e altre scelte estetiche. Io ho un’idea diversa di televisione, per me la forma, la tecnica, serve ad esprimere il contenuto. Un programma è riuscito solo se riesce a mixare questi due aspetti.
Non salva niente?
Apprezzo i programmi di Rai Educational, anche se vanno in onda in orari infelici, alle 8 del mattino o alle 2 di notte. Mi piace molto la Grande Storia, un bellissimo programma per il quale lavora anche un mio ex compagno di banco della scuola elementare Vicinanza Ferdinando D’Arezzo, figlio del ministro. Al Liceo, io Ferdinando e Alfonso Pecoraro Scanio eravamo inseparabili.
Alfonso Pecoraro Scanio?
Proprio lui. Eravamo compagni di banco e amici veri. Alfonso fin da bambino era un leader. Ricordo che dopo l’esame della V elementare, piantò una grana perché voleva fare in modo che la nostra maestra potesse seguirci anche alla scuola media. Era già allora un ragazzo di grande ipnotismo e capacità di leadership. Anche io, a modo mio, sono un leader, infatti faccio il regista, ma come si dice dalle nostre parti “lui non mi vede proprio”.
E’ vero che lei vive tra New York, Roma e Salerno?
Sono convinto che non avere una dimora fissa sia un vantaggio, perché permette di cogliere il meglio delle città dove si vive.
Parliamo di New York.
Io amo molto New York, ci abito per gran parte dell’anno. Per me è una base di vita e di lavoro. Per esempio ora sto realizzando con l’antropologo Paolo Apolito un documentario per la Provincia di Salerno sulle feste popolari salernitane che vengono organizzate dalle comunità di italoamericani negli Stati Uniti, come a Brooklyn. Spero che sia il primo documentario di una lunga serie dedicata a questo tema.
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Sono fortemente legato alla mia città, ho dedicato anche una poesia a Salerno. Il fatto di viverci solo alcuni mesi all’anno, me la fa amare ancora di più. Credo che negli ultimi anni sia migliorata moltissimo, architettonicamente e culturalmente. Ci sono tanti cinema, c’è un teatro di prim’ordine, si organizzano concerti di musica classica, mostre d’arte internazionali, è in vista la metropolitana. Giudico assai positivo il progetto di città dinamica che è stato portato avanti negli ultimi anni.
Salerno non ha neppure un difetto?
Forse l’unico difetto è l’illuminazione del lungomare. Un tempo i lampioni erano radi e la luce più soffusa. L’attuale illuminazione a giorno toglie il fascino dello stare seduti di fronte al mare… E poi, pensandoci bene, se un errore storico è stato commesso, è stato quello di trasferire l’università fuori dalla città.
Colpa di chi?
E’ stata un’operazione terribile, di carattere esclusivamente elettorale, che cade tutta sulle spalle di De Mita. Portoghesi, mio zio Vittorio con l’allora sindaco Menna cercarono di evitare questo errore, ma non ci riuscirono. E’ stato veramente assurdo costruire il campus a Fisciano. E pensare che Salerno nel Medioevo era sede della Schola Medica Salernitana! Il risultato è che i professori vengono all’Università, fanno lezione e vanno via… Non c’è circolazione di idee! Non c’è rapporto tra l’Università e la città!
Progetti nel cassetto?
Un’opera lirica. Spero che la situazione si sblocchi presto.
Ha mai lavorato a Salerno?
Quasi per niente, e quando è capitato, è stato veramente complicato. Ricordo le difficoltà anche burocratiche che ho incontrato quando ho girato il Don Giovanni al Teatro Verdi, con Roberto De Simone. Soltanto il Presidente della Provincia Andria si è mostrato sensibile alle mie proposte. Il resto della città neppure sa che esisto, probabilmente…

(La Città di Salerno, 21 marzo 2004)

Scheda biografica

Lorenzo Gigliotti, scrittore e regista, è nato a Salerno il 31 luglio del 1958. Laureatosi in filosofia all’Università degli studi di Salerno, nel 1985 ha vinto un concorso del Ministero dei Beni Culturali ed ha curato la regia di un progetto di documentari per la Conservazione dei Beni Demo-etno-antropologici. Nel 1990 ha cominciato a lavorare con la Rai, come regista radiofonico e televisivo, realizzando programmi culturali, di intrattenimento e documentari, molti dei quali premiati in Festival Internazionali. Tra i programmi, vanno citati: Storia dell'economia, programma in 10 puntate con J.K. Galbraith (1998); Storia della Letteratura Italiana di Edoardo Sanguineti, programma in 30 puntate con E. Sanguineti (1998-1999); Lezioni di Cinema, programma in 15 puntate con Fernaldo di Giammatteo (2000), Breve storia della Logica, programma in 24 puntate con Piergiorgio Odifreddi (2002). Ha insegnato Istituzioni di Regia presso l'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha anche pubblicato diversi saggi, biografie e una raccolta di poesie.

Intervista a Giampiero Virtuoso, musicista jazz

di Mario Avagliano

La critica ha scritto che il suo “drumming è dinamico” e che la sua batteria viaggia attraverso jazz, funky, tango e reggae. A quasi 39 anni, Giampiero Virtuoso da Cava dei Tirreni è forse il batterista più amato nel mondo jazzistico italiano. Non a caso è entrato stabilmente nella squadra di talenti di Gegè Telesforo, e vanta collaborazioni con importanti musicisti americani e brasiliani. Intervistato da la Città, Virtuoso sostiene che “Salerno è la New Orleans italiana”, ma lamenta la scarsa sensibilità dei gestori dei locali e delle istituzioni verso gli artisti salernitani.

La sua famiglia è cavese?
Sì, per essere precisi della Badia di Cava. Mio padre era impiegato comunale, mia madre casalinga.
E’ vero che a cinque anni già sognava di diventare un batterista?
La batteria mi ha sempre affascinato, fin da piccolo, forse per la forma dello strumento, forse per il suono vibrante… Non so dire il perché, in famiglia nessuno suonava le percussioni. Eppure di notte sognavo di suonare la batteria, e a scuola invece di disegnare case ed alberi, disegnavo la grancassa, i piatti, il tamburo, insomma era quasi una fissazione.
Chi l’ha iniziata alla musica?
Mio padre era appassionato di musica lirica e di musica classica. Mio zio Antonino era direttore d’orchestra, e suonava il corno. Chi però mi ha fatto conoscere il genere di musica che poi mi è entrato nel cuore, è stato mio fratello Roberto, che era chitarrista. Grazie a lui ho ascoltato Santana e poi i grandi gruppi rock degli anni Settanta.
Ha avuto qualche maestro?
Ho iniziato a studiare a tredici anni con Pietro Vitale, che a sua volta mi trasmetteva i preziosi insegnamenti del Maestro Antonio Golino, grande batterista napoletano. Poi ho continuato da autodidatta, e mi sono formato prima suonando cover nei garage, e poi esibendomi in decine e decine di night e di jazz club di tutt’Italia e anche all’estero.
Il primo concerto dal vivo?
A parte le feste di compleanno, la mia prima esibizione dal vivo risale al 1984, al Pub Il Moro, a Cava, che forse è stato il primo locale nel salernitano a proporre concerti live di jazz o di blues. Gli amici con i quali suonavo allora erano, oltre a Pietro Vitale, Alfonso Adinolfi, Enzo Carratù, Carlo Senatore. Tra l’altro, per me frequentare il Moro è stata l’occasione anche di conoscere grandi artisti come Larry Nocella e Franco Del Prete.
Quando è diventata una cosa seria il mestiere di batterista?
Più o meno intorno al 1987, quando avevo 18-19 anni e, proprio al Moro, ho conosciuto i fratelli Deidda, nel corso di una jam session. Sono nate un’amicizia e un feeling che hanno avuto un prosieguo alle Botteghelle di Salerno e durano tuttora. Ricordo che tra il ’90 e il ‘91 avevamo affittato un locale a Fratte, che chiamavamo “Il Posto”. Andavamo lì e suonavamo tutta la giornata insieme, imparando gli uni dagli altri e sperimentando nuove sonorità.
Chi sono Alfonso, Dario e Sandro Deidda?
Sono tre grandissimi talenti e, dal punto di vista umano, delle persone assai gradevoli e piacevoli. Musicalmente, ogni parola sarebbe superflua: ho imparato molto da loro e abbiamo condiviso insieme tante esperienze.
In quegli anni Salerno era una fucina di musicisti jazz, blues, pop…
Alla fine degli anni Ottanta, Salerno ha vissuto una stagione straordinaria dal punto di vista musicale. Penso, oltre ai Deidda, a Giovanni Amato, Daniele e Tommaso Scannapieco, Amedeo e Gino Ariano, Stefano Giuliano, Joseph Lepore, Aldo Vigorito, Jerry Popolo, i Neri per Caso, Renato Costarella, Angelo Mutarelli, Gaspare Di Lieto e, nel campo del blues, Peppe Zinicola e il compianto Giovanni Ventre. Avevamo costituito anche un’associazione dei musicisti salernitani…
Il gruppo più “mitico” di quei tempi?
Credo la Gad-b Band, con Dario Deidda al basso; Bruno Brindisi, il grande fumettista di Tex Willer e Dylan Dog, alle tastiere; Jerry Popolo al sax; e Amedeo Ariano alla batteria.
Si parla di scuola salernitana del jazz. E’ d’accordo?
Se un ambasciatore del jazz come Gegè Telesforo sostiene che “Salerno è la New Orleans italiana”, un motivo ci sarà…
A proposito di Telesforo, come l’ha conosciuto?
Attraverso Dario Deidda. Gegè mi ha dato subito fiducia, ha creduto in me e sono ormai tre anni che lavoriamo insieme. E’ un bravissimo professionista e anche una persona semplice e un amico vero. Mi diverto molto a suonare con lui, soprattutto quando improvvisiamo duetti voce-batteria.
Sono emersi nuovi talenti di recente a Salerno?
Uno su tutti, Julian Olivier Mazzariello. Julian più che un talento è un genio. E’ il più bravo di tutti come pianista, ha la strada già tracciata, deve solo percorrerla. Ultimamente ha avuto qualche problema, ma sono felice che stia recuperando, anche grazie all’aiuto di Lucio Dalla.
A parte Mazzariello?
Direi Carla Marciano, che mi piacerebbe sentire nominata di più. E poi il pianista Alessandro La Corte, il bassista Antonio De Luise, il batterista Gaetano Fasano e, tra la schiera di giovani sassofonisti che seguono la scia dei Deidda e di Jerry Popolo, citerei almeno Peppe Platano e Antonio Loffredo.
Qual è oggi il panorama musicale a Salerno?
Non vedo grandi fermenti. Forse i tempi sono cambiati, e poi ci sono anche meno locali che propongono musica dal vivo, e i gestori quasi sempre non tutelano gli artisti e non curano l’acustica. A parte il Fabula e il Colonial, il panorama è deprimente.
Come mai?
Nella nostra provincia si valorizza poco il bene cultura. Per restare al jazz, a Napoli si fa molto di più per valorizzare i musicisti, e senza avere i talenti che ci sono a Salerno.
Il suo giudizio su Salerno è negativo anche per quanto riguarda i cambiamenti urbanistici?
No. Salerno si è trasformata negli ultimi anni, e grazie al sindaco De Luca ha fatto dei progressi straordinari. Ora è veramente un gioiellino!
E la sua città natale, Cava?
Mi sembra un po’ più statica, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista culturale. La città è deliziosa, ma iniziative zero. Per fortuna ha riaperto il Pub il Moro. Spero che possa dare lustro a Cava e diventare di nuovo un punto di riferimento in Campania per i musicisti e per gli amanti del jazz e del blues.
Qual è il suo genere musicale preferito?
Non è un mistero che io prediliga il jazz, ma non mi fermo lì. Sono un batterista “versatile”. Mi piace suonare un po’ di tutto, anche il funky, la fusion. Ho collaborato pure con musicisti pop, da Mango a Barbara Cola.
Qual è il batterista a cui si ispira Giampiero Virtuoso?
Mi piacciono i batteristi musicisti, quelli che pensano innanzitutto alla musica, prima di dare sfogo alla tecnica. Non ce n’è uno solo. Se devo fare dei nomi, dico Peter Erskine, con il quale ho avuto l’opportunità di partecipare a uno straordinario seminario di lavoro. E poi Tony Williams, Elvin Jones, Jeff Porcaro. Ultimamente un batterista che mi fa impazzire, è Brian Blade.
Quali sono i musicisti con i quali ha lavorato che le hanno dato di più, dal punto di vista professionale ed umano.
E’ difficile rispondere, perché sono tanti: il chitarrista brasiliano Toninho Horta, Antonio Onorato, Nicola Stilo, Gianni Basso, che è un sassofonista straordinario, i fratelli Farias. E sicuramente ne ho dimenticato qualcuno.
Progetti in corso?
Sto suonando con Dario Deidda e con Daniele e Tommaso Scannapieco, in giro per i clubs di tutt’Italia. Presto farò delle serate anche con Gianni Basso e in trio con Angelo e Aldo Farias. In primavera, poi, entrerò in studio di registrazione per il nuovo disco di Michele Di Martino.
Vive solo per il jazz o ha anche altri interessi?
La famiglia per me è importante. Mia moglie Michela è di Napoli e ci siamo conosciuti in un locale napoletano, nel corso di un concerto. La musica porta anche questo! Mi ha dato uno splendido bimbo, Manuel, che adesso ha 2 anni e quattro mesi. A parte il jazz, le mie passioni sono la fotografia e internet. Mi diverto molto anche con i programmi di composizione musicale. Ho scritto un po’ di pezzi, ma per ora rimangono nel cassetto. Anche se, un giorno, mi piacerebbe farne un disco tutto mio.

 (La Città di Salerno, 29 febbraio 2004)

Scheda biografica

Giampiero Virtuoso nasce a Cava dei Tirreni il 10 marzo del 1965. Fin dalla tenera età di cinque anni mostra un notevole interesse verso la batteria. A tredici anni inizia a studiare con il Maestro Antonio Golino, proseguendo poi da autodidatta. Si avvia quindi alla sua attività di professionista, con varie esperienze all’estero in night club e in jazz club.
Nel 1987 conosce i fratelli Deidda, con i quali inizia a suonare nei locali di Salerno e provincia insieme a Daniele Scannapieco, Joseph Lepore, Jerry Popolo e altri.
Nel 1988 è tra i fondatori dell’orchestra dell’A.M.S. (associazione musicisti salernitani) con la quale partecipa a vari festivals. Nel 1988 collabora nel campo della musica leggera con Mango (in studio) e negli anni seguenti in vari tour con: Pier Giorgio Farina, Ivan Cattaneo e Barbara Cola.
Da ricordare le partecipazioni all’Umbria Jazz (1991), al Lecce Jazz (1999) e alla Festa della Musica di Praga (1999), alla Villa Celimontana Jazz (2003) e le collaborazioni jazzistiche con: Sam Rivers, Lester Bowie, John Lee, Tony Scott, Danilo Rea, Giovanni Tommaso, Nicola Stilo, Toninho Horta, Giovanni Amato, Antonio Onorato, Dario Deidda, Pietro Condorelli, Joe Amoroso e James Senese.
Attualmente collabora con vari musicisti tra cui i fratelli Farias, J. Popolo, D. Scannapieco, Danilo Rea, Deidda Brothers, Carico Eccessivo e Brazilian Love Affair, Gegè Telesforo (Pure Funk Live). Fa parte, già da alcuni anni, del gruppo di Antonio Onorato, e del Trio Three from the Ghetto di Dario Deidda.

Discografia:
Antonio Onorato - Un Grande Abbraccio (Polosud record 2000)
GeGè Telesforo – We Couldn’t Be Happier… (GoJazz 2002)
Jerry Popolo – Soul Eyes (coffee music 2003)

Intervista a Luigi Siniscalchi, fumettaro

di Mario Avagliano


Ha illustrato le indagini da incubo di Dylan Dog e gli enigmi di Martyn Mystére e di Zona X. Il salernitano Luigi Siniscalchi, 33 anni appena compiuti, è uno dei giovani talenti della scuderia Bonelli, grazie al suo tratto sintetico e spigoloso che piace tanto ai lettori di fumetti. Conosciuto nel mondo dei comics anche con lo pseudonimo di Sinis (diminutivo di Siniscalchi), è attualmente il disegnatore numero uno di Nick Raider, il detective della Squadra Omicidi di New York, che vanta origini italiane (il nonno si chiamava Raidero) e si muove nella spietata giungla urbana della Grande Mela.

Lei viene da una famiglia salernitana?
Sì. Mio padre Aniello era tornitore, lavorava alla Landis, nella zona industriale, ed era stato all’Orfanotrofio Umberto primo. Mia madre Giulia De Rosa era casalinga. Io sono l’ultimo di quattro figli.
Se dovesse disegnare la Salerno della sua infanzia, come la rappresenterebbe?
La Salerno della mia infanzia era il centro storico con il dedalo dei suoi vicoli; i cani e i gatti che popolavano i “bassi” salernitani; l’odore di bucato dei panni stesi sui balconi di via dei Mercanti; l’ex Orfanotrofio, dove spesso ci portava mio padre; la zona del “pennello” al porto. Ricordo le arrampicate sugli scogli; il Castello Arechi, prima che fosse restaurato… Era una Salerno bella, perché autentica, popolare.
Quando ha iniziato a cimentarsi nel fumetto?
A farmi conoscere questo mezzo espressivo fu mio fratello Eugenio, che ora è uno stimato pittore e insegnante. Nel periodo in cui frequentava l’Accademia di Belle Arti di Firenze, Eugenio cominciò a leggere riviste come Totem, l’Eternauta, Frigidaire, Alter Alter, Alan Ford, L’Incal di Moebius... Portò a casa quegli albi, e così all'età di 14 anni divenni un appassionato lettore di autori argentini (Muñoz, Breccia, Mandrafina, Font) ed italiani (Magnus, Liberatore, Pazienza). Più tardi conobbi anche i super-eroi, dall’Uomo Ragno a Conan, e apprezzai così Gil Kane, Buscema, Romita. Mi dilettavo a copiare e ricopiare anatomie e movimenti ripassando a china con la tecnica del pennello e del pennino.
Poi frequentò il liceo artistico…
Fui costretto a dimenticare tutto quello che avevo imparato da autodidatta. Gli insegnanti dicevano che avevo maturato uno stile considerato "troppo fumettistico". In effetti, soprattutto nei disegni liberi eccedevo in “grafismi”. Il mio maestro di figura fu Matteo Sabino (noto acquerellista e disegnatore salernitano) che mi educò alla tecnica del chiaroscuro e al disegno a penna "con una sola linea", senza il supporto della matita. Capii così l'importanza dello studio e l'insufficienza del solo talento istintivo.
Furono anni duri?
Abbastanza. Trascorrevo gran parte del mio tempo a disegnare qualsiasi cosa, riempendo blocchi di fogli con ritratti di attori e scorci della mia città.
Che tipo era Matteo Sabino, come maestro e come artista?
Sabino era un insegnante eccezionale che trasmetteva tecnica e passione. Un maestro senz’altro severo, esigente, capace di critiche forti, anche di dirti “strappa tutto e rifallo d’accapo”. Ho imparato molto da lui, in particolare mi ha insegnato a dare maggiore attenzione a quello che si guarda, senza improvvisare o inventare, a capire le cose nella loro essenza e soprattutto a dare il massimo di se stessi. Insomma pura filosofia di vita.
E il Sabino artista?
Era veramente un grande. I suoi paesaggi della costiera amalfitana sono opere insuperabili. Ho avuto la fortuna di vederlo dipingere, e devo dire che mi impressionava molto l’immediatezza e la “freschezza”dei suoi acquerelli. E’ difficile da spiegare in una battuta.
Quando tornò a disegnare fumetti?
Non ho mai smesso, anche quando studiavo al Liceo. Io sono un po’ più giovane degli altri esponenti della scuola salernitana del fumetto e così purtroppo non ho fatto in tempo a far parte della storica rivista Trumoon, che era animata da Giuliano Piccinino, Raffaele Della Monica, Giuseppe De Nardo, Bruno Brindisi e altri. Però entrai in contatto con loro e quando Bruno, Roberto De Angelis e Gino Coppola misero su uno studio in via Lungomare Trieste, m’invitarono a partecipare all’impresa ed io non me lo feci ripetere due volte.
Come vi siete conosciuti?
“Lo zoccolo duro” dei fumettisti salernitani, penso Al Mumble Rumbe (che all’inizio degli anni Ottanta era uno dei punti di ritrovo di musicisti e artisti salernitani). Io, invece, grazie a Licio Esposito, che nel lontano ’85 organizzò una rassegna di cartoni animati al Liceo Sabatini. Fui messo in contatto con Giuliano Piccininno e successivamente conobbi tutti gli altri.
Le piacque l’esperienza del lavoro comune?
Fu un’esperienza molto formativa. Ricordo quel periodo come un vero e proprio laboratorio di dibattito e di sperimentazione. Guardavamo agli stessi autori (forse per questo ci hanno definiti come “Scuola Salernitana”, per la nostra similitudine nel tratto). Siamo cresciuti insieme, disegnando ed ascoltando musica.
Che musica ascoltavate?
Un po’ di tutto. Io ero un fan dell’heavy-metal. Bruno Brindisi prediligeva la fusion, il jazz. Roberto De Angelis amava la musica dark e il rock degli anni Settanta. Gino Coppola preferiva Paolo Conte, i cantautori, ma anche gruppi emergenti per l’epoca come gli U2.
Il suo primo lavoro come fumettaro?
Fu grazie a Roberto De Angelis e a Bruno Brindisi, che mi dissero che si era aperta una casa editrice di fumetti hard a Roma, la EPP. L'editore visionò i miei disegni e mi commissionò una storia di 30 pagine a due vignette per tavola. Mi divertii molto, non senza affrontare le difficoltà del genere; si richiedeva un disegno realistico, con ambienti, automobili e naturalmente corpi nudi… la cosa più difficile!
Ehm… dal fumetto hard passò allo splatter…
Ben presto la EPP iniziò una nuova produzione horror e splatter e - assieme ai colleghi Coppola, Brindisi e De Angelis - lavorai su testi di Ferrandino, Dal Prà, La Neve.
All’inizio degli anni Novanta, la "scuola salernitana" fece il suo ingresso alla Bonelli.
Con mia grande meraviglia Tiziano Sclavi, l’autore di Dylan Dog, ci mise pochissimo tempo a decidere di “ingaggiarmi”. Le mie tavole di prova, lo ammetto, erano scarse, soprattutto per la fisionomia del personaggio, che non avevo”azzeccato”, ma lo scrittore rimase colpito da una figura mostruosa che avevo disegnato e da alcune sequenze. Iniziai a disegnare storie scritte da Claudio Chiaverotti, per Dylan Dog, appunto. Successivamente ho lavorato su testi di Claudio Castelli per Martyn Mystére e Zona X, con D'Antonio e Manfredi su Nick Raider e con Giancarlo Berardi, De Nardo e La Neve su Julia.
Oggi lei è disegnatore di Nick Raider e illustra le sceneggiature di Stefano Piani e Claudio Nizzi. Chi sono i fumettisti a cui si ispira?
In realtà è sempre difficile rispondere a questa domanda. Sono davvero tantissimi gli autori che mi piacciono. Tempo fa avrei citato nomi di disegnatori noir come Alex Toth, Muñoz, Mazzucchelli, Zaffino; avventurosi come Hugo Pratt e di commedia come García Seijas e Alfonso Font, oggi non saprei dire…potrei nominarne altri venti e dimenticarne qualcuno.
Quali sono i suoi hobby?
Adoro il cinema. Tra l’altro credo che non si può fare a meno di attingere da esso. Ho visto innumerevoli volte "Taxi Driver" e "Toro Scatenato" ,”Quei bravi ragazzi” ma, oltre a Scorsese, adoro Oliver Stone, un grande "raccontatore per immagini", il “deviato” Quentin Tarantino e apprezzo i film della commedia italiana di Dino Risi, di Massimo Troisi, Alessandro Benvenuti, il primo Verdone e i classici di Totò e Sordi.
So che lei è un grande appassionato di musica e di libri.
Disegnando non si può fare a meno di ascoltare musica. I miei idoli adolescenziali sono stati i Van Halen, i Mötley Crüe, gli Iron Maiden e molti altri gruppi heavy di quegli anni . Poi sono passato ai virtuosismi chitarristici di Malmsteen e Satriani ,al suono sporco di Jimi Hendrix e al "parlato" dei riffs di Frank Zappa e del pirotecnico Steve Vai. Oggi amo molto anche i cantautori italiani, fra tutti il preferito è Vinicio Capossela, ma non ho rinnegato il passato. L’altra mia passione è la lettura.L eggo con molto piacere Simenon (con il suo disilluso Maigret); John Fante e tempo fa anche gli autori italiani pulp,come Brizzi , Aldo Nove…e naturalmente i fumetti.
Quali fumetti?
Tex, Dampyr, Napoleone, Magico Vento, ma anche fumetti francesi e qualcosa di americano.
Qual è il personaggio che disegna più volentieri?
Io sono molto fedele, adesso dico Nick Raider, perché è duro e ironico al tempo stesso; però tempo fa forse avrei detto Dylan Dog, con il suo aspetto così fragile e la sua amarezza.
E il personaggio con il quale vorrebbe misurarsi?
Penso che Tex Willer sia l’espressione massima del fumetto popolare, chissà se un giorno sarò all’altezza di cimentarmi con i cavalli, i paesaggi e tutto quel mondo così distante da me, ma così interessante…
Il suo sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe continuare su questa strada. La Casa Editrice Bonelli è la più importante casa editrice italiana e l’unica a produrre ogni genere di fumetti, quindi mi basta e avanza!
Negli ultimi anni sono emersi nuovi talenti a Salerno nel mondo dei comics?
Questa è una domanda difficile… Sì, credo siano nati nuovi disegnatori a Salerno, ma considerarli “talenti” mi sembra troppo. Affermo questo senza presunzione. Sicuramente ne ho visti di bravi nelle scuole di fumetti di Napoli e Roma, ma da noi a Salerno nessuno mi ha colpito positivamente. Nascono fotocopie di disegnatori già esistenti con l’unica differenza che peccano di spessore e di carattere; fanno il loro”compitino” ben fatto senza interpretare e sorprendere.
Salerno entra mai nelle sue tavole di fumetti?
Per un periodo Martin Mystére ha vissuto in Italia, alla ricerca degli irrisolti “misteri italiani”, ma non mi sembra sia mai stato a Salerno o, almeno, a me non è mai capitato di disegnare questi luoghi. Non è detto però che Nick Raider o Dylan Dog un giorno non possano vivere un avventura dalle nostre parti, chissà.
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Ho viaggiato poco, ma penso che non vorrei vivere in nessun altro posto al mondo. Ho vissuto per un periodo della mia vita tra Roma e Viterbo, ma mi mancava il senso di tranquillità che mi trasmette la mia città. I paesaggi della costiera, poi, penso siano ineguagliabili!
La città è cambiata molto negli ultimi anni…
E io che ne so? Sto sempre seduto al mio tavolo da lavoro! Naturalmente scherzo. Amo la mia città… spero solo che non cresca troppo velocemente, non credo di esserci preparato. Ho paura che si perdano nel tempo i sentimenti veri delle piccole città di provincia, ma forse questa è un’altra storia…

(La Città di Salerno, 15 febbraio 2004)

Scheda biografica

Luigi Siniscalchi è nato a Salerno il 24 gennaio del 1971. Una volta conseguito il diploma al Liceo artistico di Salerno, dove è allievo del pittore Matteo Sabino, comincia a lavorare nel mondo del fumetto, disegnando per la EPP. Nel 1989 pubblica su "Splatter" e "Mostri", della Acme. Nel 1992 pubblica una storia su “Comic Art” collabora con la Casa Editrice Universo disegnando alcune “storie libere”per l'”Intrepido”. Nel 1993 entra a far parte dello staff di Sergio Bonelli con l’ episodio di Dylan Dog "I killer venuti dal buio". Disegna anche per Zona X, per Julia e per Martin Mystère. Attualmente è nel parco disegnatori di Nick Raider.

Intervista ad Antonio Calenda, regista teatrale

di Mario Avagliano


Il suo ultimo lavoro si intitola “’Na sceneggiata”, ha debuttato il 6 febbraio al Trianon di Napoli, ed evoca i fantasmi “di un mondo che ha caratterizzato circa un trentennio di teatro napoletano, dagli anni Quindici alla fine della guerra”. Antonio Calenda, classe 1939, originario di Buonabitacolo (Salerno), è uno dei maggiori registi italiani contemporanei e ha diretto diverse opere che hanno segnato la storia del teatro italiano dagli anni Sessanta ad oggi. In quarant’anni di carriera, si è cimentato nel teatro classico (da Shakespeare ad Eschilo) e in quello sperimentale (Brecht, Beckett), non disdegnando grandi allestimenti di opere liriche, e lavorando con i più importanti attori italiani, da Gigi Proietti a Giorgio Albertazzi, passando per Piera Degli Esposti, Carlo Giuffrè, Pupella Maggio, Franca Valeri, Elsa Merlini, Michele Placido, Glauco Mauri e Mario Scaccia. Direttore del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, Calenda vive tra Trieste e Roma ma dice di essere legato “indissolubilmente a Salerno e al Cilento”.


I suoi genitori erano cilentani?
Erano entrambi della Valle del Diano. Mio padre Giuseppe era di Arena Bianca, vicino Padula, ed era un ufficiale di artiglieria. Mia madre Grazia Mautone, casalinga, era di Buonabitacolo. Io sono nato nella casa dei nonni materni, in un bel palazzo ottocentesco di Buonabitacolo.
Poi suo padre venne trasferito a Roma.
E io e mia madre l’abbiamo seguito. Sono cresciuto nella capitale, ho frequentato tutte le scuole a Roma.
Come nacque la sua passione per il teatro?
Per caso. Avevo 12 anni ed era una di quelle noiose giornate domenicali degli anni Cinquanta. Al Teatro dell’Opera di Roma davano Otello. Io e un mio amico fummo attirati dal titolo sul cartello e così acquistammo il biglietto per il loggione. La star dello spettacolo era Del Monaco. Quella messinscena semplice ma potente, fatta solo di qualche telo nero, mi affascinò. Rimasi fulminato dal melodramma e sognavo di diventare baritono. Mi misi a studiare canto, frequentavo regolarmente l’opera, entravo nei camerini dei cantanti.
Dalla lirica passò al teatro.
A 18 anni, quando compresi che la lirica non faceva per me, provai a recitare. Volevo iscrivermi all’Accademia, però mio padre si oppose e volle che frequentassi l’università. All’inizio per me fu una frustrazione, ma appena presi la laurea in Giurisprudenza (con una tesi su “La giustizia nell’Orestea di Eschilo”), vinsi un concorso all’Ises, l’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Con i soldi dei primi stipendi, affittai una cantina. Lì, insieme a Virginio Gazzolo, Gigi Proietti, Leo De Berardinis e Piera Degli Esposti, nel 1965 fondai il Teatro Centouno che, in quella temperie culturale di forte rinnovamento, divenne subito uno dei luoghi più importanti del teatro sperimentale italiano.
Il cosiddetto teatro d’avanguardia.
Sì, anche se allora fare l’avanguardia era un’impresa solipsistica, perché quel tipo di teatro non accedeva ai fondi pubblici. Per mantenerci, facevamo tutti un doppio lavoro. Io ero avvocato all’Ises, Gigi Proietti si cimentava nel doppiaggio e cantava nei night con un complesso, Gazzolo costruiva le scene con le sue mani, Piera poi, quando l’abbiamo conosciuta, era addirittura una sarta… Io e Gigi abitavamo insieme, in una stanza al convento dei preti ortodossi, e ci svegliavamo ogni mattina al canto dei cori russi. Era dura, però la nostra voglia di innovare, di creare qualcosa di autenticamente originale, ci faceva superare ogni sacrificio.
Il suo debutto alla regia avvenne nel 1965, con un lavoro di Giorgio Manganelli, “Iperipotesi”. Il suo primo successo è datato qualche mese dopo, quando mise in scena “Direzione Memorie”, di Corrado Augias, con Gigi Proietti e Virginio Gazzolo.
Corrado allora era vice del quotidiano l’Avanti ed era uno degli intellettuali che frequentavano assiduamente il nostro teatro, che era diventato il punto di ritrovo di personaggi come Chiaromonte, Flaiano, Guttuso, De Chirico, Anna Magnani, Dacia Maraini. Quello spettacolo era un omaggio a Beckett e fu molto lodato dalla critica. Ricordo che De Feo scrisse sull’Espresso che “con altri due o tre spettacoli di questo tipo, non ci sarebbe crisi del teatro in Italia”.
Furono anni di intensa attività per lei.
Mi alzavo ogni mattina alle 6 e non andavo a dormire prima delle 2 di notte. Dopo tre anni di questa vita, mi venne un collasso!
Comunque l’establishment del teatro italiano cominciò ad interessarsi di voi.
Dopo l’articolo di De Feo, Paolo Grassi ci invitò a portare il nostro spettacolo al Piccolo Teatro di Milano. Ci sembrò un miracolo. Ottenemmo un grande successo. Entrammo così nel giro del teatro ufficiale, anche se – come purtroppo accade in questi casi - gli altri nostri colleghi dell’avanguardia ci considerarono alla stregua di transfughi, di traditori.
Il 1969 fu l’anno della consacrazione per lei e per Gigi Proietti.
Il primo exploit fu dirigere, ad appena 25 anni, al Teatro Stabile di Roma, l’opera di Bertolt Brecht “Nella giungla della città”. Per me fu un vero onore essere nello stesso cartellone di due mostri sacri del teatro italiano come Edoardo De Filippo e Patroni Griffi. Intanto ero stato chiamato al Teatro Stabile dell’Aquila. Lì curai la regia de “Il Dio Kurt”, di Alberto Moravia, con Gigi Proietti e Alida Valli. Fu un trionfo, per me come regista e per Proietti come attore.
Iniziò allora il sodalizio con Moravia?
Moravia ci seguiva dappertutto. Erano gli anni della contestazione e andavamo in giro per l’Italia con i nostri spettacoli di teatro sperimentale. Era un periodo di grande fertilità, non come oggi che la cultura italiana è spenta. Allora poi gli intellettuali erano più attenti e curiosi nei confronti del teatro.
Nel 1971 Antonio Calenda dirige il suo primo film.
Si chiamava “Il giorno del furore”, era tratto da un romanzo incompiuto dello scrittore russo Lermontov, e venne interpretato da Oliver Reed e Claudia Cardinale. Lo scrissi a quattro mani con un importante drammaturgo inglese, Edward Bond, che era anche l’autore di Blow Up di Antonioni. Il produttore inglese era la Saltzmann, quella di 007. Era la storia di una vendetta familiare, che si svolgeva nel quadro dei moti protorivoluzionari di Mosca. Un film di passioni forti, che ebbe un notevole successo di pubblico.
Perché non continuò con il cinema?
Perché tutti i produttori mi chiedevano di rifare il primo film, ed io invece volevo fare qualcosa di diverso. Per esempio, avrei voluto realizzare una pellicola da “Il Dio Kurt” di Moravia. Così, non potendo realizzare i miei progetti, venni risucchiato dal teatro.
Lei è stato per nove anni direttore del Teatro Stabile dell’Aquila. La regia di cui va più fiero?
Sicuramente “Rappresentazione della Passione”, un lavoro di cui sono anche autore, su testi del ‘500 abruzzese. E’ una sorta di apologo sulla guerra civile italiana e sul nazismo, incentrato su un Cristo operaio e sulla Madonna che parlano la lingua pietrosa e concreta degli abruzzesi. Una lingua che diventa una presenza quasi fisica, un corpo teatrale. Anche l’allestimento è suggestivo: la scena è costituita da una passerella quadrangolare che recinge il pubblico. E’ uno spettacolo che ha attraversato tutta la mia vita: è stato rappresentato dappertutto, dall’Australia al Canada, e ha avuto oltre 500 repliche. Tra l’altro il ruolo della Madonna è stato interpretato dalle tre attrici che ho amato di più nel corso della mia carriera: Elsa Merlini, Pupella Maggio e Piera Degli Esposti.
Perché sono le attrici che ha amato di più?
Elsa Merlini era una vocalista straordinaria, una piccola donna dalle incredibili capacità teatrali. Pupella Maggio era una maestra dello stare in scena, della gestualità sottintesa. Come poi non essere affascinati dall’astrazione folle, allucinata ma attrattiva di Piera Degli Esposti?
E tra gli uomini?
A parte Gigi Proietti, ricordo con affetto soprattutto l’esperienza con Giorgio Albertazzi, con il quale ho portato in scena “Enrico IV” e una rivisitazione folle del “Giulio Cesare”, e quella con Vittorio Gasmann, che negli ultimi anni della sua carriera scelse di lavorare con il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia.
Nel 1982 Antonio Calenda fonda la Compagnia Teatro dell’Arte.
Di quel periodo egualmente fertile, ricordo in particolare la messa in scena di ‘Na sera e maggio, con Pupella, Beniamino e Rosalia Maggio, che fece il giro il mondo ed è stato oggetto anche di un film della Rai che ancora oggi si studia nelle università. Furono un grande successo anche Aspettando Godot, in cui chiamai a recitare i deliziosi vecchietti del varietà italiano, da Mario Scaccia a Pietro De Vico ed Aldo Tarantino, accanto all’allora quasi sconosciuto Sergio Castellitto; e poi Cinecittà, un apologo sul teatro di varietà e sul cinema. Danza di morte, invece, lo spettacolo con il quale ho vinto il premio della critica italiana e che valse il massimo riconoscimento come attori ad Anna Proclemer e a Gabriele Ferzetti, in sala fu un mezzo fiasco. Chi sa, forse la parola “morte” costituì un deterrente per il pubblico.
E’ in teatro che lei conosce sua moglie Daniela Giovanetti.
Sì, fu in occasione della rappresentazione della commedia musicale “Le ragazze di Lisistrata”, una sorta di L’attimo fuggente al femminile, scritto però con vent’anni di anticipo. Daniela, oltre ad essere mia moglie, è un’attrice bravissima.
Dove vive adesso Antonio Calenda?
Bella domanda. Ho una casa a Roma e una casa a Trieste, dove dirigo il Teatro Stabile, che è una realtà vivacissima e aperta alla cultura mitteleuropea. Spesso poi vado a trovare mio figlio a Riccione, dove vive con la nonna materna. E’ una situazione paradossale, ma speriamo in tempi brevi di riunirci tutti a Roma.
Torna mai a Buonabitacolo?
Qualche volta. Dopo la morte di mia nonna, purtroppo sempre meno. Mia nonna era una donna straordinaria. Il fratello era un grande giurista, Francesco Brandileone. Nel primo Novecento insegnò in Germania e fu uno dei fondatori della materia del diritto italiano. Però io amo moltissimo la mia terra, il Cilento. Per diversi anni sono andato al mare a Scario, nel golfo di Policastro, tra Maratea e Camerota.
Una terra, il Cilento, ancora poco sfruttata dal punto di vista turistico.
Negli ultimi anni stiamo recuperando terreno. Per esempio, il modo in cui è stata restaurata la Certosa di Padula, mi riempie di orgoglio sudista. Ho letto con piacere che il mio amico Achille Bonito Oliva la sta rivitalizzando anche come spazio policulturale.
E’ amico di Bonito Oliva?
Eravamo tutti e due docenti dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, insieme a Carmelo Bene, ad Arbasino, a Bussotti, a Ceroli. Forse il fatto di avere origini comuni, ci ha fatto diventare amici.
Insomma, le radici salernitane contano.
Eccome. Ricordo che a casa mia si parlava in italiano, ma l’accento dei miei era inconfondibilmente cilentano, e accarezzava le mie orecchie con la sua musicalità. La cultura campana è stata fondamentale nella mia educazione. Mio padre mi portava a vedere Peppino De Filippo e Totò al varietà, e più tardi anche io ho incontrato il teatro classico napoletano, curando la regia di commedie di Eduardo De Filippo e di Eduardo Scarpetta.
E con Salerno, ha rapporti di qualche tipo?
Spesso i miei spettacoli vengono rappresentati al Teatro Verdi, ma confesso che mi piacerebbe avere contatti più profondi con Salerno e con le sue istituzioni culturali. Da quando il professore Achille Mango, che è stato un grande studioso di teatro, è scomparso, non ho avuto più occasione di rapporti professionali né con l’Università né con gli enti locali. Eppure negli ultimi anni Salerno è stata protagonista di un grande rinnovamento sul piano urbanistico e culturale, è una città ricca di fermenti che ha subito una vera e propria palingenesi. Mi piacerebbe lavorare a qualche progetto che la coinvolga.
Intanto è tornato ad occuparsi di teatro napoletano, con ‘Na sceneggiata, che ha debuttato venerdì al Trianon di Napoli.
Raccontiamo l’itinerario artistico e umano della più famosa compagnia di sceneggiata napoletana, la Cafiero-Fumo, che nacque dalla fusione delle compagnie di questi due grandi attori, che inventarono il genere della sceneggiata. Un genere che ebbe uno strepitoso successo in quel tempo, perché era alla portata del sottoproletariato, e univa la musica e il canto allo strazio delle passioni forti, come il tradimento e il disonore. Il Virgilio che accompagna gli spettatori alla scoperta di questo mondo che non c’è più è Nuccia Fumo, la figlia di Eugenio, il grande capostipite della compagnia, un’attrice di rara poesia. Il cast è completato da due attori di razza, Umberto Bellissimo e Nando Neri, e da due bravissimi cantanti, Maria Nazionale e Antonio Buonomo. E in scena si respira l’aria dei vicoli di Napoli.

(La Città di Salerno, 8 febbraio 2004)


Scheda biografica

Antonio Calenda nasce a Buonabitacolo (Salerno) il 25 marzo del 1939. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza, inizia la propria attività teatrale nell'ambito del Teatro Universitario di Roma. Regista ed autore, nel 1965 fonda il Teatro Sperimentale Centouno, con Gigi Proietti, Virginio Gazzolo, Francesca Benedetti e Piera degli Esposti, gruppo che si proporrà come punto di riferimento per la sperimentazione teatrale. Successivamente lavora per il Teatro di Roma e dirige in due riprese, e per un periodo di nove anni, il Teatro Stabile dell'Aquila le cui produzioni sono rappresentate anche all'estero, in paesi quali Australia, Francia e Canada. Fonda quindi la Compagnia Teatro d'Arte per la quale, dal 1982, ha diretto spettacoli ospitati sovente da festival internazionali, e ha organizzato numerose manifestazioni culturali in Italia.
Nel corso della sua lunga carriera, Calenda ha curato la regia di un centinaio di opere teatrali, tra cui diverse messinscene di Shakespeare (Coriolano con Luigi Proietti, Come vi piace, Riccardo III con Glauco Mauri, Sogno di una notte di mezza estate con Mario Scaccia ed Eros Pagni, Otello con Michele Placido), Eschilo (Prometeo, Agamennone, Coefore, I Persiani, Eumenidi), Brecht (Nella giungla della città, La madre con Pupella Maggio, Madre Coraggio con Piera degli Esposti), Beckett (Aspettando Godot con Pupella Maggio, Giorni felici con Anna Proclemer), contemporanei come Franco Brusati (Le rose del lago) e Achille Campanile (L'inventore del cavallo, Centocinquanta la gallina canta, Alta distensione, Un'indimenticabile serata, Gli asparagi e l'immortalità dell'anima), e il teatro classico napoletano (La musica dei ciechi di Viviani; Il sindaco del rione Sanità di Eduardo de Filippo con Turi Ferro; Il medico dei pazzi di Eduardo Scarpetta con Carlo Giuffrè). Tra le altre messinscene: Enrico IV di Pirandello, Svenimenti di Cechov, Uno sguardo dal ponte di Miller, Tradimenti di Pinter, l'Edipo a Colono di Sofocle. Si è cimentato anche nella regia lirica, allestendo opere di Verdi, Mozart, Massenet, Spontini, Rossini, Honegger.
E’ anche autore di diverse opere, tra le quali vanno ricordate: Rappresentazione della Passione, con Elsa Merlini; ’Na sera e maggio con Pupella, Beniamino e Rosalia Maggio; Cinecittà; Giulio Cesare di Shakespeare per Giorgio Albertazzi.
Dal 1995 è direttore del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, e continua a svolgere attività di promozione di autori italiani contemporanei (tra questi, opere di Valduga, Manfridi, Archibugi, Maraini, Ruccello, Paolini, Tarantini, Bassetti, Magris e Cavosi, di cui ha messo in scena Rosanero e Il maresciallo Butterfly).
Ha realizzato numerose regie radiofoniche e televisive. Tra queste, La vedova Fioravanti di M. Moretti, L'agente segreto di J. Conrad, La signora Ava di F. Iovine. Nel 1971 ha diretto il film Il giorno del furore, scritto con Edward Bond e interpretato da Claudia Cardinale, Oliver Reed e John Mc Enery.

 

 

Intervista ad Alfonso Pecoraro Scanio, politico

di Mario Avagliano


Parlare con Alfonso Pecoraro Scanio non è impresa facile. Definirlo “vulcanico” è dir poco. Passa da una riunione all’altra, da un impegno di partito a Roma a un dibattito di campagna elettorale a Frascati, dal consiglio comunale di Napoli a un incontro riservato con il sindaco Rosa Russo Jervolino. L’ex delfino di Pannella a Salerno, primo assessore ecologista della giunta rosso-verde di Vincenzo Giordano nella seconda metà degli anni Ottanta, ad appena 44 anni è ora uno dei politici più apprezzati d’Italia. Presidente dei Verdi, è stato ministro dell’Agricoltura di uno dei governi del centrosinistra della passata legislatura, quello guidato da Giuliano Amato. Da noi intervistato, rivela: “Tutto cominciò al Liceo Tasso…”.

Com’era Salerno quando lei era ragazzo?
Forse viveva uno dei suoi momenti peggiori, la fase del degrado. Ricordo che c’era sempre più traffico, sempre più caos. Una delle cose che mi faceva più rabbia era il mare inquinato. Io ho fatto i miei primi bagni ad Erchie, ma quando ero adolescente, l’acqua era diventata sporca anche in costiera.
Ci racconti del periodo del Tasso. La sua passione politica è nata sui banchi di scuola?
Avevo sedici anni. Nel ’75 si votavano per la prima volta i consigli d’istituto, dopo l’approvazione dei decreti delegati di riforma della scuola. La mia lista, l’Unione Studenti Democratici, vinse le elezioni al Tasso e io risultai primo degli eletti.
Era una lista di sinistra?
Si trattava di una lista indipendente, laica, sicuramente non conservatrice, ma eravamo attaccati sia dai fascisti che dagli estremisti di sinistra. Per andare a scuola ero costretto a fare un giro lungo, senza passare per via Diaz, dove c’era la sede del Msi, perché altrimenti i “fasci” mi avrebbero picchiato. Da sinistra invece arrivarono ad accusarmi di essere monarchico perché avevo due cognomi...
Poi lei si avvicinò ai radicali.
Pannella conduceva allora le battaglie contro il finanziamento dei partiti, contro il nucleare, contro la caccia. Battaglie che io condividevo. E così nel ’77 mi iscrissi al Collettivo politico radicale.
Dunque partecipò al Movimento del ’77 da radicale…
Già. Era l’epoca della P38. Io invece convinsi gli studenti del Tasso a organizzare un sit in nonviolento davanti all’ufficio del preside, impedendogli di uscire. Ricordo che tra gli amici-avversari di allora c’era Luciano Pignataro, il quale era leader degli studenti che facevano capo all’organizzazione comunista marxista-leninista.
Il 77 fu un periodo di fermenti anche a Salerno…
Eccome. La nostra generazione è stata una generazione che credeva nella possibilità di cambiare. Pensi che quando ho compiuto 18 anni, non ho fatto in tempo neppure ad organizzare la festa perché ero impegnato ad occupare la scuola...
E a guidare i radicali alla vittoria nelle elezioni scolastiche.
Nel ’77 il Tasso è stato il primo e credo l’unico liceo d’Italia a maggioranza radicale. Il mio gruppo era molto attivo. Organizzavamo cineforum, avevamo un giornale satirico, “l’Aureo Tasso”. Io diventai il leader dell’occupazione, che durò trenta giorni. Grazie al mio atteggiamento pragmatico, convinsi anche i rappresentanti dei genitori a schierarsi con noi.
A un certo punto però rischiò di essere espulso.
Era accaduto che all’assemblea degli studenti, nel mio intervento avevo detto che “alcuni docenti erano deficienti”. Fui deferito e ci fu chi propose la mia espulsione da tutte le scuole della Repubblica. Per fortuna ero studioso e mi facevo ben volere in classe. Così i miei professori mi salvarono, votando contro questa proposta.
E il suo primo comizio?
Fu nel maggio del 1978, nella piazza di Vallo della Lucania, con oltre mille persone. Eravamo impegnati nella campagna referendaria contro il finanziamento pubblico ai partiti. Ricordo che ero molto emozionato ed anche provato dal lungo viaggio per raggiungere quella città.
Ci parli un po’ dell’esperienza con i radicali a Salerno.
Il nostro circolo era radicato in città, ma anche in provincia. Avevamo fondato una radio radicale autonoma rispetto a quella nazionale. Nel ’78 io diventai segretario provinciale dei radicali e giravo continuamente tutti i 150 comuni del salernitano. Pannella mi prendeva in giro, mi chiamava “coltivatore diretto”. E’ stato profetico, visto che poi sono diventato ministro dell’agricoltura.
Chi erano i suoi compagni di politica?
Difficile citare tutti, vorrei ricordare almeno Luciano Mais, Gianfranco Massari, Emanuele Chieppa.
Sono rimaste epiche a Salerno le sue trasmissioni televisive a Telesud, tra il 1979 e il 1982.
Conducevo un filo diretto con i telespettatori che si chiamava “Salerno fogna? No, grazie”. La sede della tv era a Mercatello. Nella sigla c’era un topolino che sentiva la puzza del lungomare e scappava via.
Contro l’inquinamento del mare di Salerno lei organizzò una campagna martellante…
Fondai il Centro Giuridico di Denuncia a tutela dei consumatori e grazie all’aiuto di Carlo Correra, e al supporto di personaggi come Michelangelo Russo e Claudio Tringale, costringemmo l’allora sindaco Aniello Salzano a ordinare il sequestro degli stabilimenti balneari per ottenere il rispetto del divieto di balneazione.
Già allora era un radicale verde…
Sì, ero un radicale fortemente ambientalista. D’altra parte in quegli anni iniziò una trasformazione del nostro gruppo. La nostra associazione cambiò nome e si chiamò ARE, associazione radicale ecologista, con il simbolo dell’alberello che rideva. Lasciammo radio radicale e fondammo radio verde. Nel 1984 lo sbocco naturale fu quello di partecipare a Firenze alla nascita dei Verdi e del movimento ecologista.
L’anno dopo Pecoraro Scanio lanciava alle amministrative di Salerno la “Lista civica ed ecologista”, proprio con il simbolo dell’alberello.
Mi candidai anche alle provinciali e alle regionali. Prendemmo circa il 5 per cento dei voti, un risultato eccellente. Alle regionali io ero il numero 2 e riuscii come il primo dei non eletti in Campania. Pannella, che era in lista con me, non mi perdonò mai di aver preso più voti di preferenza di lui. Fu allora che mi definì “cacicco”…
Nel 1987 nasceva a Salerno la prima giunta rosso-verde della sua storia.
Era l’8 marzo del 1987. Quel giorno nevicava a Salerno. Me lo ricordo perché pensai che solo con la neve potevamo avere la Dc all’opposizione nella nostra città. Il mio voto fu decisivo, perché era il ventiseiesimo su cinquanta. Prima che la scelta del sindaco cadesse su Vincenzo Giordano, una persona che peraltro io stimo molto , Carmelo Conte - per superare le divisioni tra Pci e Psi - propose il mio nome. All’inizio noi Verdi decidemmo di dare solo un appoggio esterno, per verificare se dalle parole si sarebbe passati ai fatti. Giordano mi affidò la delega all’ecologia, alla protezione civile, all’arredo urbano e alla difesa dei consumatori. Poi nel 1988, visto che il sindaco aveva mantenuto i suoi impegni programmatici, entra in giunta come assessore.
E rimase in giunta fino al 1990. Cosa ricorda di quell’esperienza? E che voto si da’ come amministratore?
Non mi sono mai dato voti, ma credo che il giudizio non possa che essere positivo. L’apertura del depuratore, l’avvio dell’arredo urbano del lungomare e la pedonalizzazione di Corso Vittorio Emanuele sono scelte che hanno cambiato Salerno. Ora in tanti si prendono il merito della chiusura al traffico del corso, e mi fa piacere, pero all’epoca fu una nostra battaglia e tutti mi osteggiarono.

(La Città di Salerno, 22 giugno 2003)

Scheda biografica

Alfonso Pecoraro Scanio nasce a Salerno il 13 marzo del 1959. Inizia la sua attività politica al liceo classico di Salerno con i movimenti nonviolenti e radicali. Laureatosi in giurisprudenza all’Università salernitana, nell'82 fonda un Centro Giuridico di Denuncia a tutela dei consumatori e l'Associazione di protezione civile "Vigilanza Verde". Nell'85 è uno dei primi consiglieri comunali dei Verdi nel Sud (a Salerno) e nel 1988 è assessore della prima giunta rosso-verde di Salerno. Nell'89 diventa coordinatore dei Verdi Europei e poi consigliere regionale della Campania. Negli anni 90 fonda l'Osservatorio contro la Corruzione e, a New York, nel Palazzo ONU, è tra i fondatori dell'International Council for Local Environmental Initiatives. Nel '92 è eletto consigliere comunale di Napoli e deputato. Nel 1993 crea l'osservatorio "Watchdog". Come membro della Commissione Giustizia della Camera, si impegna sui temi della legalità, delle garanzie in particolare per i detenuti, della lotta alla malavita organizzata e alla corruzione. Eletto presidente della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, è promotore delle indagini conoscitive sulle biotecnologie, sul patrimonio forestale, sulla pesca e acquacoltura e sui mangimi. E' relatore della legge sull'imprenditoria giovanile, sulla riforma dei consorzi agrari, sulla tutela dell'origine dell'olio di oliva prodotto in Italia, sulla tutela delle aree a produzione DOP. Dal 26 aprile 2000 al 13 maggio 2001 è il primo Ministro "Verde" al mondo alla guida delle Politiche agricole e forestali, nel Governo Amato, e vara la riforma dell'agricoltura italiana, conducendo le battaglie contro gli Ogm e per la sicurezza dei cittadini nell'emergenza di mucca pazza. Il 2 dicembre del 2001 è eletto presidente dei Verdi all'Assemblea Nazionale di Chianciano, con il 74% dei voti validi. Nel 2002-2003 fonda l'Osservatorio parlamentare “Qualititalia” per la tutela dell'agricoltura e dei prodotti di qualità e scrive il libro “Il Principio di Precauzione”.

Intervista a Fabrizio Failla, cronista sportivo

di Mario Avagliano

Telecronista di calcio e di pallanuoto, commentatore, inviato a bordo campo. Fabrizio Failla è ormai da qualche anno uno dei giornalisti di punta di RaiSport e più amati dagli italiani. Non a caso nel 2002 è stato chiamato a condurre la Domenica Sportiva, assieme a Massimo Caputi e a Giacomo Bulgarelli. Failla, originario di Nocera Inferiore, fa parte attualmente del team della Rai che segue la Nazionale di calcio. Dal Portogallo, dove è stato in viaggio al seguito degli azzurri di Trapattoni, parla della crisi delle squadre di calcio e lancia una proposta choc a Cavese, Nocerina e Paganese: “Le divisioni del passato non hanno più senso. Diamo vita alla squadra di Cava e dell’Agro, in modo da creare un polo alternativo al Napoli e alla Salernitana”.

Ci parli delle sue origini.
Sono nato a Firenze, nella città di mio padre Ernesto, che è neuropsichiatria, ma sono vissuto e cresciuto tra Nocera e Salerno. Il mio carattere si è forgiato nel meridione, e se sono una persona felice e sorridente, lo devo alle mie origini salernitane. Ancora oggi i miei migliori amici sono quelli della scuola media e del liceo.
Com’era la Nocera della sua adolescenza?
Era una città devastata dalla camorra. Ricordo che negli anni Ottanta, quando uscivi in piazza, dovevi capire lontano da chi dovevi sistemarti per fumare una sigaretta, in modo da non correre il rischio di essere vittima di una sparatoria. Ho visto molti miei conoscenti finire male o addirittura morire.
Era una città devastata anche dal punto di vista urbanistico?
Purtroppo sì. Nocera era brutta, involuta, con un’architettura orribile e poco rispondente alle esigenze della gente. E dopo il terremoto, la situazione peggiorò ancora. Come molte altre città del Sud, fu presa d’assalto dai gruppi di malaffare. La commistione tra camorra, appalti pubblici e politica ha prodotto parecchi mostri dalle nostre parti.
Non salva niente di quel periodo?
Il ricordo più forte per me resta quello del terremoto del 1980, e in quella occasione a Nocera, a Salerno, a Cava, toccai con mano cosa significa la solidarietà e quanto la gente del Sud sia diversa da quella del Centro-Nord per la straordinaria capacità di fare comunità e di condividere sofferenze, sacrifici, difficoltà.
Immagino che in una situazione del genere, per un ragazzo di Nocera come lei, il giornalismo e lo sport fossero visti come un’ancora di salvataggio...
Non proprio. Fare il telecronista, o comunque il giornalista sportivo, è stato sempre il mio sogno, fin da quando ero bambino ed ascoltavo con i miei amici le fantastiche radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto.
Quando ha cominciato a fare sul serio?
Prestissimo, ad appena 15 anni, a Radio Nocera Amica, nella sede di via Nuova Olivella, al confine tra Nocera e Pagani.
A proposito di Pagani, lei ha giocato con qualche successo nella Paganese calcio.
Io sono sempre stato trasversale. Ero di Nocera e giocavo nella Paganese. E qualche anno dopo, ho seguito come giornalista la Salernitana...
In che ruolo giocava?
Ero portiere, come adesso nella Nazionale dei giornalisti, dove mi capita di giocare contro i grandi campioni di cui una volta collezionavo le figurine, da Giancarlo Antognoni a Roberto Bettega.
Le sue prime radiocronache risalgono ai tempi di Radio Erta, l’Emittente RadioTelevisiva dell’Agro.
Avevo appena 17 anni ed era la stagione della Nocerina in serie B. Fu un’esperienza bellissima. Mi sentivo più grande della mia età perché il sabato partivo in trasferta, al seguito della squadra, e tornavo a casa il lunedì. Per i miei compagni del Liceo G.B. Vico ero quasi un eroe visto che conoscevo personalmente i giocatori. Anche i professori chiudevano un occhio sulle mie assenze.
Dopo la maturità, si iscrive a Giurisprudenza e nel frattempo continua ad occuparsi di sport come giornalista.
Non avevo né agganci politici né conoscenze giornalistiche, e quindi ho dovuto fatto tanta gavetta. Ho collaborato con Il Tempo, con l’Unione Sarda, con Superbasket, con radio e tv locali, fino a quando, nel 1985, sono finalmente approdato al Mattino di Salerno e a Telecolore. Tre anni dopo, nel 1988, alla vigilia delle Olimpiadi di Seul, sono stato assunto alla sede di Napoli.
Il passaggio alla Rai avviene nel 1991.
E da allora non mi sono più mosso da lì.
Quali sono le esperienze che ricorda con più emozione?
Nella pallanuoto, il titolo mondiale vinto dal Setterosa a Perth, nel 1998. Nell’atletica il record mondiale di Carl Lewis sui 100 metri, ai mondiali di Tokyo del 1991. Nello sci, la vittoria olimpica di Tomba nel 1992. Nel calcio, il ricordo più indelebile è la finale degli Europei in Olanda, compresa la coda non proprio emozionante del pestaggio ai giornalisti della Rai da parte della polizia olandese.
Qual è il collega con il quale si trova più in sintonia?
Sicuramente Carlo Paris, un giornalista eccezionale, di grande sensibilità umana e che anche professionalmente sa andare al di là dello sport. E’ uno dei pochi che in questo mondo non si fa prendere dal delirio di onnipotenza.
Oggi come oggi il telespettatore da casa è bombardato dagli eventi sportivi. Le piace come si racconta adesso lo sport?
Non sempre. A me non piace il cotto e mangiato, e spesso il prodotto che si vede in tv è proprio quello, anche a causa dei ritmi incessanti con cui si lavora. Manca uno sforzo di scavo, di inchiesta, di approfondimento.
Per chi ama lo sport, è inevitabile parlare della crisi del calcio. Come se ne esce?
O passa la linea del “tutti colpevole, nessun colpevole”, oppure il calcio chiude per debiti. Le altre soluzioni, coma quella di far partire le squadre fallite da una categoria inferiore, non mi sembrano praticabili perché magari vanno incontro alle esigenze sociali, ma non rispondono certo al codice civile.
Il decreto salva-calcio escogitato dal Governo non poteva funzionare?
No, perché era ideato solo per salvare la baracca. Era un tipo di soluzione ibrida che avrebbe coperto molte responsabilità. Lo Stato non può prevedere l’assistenza alle squadre di calcio per sempre, “a babbo-morto”. Il calcio ha bisogno di una cura forte. Bisogna sanare sul serio le società, anche a costo di passare attraverso le procedure di fallimento.
Dal suo osservatorio privilegiato, come vede lo stato di salute del Napoli, della Salernitana e delle squadre della provincia.
Gli anni belli del Napoli, della Salernitana, della Cavese e della Nocerina, che veleggiavano tra serie A e serie B, sono finiti, sono ormai alle spalle. Le squadre campane, e più in generale quelle del Sud, versano in una situazione difficile e presentano pesanti problemi economici. Non sono ottimista.
Ha qualche proposta da avanzare?
Mi piacerebbe che si costituisse una squadra di calcio di Cava e dell’Agro, che cioè Nocera, Pagani e Cava unissero le loro forze per dare vita a un polo alternativo al Napoli e alla Salernitana. Le divisioni di un tempo non hanno più senso e, anche dal punto di vista economico, una società del genere sarebbe assai competitiva. Ecco, se questo sogno si realizzasse, sarei disposto anche a dare una mano.
Torna mai a Nocera?
Un po’ meno di una volta, perché purtroppo il Napoli e la Salernitana non sono più in serie A, ma quando sono a Napoli per la pallanuoto, ne approfitto per fare una capatina a Salerno o a Nocera ed andare a trovare gli amici. Poi ho casa al mare ad Ascea Marina e trascorro lì ogni momento libero: è il mio buen retiro, non solo d’estate.
Salerno e Nocera sono cambiate rispetto agli anni Ottanta?
Eccome! Salerno è diventata una città assolutamente deliziosa. La giunta De Luca ha effettuato un restyling intelligente, strutturale, armonioso. Basta vedere i vicoli del Porto o di via dei Mercanti... Il recupero del lungomare e della parte storica, che costituisce la memoria di Salerno, è stato realizzato con gusto estetico e con eleganza.
E Nocera?
E’ cambiata in modo radicale, correggendo fin dove era possibile le brutture del recente passato. Trovo che si è sulla strada giusta anche per quanto riguarda la lotta alla criminalità. La città non è più dominata dalla camorra, e questa è una vittoria di cui tutti noi dobbiamo essere orgogliosi. Apprezzo anche il clima di integrazione razziale che si respira a Nocera come a Salerno, di gran lunga migliore rispetto alle città del Centro-Nord.
Com’è Fabrizio Failla nel privato?
Una persona estroversa, che è felice di vivere perché ha realizzato il sogno di quand’era bambino ma che non si prende mai troppo sul serio. Lo sport occupa gran parte del mio tempo, ma quando posso, ascolto musica o vado al mare. Non amo le tecnologie. Piuttosto che passare ore davanti al computer, preferisco leggermi un bel libro.
L’ultimo libro che ha letto?
L’allenatore, di John Grisham, una storia di amicizia, di amore e di football.
Allora è una fissazione!
Eh, sì. Ho la fissa dello sport, che ci posso fare...

 (La Città di Salerno, 4 aprile 2004)


Scheda biografica

Fabrizio Failla è nato a Firenze l’8 maggio del 1961, ma ha vissuto fino all’età di trent’anni a Nocera Inferiore. Laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Salerno, ha iniziato la sua carriera di giornalista ad appena 15 anni di età, nelle radio locali (Radio Nocera Amica e Radio Erta). Dopo le collaborazioni con Il Tempo, l’Unione Sarda e Superbasket, nel 1985 è entrato nella squadra di cronisti del Mattino di Salerno e di Telecolore. Nel 1988 è stato assunto da il Mattino, presso la sede centrale di Napoli, lavorando allo sport e alla cronaca nera. Nel 1991 è passato alla redazione sportiva della Rai. Da tredici anni segue gli eventi più importanti dello sport mondiale, dalle Olimpiadi ai mondiali di calcio, di sci, di pallanuoto e di atletica leggera. Nel 2002 Failla ha condotto la Domenica Sportiva con Massimo Caputi e Giacomo Bulgarelli. Attualmente è nel team dei giornalisti Rai al seguito della Nazionale italiana di calcio.

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