Intervista a Mark Iuliano, calciatore

di Mario Avagliano

Nella storia calcistica di Salerno, un posto d’onore occupa il difensore centrale Mark Iuliano, 32 anni, nato a Cosenza ma cresciuto nella città campana. Roccioso come Burgnich, determinato e preciso come Ciro Ferrara, Iuliano è esploso nelle giovanili dei granata ed è stato protagonista di due stagioni in serie B nella Salernitana, con allenatori come Delio Rossi e Franco Colomba. Acquistato dalla Juventus, ha vinto praticamente tutto, scudetti e coppe europee, collezionando un bel po’ di maglie azzurre e diventando nel 2000 vicecampione d’Europa con la Nazionale di Dino Zoff. Attualmente Mark gioca nella Liga spagnola, nella squadra del Real Maiorca. Ma Salerno è rimasta nel suo cuore. “E’ casa mia”, dice. Dalla Spagna, loda il tifo granata (“è uno spettacolo indimenticabile”) e non esclude in futuro un suo ritorno alla Salernitana, solo – però - se si sentirà “fisicamente a posto”.

Partiamo dagli inizii, a Salerno.
Io mi sono trasferito con i miei genitori a Salerno, anzi esattamente ad Eboli, all’età di 9 anni, e quindi sono cresciuto lì. Mio padre Alfredo lavorava all’Enel di Battipaglia e mia madre insegnava ad Eboli.
Come mai si chiama Mark?
Devo il mio nome alla passione di mio padre Alfredo per il nuotatore americano Mark Spitz, plurimedagliato alle Olimpiadi.
Quando si è avvicinato allo sport?
A 9-10 anni. Ho iniziato giocando a tennis e a calcio. Poi, sotto la guida di mio padre, che è anche allenatore, mi sono dedicato esclusivamente al calcio. Mio padre ha giocato come centrocampista difensivo nella seconda divisione in Belgio. E’ stato con lui che mi sono formato tecnicamente, atleticamente e anche come uomo. Nei momenti negativi, quando magari pensavo di lasciar perdere, lui mi ha incoraggiato a proseguire.
In che ruolo giocava da ragazzino?
Attaccante. Poi, crescendo, vista l’altezza e la mole fisica, mi hanno spostato in difesa, come terzino.
Ha iniziato la sua carriera di calciatore con la Salernitana?
Sì, sono nato “granata”. Infatti, a 15 anni ho fatto un provino per la Salernitana e sono stato preso nelle giovanili. Il mio primo allenatore è stato Felice Marano. Poi, a soli 17 anni, sono entrato a far parte della rosa della prima squadra.
C’erano altri talenti nelle giovanili della Salernitana?
Ricordo che assieme a me c’era Gianluca Grassadonia, che poi ha giocato anche nel Cagliari: un ragazzo assai simpatico e un ottimo giocatore.
Intanto andava a scuola...
Ho frequentato il Liceo Scientifico. Ero bravo, mi piacevano le materie umanistiche. Poi ho smesso, per seguire la strada del pallone. In seguito ho preso il diploma magistrale.
Come mai il diploma magistrale?
Se non avessi fatto il calciatore, avrei voluto fare il maestro elementare, per aiutare i ragazzini a entrare nel mondo degli adulti.
Con la Salernitana ha giocato due campionati in serie B, dal 1994 al 1996.
Due campionati bellissimi, con due grandi allenatori come Delio Rossi e Franco Colomba. Ricordo che giocavamo un calcio-champagne e sfiorammo la serie A. Era un gruppo di giocatori favolosi e c’era molto entusiasmo e sintonia in spogliatoio.
Con chi andava più d’accordo, con Delio Rossi o con Franco Colomba?
Sono due allenatori entrambi bravi e preparati, ma ho avuto un rapporto più stretto con Colomba, perché a lui piaceva avere un confronto quotidiano con le problematiche personali dei giocatori. Delio Rossi era più attento alla tattica e agli schemi di gioco.
Qual è stato il suo rapporto con il pubblico salernitano?
Eccezionale! Il pubblico salernitano è tra i più caloroso d’Italia. Tutti lo sanno. Quando ero alla Juventus, spesso mi chiedevano notizie della curva granata. Io personalmente conoscevo alcuni dei capi tifosi. Facevano un tifo incredibile, ci seguivano dappertutto. Nei momenti difficili, c’erano sempre.
Nel 1996 si è trasferito a Torino, nella Juventus.
Ho coronato il mio sogno da bambino. Sono stato sempre un tifoso bianconero, nonostante i miei fratelli tifassero Inter e Milan. Sapevo che sarebbe stata una grande avventura, e non mi sono mai pentito di quella scelta.
Come ha vissuto il distacco da Salerno?
Avevo ventidue anni e all’inizio ero un po' smarrito, perché mi mancava la mia famiglia e perché per la prima volta mi allontanavo dal paradiso di casa mia, la mia città, Salerno, il mare e tutto il resto.
Il primo anno, fu subito scudetto...
Sì, passai dalla serie B alla partecipazione alla Champions League e allo scudetto. E' stato straordinario, la ricordo ancora quella serata a Bergamo contro l'Atalanta. Finì 1-1 grazie al mio gol al 53' e fu scudetto, il primo per me.
Il primo di una lunga serie di trofei. Qual è quello a cui è più legato?
Tutti, tutti... Se proprio devo citarne uno, direi lo scudetto vinto all’ultima giornata di campionato nel 2001, che fu veramente inatteso. Il mio unico rammarico è stato quello di non aver mai vinto la Champions League. Abbiamo perso tre finali e sono state tre serate veramente amare!
Un allenatore a cui sente di dovere qualcosa?
A parte mio padre, direi Tarcisio Burgnich. Fu lui a intuire che il mio ruolo ideale era quello di centrale, e non di terzino, e a spostarmi al centro della difesa.
E l’allenatore che ha stimato di più?
Ne citerei due: Carlo Ancelotti e Dino Zoff, entrambi persone eccezionali, anche dal punto di vista umano. Con Zoff ho vissuto l’esperienza più bella in Nazionale: gli Europei del 2000, con la finale persa con la Francia. Meritavamo di vincere... Mi dispiacque molto quando fu costretto ad andar via per le note polemiche con Berlusconi.
Come mai ad un certo punto è uscito dal giro della Nazionale?
E’ stata una decisione mia. Dopo i mondiali in Giappone e Corea, ho mollato. Ero molto deluso. Non avevo più stimoli, e quindi ho detto basta.
Nel gennaio scorso si è trasferito al Real Maiorca, squadra della Liga spagnola. La cercava anche il Milan. Come mai ha maturato la scelta di andare all’estero?
Era tempo che avevo voglia di cambiare aria e vita. Sapendo che c’era un allenatore che mi conosceva bene, e cioè Hector Cuper, quando è arrivata l’offerta non ci ho pensato su due volte. Devo dire che è un posto splendido. E poi in Spagna il calcio si vive in modo tranquillo, non stressante come in Italia. Non ci sono scontri tra gli spettatori. Non ci sono trasmissioni televisive che aizzano i tifosi. Gli spagnoli si recano allo stadio con le famiglie...
E il Milan?
Lì c’è Ancelotti, che mi stima molto. Però per me era difficile passare a un club rivale della Juventus.
La sua esperienza in Spagna non è iniziata tanto bene.
E’ vero. La prima partita, contro il Real Madrid di Ronaldo, sono stato espulso. E pensare che stavamo giocando bene, eravamo sull’1 a 1...
So che anche ha polemizzato con gli arbitri spagnoli.
L’arbitraggio in Spagna è assai diverso dall’Italia. Alcuni arbitri spagnoli sono davvero vergognosi, non hanno preparazione fisica e quindi non seguono bene l’azione.
Come siete messi in campionato?
Navighiamo nelle zone basse, ma sono convinto che ci salveremo. Nelle ultime giornate stiamo andando forte. Ho pure segnato un goal!
Che cosa fa Mark Iuliano nel tempo libero?
Mi dedico alla famiglia. Sto con mia moglie Federica Villani (ex letterina di Passaparola, ndr.) e con mio figlio Niccolò, che ha nove mesi. Amo anche ascoltare musica, in particolare i Red Hot Chili Peppers. Quando capita, mi piace giocare a golf e adoro i libri di Stephen King.
Progetti per il futuro?
Vorrei restare qui almeno un altro anno. Poi, chissà, un giorno potrei tornare nella Salernitana...
Davvero?
Sì, ma solo se mi sentissi fisicamente a posto. Credo di aver lasciato un bel ricordo e non voglio rovinarlo.
Si sente legato alla sua città?
Salerno è casa mia, l’ho sempre nel cuore. So che la gente mi vuole bene e in futuro voglio venirci più spesso.
Può già dare un primo appuntamento ai tifosi granata?
Sarò in Italia il 9 giugno, per la partita di addio di Ciro Ferrara. In quell’occasione, vorrei passare almeno due giorni a Salerno, e rivedere la mia famiglia e i vecchi amici di un tempo...

(La Città di Salerno, 15 maggio 2005)

Scheda biografica

Mark Iuliano è nato il 12 agosto 1973 a Cosenza, in Calabria. Ha trascorso la sua infanzia a Eboli, in provincia di Salerno, dove si trasferì all’età di 9 anni con la famiglia. Difensore centrale ambidestro, alto 1.87 cm, peso forma 83 kg, è cresciuto nelle giovanili della Salernitana ed ha iniziato la carriera di calciatore a livello professionale nella squadra granata, ad appena 17 anni. Dopo due anni nelle fila della Salernitana, ha trascorso la stagione 1992/93 al Bologna e l'anno seguente al Monza. Rientrato alla Salernitana, ha giocato con i granata in serie B per due stagioni, dal 1994 al 1996. Approdato alla Juventus nel 1996, con la maglia bianconera ha vinto quattro scudetti (1996-97, 1997-98, 2001-02, 2002-03), tre Supercoppe italiane (1997, 2002, 2003), una Supercoppa europea (1996), una Coppa intercontinentale (1996). Ha debuttato in nazionale il 5 settembre del 1998 (Galles-Italia 0-2), collezionando 18 presenze. Nel gennaio del 2005 si è trasferito in Spagna, nella squadra del Real Maiorca allenata da Hector Cuper, ex mister dell’Inter.

Intervista a Ferdinando D'Arezzo, autore televisivo

di Mario Avagliano

La scorsa settimana il suo ultimo documentario, “Schutz Staffeln. La storia delle SS”, andato in onda su Rai Tre per il programma “La Grande Storia”, ha avuto uno share dell’11%. Un indice di ascolto eccezionale per un programma di storia. Ferdinando D’Arezzo, salernitano di 46 anni, è uno degli autori televisivi più interessanti della Rai. Figlio del ministro Bernardo D’Arezzo, che nel secondo dopoguerra è stato una figura di spicco della politica salernitana e nazionale, ha realizzato vari reportage sulle operazioni di peace-keeping e collabora anche con Gianni Minoli, per il programma “La Storia siamo noi”.

S’immagini dietro a una cinepresa. Com’era la Salerno della sua fanciullezza, negli anni Settanta?
Nella mia memoria visiva ritornano spesso i fotogrammi di Via dei Mercanti e del Mercato della Rotonda. Insomma, la Salerno vecchia, con le sue suggestioni architettoniche ma anche con il suo degrado. E poi, certo, il lungomare. Io abitavo a Sala Abbagnano, che all’epoca era aperta campagna, e vivevo a contatto con la natura. Ricordo che rimasi molto colpito dallo sbancamento dell’area della Sanginella, dove si coltivava la famosa uva “sanginella”, e dalla creazione di quell’orribile agglomerato urbano del Q2.
Che ha significato per lei essere figlio di Bernardo D’Arezzo?
Mi ha condizionato tantissimo, nel bene e nel male. Essere figlio di un potente politico democristiano portava certamente dei vantaggi, ma era anche un fattore negativo, discriminante, nelle frequentazioni umane e sociali.
Parliamo del Bernardo D’Arezzo politico.
Mio padre veniva da una famiglia di origini umili, dell’entroterra dell’agro nocerino-sarnese. Prese la laurea pagandosi da solo gli studi, con il proprio lavoro. Gli inizi della sua carriera politica sono di carattere sindacale. Si occupava delle rivendicazioni dei braccianti, che raccoglievano i pomodori nella campagne tra Nocera e Sarno. Aveva una formazione di base molto solida. Padroneggiava la storia della Repubblica a menadito, anche perché aveva conosciuto persone e fatti in maniera diretta. E soprattutto possedeva un’innata e straordinaria capacità di comunicare. La sua forte personalità mi ha segnato enormemente. Se oggi mi occupo di storia, è perché lui mi ha fatto capire l’importanza della memoria per poter guardare avanti.
Com’erano i vostri rapporti?
I suoi incarichi politici lo tenevano lontano da Salerno. Passava a Roma cinque giorni su sette. E quando tornava, doveva curare il collegio. Da bambino ho sofferto per la sua mancanza. Quando era a casa, però, era affettuoso con noi figli. Era cattolico e tradizionalista, e quindi era molto legato alla famiglia. Purtroppo l’ho perso abbastanza presto, nel 1985.
Com’era nel privato Bernardo D’Arezzo?
La sua passione era la pesca. Era un vero e proprio professionista. D’estate era capace di passare tutta la notte a pescare, gettando chilometri di reti di profondità nel golfo di Salerno, a Ogliastro Marina. In autunno andavamo in costiera a caccia di “lacerti”, tra Vietri e Cetara. E ogni volta che tornavamo al porto di Salerno, immancabilmente ci raccontava la storia dello speronamento dell’Andrea Doria, nei più piccoli dettagli. Per ironia della sorte, quando sono approdato in Rai, il primo lavoro che mi hanno assegnato è stato un documentario sull’Andrea Doria. Io non è che sapevo tutto su quella vicenda, sapevo “tuttissimo”! Mi ricordo che Minoli mi chiese come mai. Gli spiegai che mio padre mi faceva “’na capa tanto”...
Tra i suoi compagni di scuola ci sono stati due salernitani illustri, Alfonso Pecoraro Scanio e Lorenzo Gigliotti.
Alfonso Pecoraro Scanio l’ho conosciuto alle scuole elementari e ho anche frequentato casa sua. Era un ragazzino perbene, già all’epoca dotato di un certo piglio, di una sua personalità. Il padre era un famoso avvocato penalista di Salerno. Lorenzo Gigliotti, oltre ad essere mio compagno di scuola dalle elementari fino al Liceo Da Procida, è un eccellente autore televisivo ed è mio amico da sempre.
Che cosa ricorda degli anni del Liceo?
Ho un ricordo meraviglioso della professoressa Cardinale, di Scienze e Chimica. E’ stata l’insegnante più importante della mia vita. Avevo 15 anni e cambiò il mio modo di pensare. Aveva la capacità di farti innamorare dello studio. Mi fece comprendere che imparare serviva prima di tutto a me, non a prendere bei voti in pagella.
Nel 1975, a 17 anni, lei si trasferisce a Roma.
Salerno era diventata abbastanza stretta per me, e poi i miei ormai abitavano tutti a Roma. Affrontai il trasferimento con felicità. E’ vero che Roma è una città allo stesso tempo provinciale e internazionale, ma è anche una città dove c’è il Papa; dove risiede il potere politico; dove gravitano tante persone del mondo della cultura, del cinema, dell’arte.
E’ vero che dopo l’esame di maturità la sua aspirazione era diventare grafico?
Esatto. Avevo una grande attrazione per l’arte pittorica ma anche per la grafica e il design. Frequentai la Scuola di Arti Sceniche Alessandro Fersen, dove ebbi un’infarinatura di dizione, recitazione e regia teatrale. Intanto non mi perdevo una mostra e una galleria d’arte, a Roma, a New York, a Milano. Ho visitato decine di volte i Musei Vaticani e la Galleria d’arte moderna di Roma. Nel periodo che ho vissuto a Milano, andavo ogni giorno a mirare la S. Maria delle Grazie di Leonardo. Grazie alle amicizie di mio padre, ho incontrato e ho avuto modo di parlare a lungo con artisti del livello di Guttuso e di De Chirico.
Com’è approdato al documentario televisivo?
Nel 1981, nel corso di una festa romana, feci la conoscenza dello sceneggiatore Enzo Ungari, stretto collaboratore di Bernardo Bertolucci. Presto diventammo amici e una sera, discutendo di arte, mi dilungai con lui su un problema che affrontavo in quel momento, cioè come rappresentare i volumi in uno spazio visivo. Enzo mi disse che quando scriveva cinema, si trovava di fronte agli stessi quesiti: come trasporre la scena nel fotogramma della macchina da presa. Per me fu una rivelazione. Frequentai un corso di documentarista e di cinematografia elementare al Centro Sperimentale di Roma, poi mi procurai una collaborazione con l’Istituto Luce e così cominciò la mia carriera.
Ha avuto un maestro, qualcuno che le ha illuminato la via?
L’incontro con Nicola Caracciolo, nel 1991, ha rappresentato per me una vera e propria svolta. Caracciolo è forse il più importante documentarista italiano ed è stato il primo ad utilizzare il repertorio dell’Istituto Luce per raccontare la memoria del nostro Paese, e più in particolare il periodo di Mussolini e del fascismo. Avendo lavorato a lungo con il Luce, io conoscevo la ricchezza dei suoi archivi. Mi è venuta l’idea di allargare il campo ad altri periodi storici e così sono nate le collaborazioni con il programma La Grande Storia su Rai Tre e con La Storia siamo noi di Minoli.
Molti dei suoi lavori sono dedicati al nazismo. Come mai?
E’ un periodo storico che m’interessa moltissimo. Il nazionalsocialismo incarnava il male ma in un certo senso anche il bene, o per meglio dire la modernità, il tentativo di strutturare una società produttiva. Tra l’altro la storia dell’ascesa al potere di Hitler mi ha dato modo di capire meglio anche il fenomeno Bossi. Anche Hitler agli inizi era un politico minore, rumoroso, aggressivo... E a differenza di certi stereotipi, non era un mostro, ma era un uomo. Questo rende la sua presa del potere ancora più terrificante.
Lei ha girato anche molti documentari nei teatri di guerra. Ha mai rischiato la vita?
Mi hanno sparato addosso due volte. Nello Sri Lanka, mentre ci trasferivamo in elicottero al seguito di alcuni militari cingalesi. E in Afghanistan, all’epoca dell’invasione sovietica. Mentre viaggiavo in jeep verso Kabul, una fazione scissionista di ribelli fece esplodere un colpo di mortaio per impedirci il passaggio.
A che cosa sta lavorando in questo periodo?
Ho appena terminato, in qualità di autore e di regista, il documentario “Burqua. Donne di Kabul”, sulla condizione e le speranze delle donne afgane dopo la fine del regime talebano, per il programma “Un Mondo a Colori”. Ho iniziato da poco la ricerca documentale e la stesura dei testi per la realizzazione di tre documentari per il programma “La Storia siamo noi”, inseriti nel contenitore “Rai Educational”: “Mahatma. La grande anima dell’India”, sulla vita di Mohandas K. Ghandi; “Leggere, scrivere e far di conto”, sul processo di alfabetizzazione in Italia dal dopoguerra ad oggi; e “Tifosi e tifoserie”, una indagine giornalistica sul mondo del calcio e dei tifosi non appartenenti a gruppi di ultras.
Torna mai a Salerno?
Appena posso. Mi manca molto il mare. Per me le città si dividono in due categorie: quelle che hanno il mare e quelle che non c’è l’hanno. A Roma purtroppo il mare non c’è. Ho davvero apprezzato il recupero urbanistico e strutturale del centro storico. Il famoso urbanista giapponese Kenzo Tange, che negli anni Cinquanta ha vissuto in costiera, diceva che era unico al mondo...
Ha mai pensato di girare un documentario su Salerno?
Eccome! Ho in mente due soggetti: la svolta di Salerno del 1943 e la storia della Salerno-Reggio Calabria. Per quanto riguarda il primo tema, mi piacerebbe approfondire quel periodo storico dall’osservatorio di Salerno, non da quello di Roma, come si è fatto sempre in passato. Sarebbe curioso e interessante andare a trovare testimoni e protagonisti salernitani. Quanto alla Salerno-Reggio Calabria, questa grande arteria – al pari dell’Autosole – contribuì davvero ad unire l’Italia, collegando il Mezzogiorno al Settentrione. La storia - anche politica - di come si arrivò a scegliere l’attuale tracciato, della costruzione dell’autostrada, degli uomini che la realizzarono, è senza dubbio di grande fascino.

 (La Città di Salerno, 6 febbraio 2005)

Scheda biografica

Ferdinando D’Arezzo nasce a Salerno il 6 febbraio del 1959. Si trasferisce a Roma all’età di 17 anni. Nel 1979 si diploma in direzione allo Studio di Arti Sceniche di Alessandro Fersen. Inizia la sua attività di autore di documentari nel 1985, producendo sei documentari per l’Istituto Luce sulle Accademie Musicali Italiane. Nel 1986 produce e realizza tre documentari sul continente Indiano per il programma televisivo “Arcobaleno”, in onda su Rai Due. Due anni dopo, nel 1987, realizza uno speciale per il Tg 2 sul mercato di organi umani e i paesi occidentali. Nel 1988 produce il film “Re Macchia”, realizzato con il contributo del Ministero dello Spettacolo e diretto da Bruno Modugno. Nel 1990 collabora con i Beni Culturali per la realizzazione di una serie di documentari sui siti archeologici nel Mediterraneo con sovrintendenza italiana. Nel 1991-1992 produce e realizza una serie di dodici documentari etnografici dal titolo “Gli Argonauti”, sulle etnie a rischio di estinzione, andata in onda su TMC e distribuita, per il mercato home-video, dalla RCS Video. Nel 1993 collabora con l’Istituto Luce alla realizzazione di una serie di documentari sulle “Celebrazioni Colombiane”. Nel 1997-1998  realizza in qualità di regista programmista il documentario “Andrea Doria”, in onda su Rai Tre per la regia di Giuseppe Giannini. Nel 1998–1999 collabora in qualità di regista programmista al programma giornalistico “Porte Chiuse” condotto da Andrea Purgatori per Rai Tre. Nel 1999 comincia la sua collaborazione con il programma “La Grande Storia” di Rai Tre, per il quale realizza in qualità di autore e regista “Hitler Amore e Morte” (1999), “Tutti al Mare” (2000), “Festival” (2001), “La piu’ bella sei tu” (2002), “Frau Junge. La segretaria di Hitler” (2003), “Schutz Staffeln. La storia delle SS” (2004).  Tra gli altri documentari da lui realizzati, vanno citati “Tecniche di pace” (2002), reportage sul contingente di pace italiano in Kossovo;  “Kabul Campo 57” (2003), reportage sul contingente di pace italiano in Afghanistan; e “ONG” (2003), sull’attività in Afghanistan delle organizzazioni non governative.

Intervista ad Onofrio Pepe, scultore

di Mario Avagliano

Nella storia contemporanea della scultura italiana occupa un posto di rilievo anche un artista di Nocera Inferiore. Onofrio Pepe, classe 1945, vive e opera a Firenze dal 1968 ed è uno scultore in cui convivono passato e presente, storia rinascimentale e ricerca contemporanea. Il critico Marco Fagioli ha scritto di lui che “è come uno scultore antico intento a fare delle metope per una cella di un tempio”, mentre Francesco Guerrieri ha descritto la sua opera come “un racconto scultoreo di raffinato e irresistibile erotismo” A marzo una delle sue opere più famose, la “Porta del Mito”, alta 4 metri, tutta in bronzo, avrà l’onore di essere esposta in una delle location più belle del mondo, Piazzale degli Uffizi. Pepe ha tra i suoi estimatori il principe Carlo d’Inghilterra e il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, al quale la Regione Toscana ha regalato di recente una sua scultura, “Il Ratto d’Europa”. Ma a sessant’anni di età Pepe sente forte il richiamo delle origini e sogna una sua mostra a Nocera o al Complesso di S. Sofia a Salerno. E dal suo studio in San Frediano promette: “Se si riuscirà a organizzare una mia esposizione, donerò al Comune una delle mie opere".

Maestro, so che le sue origini sono proletarie.
E’ vero. Io vengo da una famiglia umile, di proletari. Mio padre Aniello lavorava al Mulino. E anche la Nocera della mia infanzia e adolescenza era rustica e semplice. Era un paese agricolo, con un’industria legata al settore alimentare: i pastifici e le fabbriche di pomodoro. Oggi non è più così. I comportamenti sono omologati. Si può parlare di Nocera come di Rovigo o di Caltanissetta.
In quel contesto, come è nata la sua passione per l’arte?
Ho avuto la fortuna di aver fatto il liceo classico in un collegio religioso di Portici. Quegli studi mi hanno segnato per tutta la vita, in quanto persona e in quanto artista. E’ lì mi sono innamorato dell’arte greca e del concetto di bello. Anche se non è stato facile trovare la mia strada.
La sua famiglia non c’entra niente con la sua scelta di artista?
Un mio zio era pittore alla fine dell’Ottocento e pare che alcuni suoi affreschi siano ancora conservati nella Chiesa di San Francesco. Quanto ai miei genitori, volevano che prendessi i voti e diventassi sacerdote. I miei amici non mi capivano e preferivano parlare di calcio piuttosto che di classicità. Nocera poi non offriva stimoli. C’era soltanto un cinema, non si organizzavano concerti né tanto meno mostre. Insomma, non avevo la possibilità di esprimermi. Dopo la maturità, a 21 anni, per disperazione, m’iscrissi all’Istituto d’arte a Salerno.
In che materia si diplomò?
In ceramica, dopo un corso di specializzazione di 3 anni. All’Istituto d’arte trovai un bell’ambiente. Ricordo ancora la vicepreside, la professoressa Schettini, che insegnava storia dell’arte. Io non studiavo sui libri di testo ma seguivo un percorso di approfondimento tutto mio. Lei mi apprezzava molto e spesso m’invitava alla cattedra a tenere la lezione al posto suo. Quegli anni sono stati interessanti. A Salerno c’erano più stimoli che a Nocera. Ero incantato dal Duomo. E poi spesso andavo a Cava oppure in costiera, nella mia amata Ravello.
A 23 anni, dopo il servizio militare, lei di punto in bianco si trasferì a Firenze. Come mai?
Desideravo allontanarmi da Nocera, una città che allora trovavo non dico ostile ma vuota. Per un classicista come me, l’incontro con Firenze era scritto nel destino. Certo, l’impatto non è stato facile. Come tutte le città aristocratiche, con un passato così forte, Firenze per certi aspetti è molto chiusa. Ti da’ la possibilità di vivere più o meno dignitosamente, però se non hai quel qualcosa in più, non riesci ad inserirti nel tessuto culturale della città. E quindi ho dovuto fare una bella gavetta per essere riconosciuto come un artista di rango. Prima di vivere di arte, ho lavorato per anni come educatore in un istituto di handicappati. Devo la mia particolare sensibilità anche a questa esperienza.
Attualmente è uno degli artisti più rappresentativi di Firenze e dell’intera regione Toscana.
Ho realizzato mostre negli Stati Uniti, in Austria, in Francia. Le mie opere sono esposte al Museo di Arezzo, al Consiglio Regionale della Toscana, al Santuario francescano di La Verna, presso la sede centrale della Cassa di Risparmio di Firenze. Hanno acquistato mie sculture anche collezionisti francesi e americani.
Perché ha scelto proprio la scultura invece che la pittura o la ceramica?
Forse perché sono portato per la manualità. Io ho bisogno di concretezza e la scultura è materia, è volume. La pittura invece è un fatto più intellettualistico.
Quali tecniche adopera?
Sono un plastificatore, ovvero utilizzo molto la tecnica dell’argilla, che è esattamente agli antipodi dello stile di Michelangelo, che era il maestro dell’arte del levare. Con l’argilla la forma nasce dall’arte di aggiungere la materia. Trovo di grande fascino anche lavorare con il metallo fuso, in fonderia, e la tecnica antica della cerapesca, che era prediletta dal grande Cellini.
Chi è il suo modello di scultore?
Amo tutta l’arte greca del IV e V secolo avanti Cristo. Tra i contemporanei, l’artista che in assoluto ammiro di più è Arturo Martini Era un grande sperimentatore, che non si fossilizzava mai su una sola rappresentazione. Certa critica lo accusava di non avere uno stile ma di averne tanti. Io mi considero un po’ “figlio” suo, come ha scritto qualche storico d’arte. Non a caso quando nel 2002 il principe Carlo d’Inghilterra ha visto la mia mostra sul Mito d’Europa, all’Università europea di Fiesole, mi ha detto di essere meravigliato e affascinato dal fatto che 25 sculture sullo stesso tema fossero così diverse l’una dall’altra. Mi ha anche scritto una lettera, auspicando l’organizzazione di una mia mostra a Londra.
E oltre a Martini?
Altri due scultori che mi piacciono molto sono Giacometti, per la rappresentazione che da’ dell’uomo, e Moore, per la cura del volume e i giochi del chiaroscuro. Non apprezzo invece gli artisti tipo Botero, che hanno trovato una formula vincente e la ripropongono all’infinito.
Nelle sue opere il mito della classicità si unisce a forme di sperimentazioni attuali.
Tutta la mia scultura ha come oggetto la ricerca sul mito. Oggi è di moda parlare di mito, ma senza false modestie in questo io sono stato un precursore. La mia prima ricerca sul mito risale a 30 anni fa.
Nel 2001 il Consiglio Regionale della Toscana ha consegnato una sua opera al console americano Mc Ilhenny come dono alla città di New York per ricordare le vittime dell'attentato alle Torri gemelle, come avvenne per la Statua della Libertà.
E’ una scultura che raffigura la 'Donna con la colomba', ad altezza naturale. Ho saputo che verrà collocata nella caserma dei pompieri di New York, che in quella tragica vicenda hanno rappresentato gli eroi in cui tutti quanti ci siamo riconosciuti. Sono orgoglioso di questo.
A marzo una sua opera sarà esposta nella piazza più celebre di Firenze...
Sì, nel Piazzale degli Uffizi. Si tratta della “Porta del Mito”, una scultura di 4 metri, in bronzo, che ha 48 pannelli. La struttura originale, in terracotta e in legno, è stata acquistata dalla Cassa di Risparmio di Firenze che l’ha locata nella sua Biblioteca.
Se dovesse scegliere un aggettivo per definire il suo essere artista?
Sceglierei “sincero”. A me non interessa fare quattrini, bensì l’arte, la ricerca. Come diceva Apollinaire “tra tutte le azioni dell’uomo, l’arte è quella che mente di meno”.
A che cosa sta lavorando in questo periodo?
Sto lavorando a un trittico dedicato al mito di Demetra e Persefone, che sarà esposto nel Museo Archeologico di Fiesole.
Quando ci siamo sentiti la prima volta, lei mi ha detto che è arrivato il momento di fare qualcosa nella sua terra...
La Campania è una realtà che ho rimosso, e che adesso cerco. Mi piacerebbe smentire l’antico detto “nemo propheta in patria” e allestire una grande mostra delle mie opere a Nocera o a Salerno, le due città dove sono cresciuto. L’anno scorso ho conosciuto a Firenze il Presidente della Camera di Commercio di Salerno Augusto Strianese, che mi ha parlato del Complesso di Santa Sofia e delle splendide esposizioni organizzate dall’Amministrazione Comunale. Se sono rose, fioriranno. Io ho dato la mia disponibilità, e sono pronto anche a donare una mia opera al Comune e a mettere la mia esperienza a disposizione di chi vorrà.
Dopo tanti anni passati a Firenze, che cosa è rimasto in lei delle sue origini salernitane?
Tantissimo. Guarda caso Nocera e Salerno si trovano tra Paestum e Pompei, e io sono profondamente segnato dalle mie origini mediterranee.
E’ tornato di recente a Nocera o a Salerno?
Due anni fa sono passato di sfuggita a Nocera. Ho visto dei cambiamenti, in particolare mi è sembrata più pulita. Quando posso, vado a Ravello. E’ il mio luogo ideale per la sua atmosfera speciale, fatta di arte, di poesia, di silenzio. Se si organizzerà la mostra, sarà l’occasione per riscoprire la mia terra. Mi piacerebbe conoscere i giovani artisti, vedere come si vive oggi a Nocera e a Salerno, incontrare la mia gente...

(La Città di Salerno, 23 gennaio 2005)

Scheda biografica

Onofrio Pepe è nato a Nocera Inferiore (SA) il 12 febbraio del 1945. Da molti anni vive e opera a Firenze. Ha realizzato importanti mostre personali in Italia e all’estero (Stati Uniti, Austria, Francia) e le sue sculture monumentali sono collocate in prestigiosi spazi pubblici. Nel 1996 il Comune di Nocera Inferiore, per riconoscimenti artistici, lo ha premiato con la Noce d'Oro. Nel 1998 la Regione Toscana gli ha commissionato il Pegaso d’Oro assegnato a Jerzy Grotowski. Nel 2000 il Comune di Firenze ha promosso a Palazzo Vivarelli Colonna una mostra di sue sculture, intitolata Il volo di Icaro. Nel 2002 l’Istituto Universitario europeo ha organizzato una sua mostra personale intitolata “Il Mito d’Europa”, inaugurata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La mostra è stata visitata dal Presidente della Repubblica del Portogallo e dal Principe Carlo d’Inghilterra. Nello stesso anno (2002) Pepe è stato designato Honorary Fellow of Florence's "Design Academy". Nel 2003 l’Istituto Universitario europeo ha acquistato l’originale della porta monumentale "La Porta del Mito". All’inaugurazione hanno partecipato il Ministro della Cultura italiano Giuliano Urbani e i Ministri della Cultura degli altri Paesi dell’Unione europea.

Intervista a Franco Fichera, giurista

di Mario Avagliano

Nella prima metà degli anni Settanta, quando all’Università di Salerno e nel mondo culturale della città brillava l’astro di Filiberto Menna, per un’intensa ma breve stagione il Pci raccolse il fior fiore degli intellettuali salernitani. Il segretario del partito comunista era allora un fine intellettuale di estrazione borghese, il professor Franco Fichera, classe 1941. Sotto la sua guida si formò la generazione dei Michele Santoro e dei Vincenzo De Luca. La carriera del politico-professore si concluse nel momento del massimo successo del Pci. Nel 1976, dopo la clamorosa avanzata del partito comunista alle elezioni politiche, Franco Fichera fu costretto a lasciare il suo incarico, in seguito ad un violento scontro con il vecchio leader regionale Abdon Alinovi. Fichera, dopo aver insegnato diritto tributario presso le Università di Napoli Federico II e di Bologna, ora vive nella capitale ed è preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Suor Orsola di Benincasa di Napoli.

Professore, lei è cresciuto a Torrione.
Abitavamo in uno dei primi palazzi costruiti a Torrione nel dopoguerra, accanto al Forte la Carnale. Mio padre Sebastiano era funzionario dell’Inps e mia madre Eva insegnava in una scuola elementare di Molina di Vietri. Allora quella zona di Salerno era tutta campagna. Ricordo che giocavo per strada con lo strummolo e che passavamo quattro mesi dell’anno a mare. Almeno fino all’alluvione del 1954.
Che cosa accadde dopo l’alluvione?
Quella terribile tragedia convinse i miei genitori a cambiare casa. Ci trasferimmo al Carmine, in una strada non lontana dal Liceo Classico “Tasso”.
Anche lei è un ex alunno del Tasso...
Frequentavo la sezione “C”. I professori erano molto preparati ma anche assai severi. Ricordo in particolare il docente di italiano Petruzzelli e quello di matematica Fimiani. All’esame di maturità, passammo soltanto in tre!
Altri tempi. Anche se Salerno non era più la città borghese del Primo Novecento.
E’ vero. Salerno stava cambiando pelle, nonostante la grande influenza esercitata dall’Arcivescovo Demetrio Moscato. Si diceva che in città non si muovesse foglia senza il suo assenso e che era stato lui a vietare i locali da ballo. Ma anche per Moscati era impossibile opporsi alla modernizzazione dei costumi e della società. “Colpa” del miracolo economico, della motorizzazione di massa, attraverso le mitiche cinquecento, e anche dei libri e delle pellicole che arrivavano d’oltre oceano. Una nuova generazione si affacciava alla ribalta. Ricordo che nel 1956 la prima di un film di Elvis Presley al cinema Augusteo si trasformò in un’occasione di rivolta generazionale. Ora fa sorridere, ma in quegli anni il rock ‘n roll era considerato osceno e trasgressivo. Assistetti anche io allo spettacolo e quando tornai a casa, un po’ tardi, ne sentii di rimproveri dai miei!
Era in incubazione il Sessantotto.
In effetti la mia generazione è quella che ancor prima del ’68 entrò in conflitto con i genitori. Anche la mia adesione al Pci, avvenuta nel 1960, in seguito alla rivolta dei “giovani con le magliette a strisce” contro il Governo Tambroni, fu molto sofferta e fu motivo di duro scontro a casa. Io venivo da una famiglia piccolo-borghese e nel mio ambiente non era facile immaginare che andassi con i comunisti.
Com’era il partito comunista salernitano nel 1960?
Era un partito molto isolato nella città e di limitata forza elettorale. Aveva perso il rapporto con le nuove generazioni. Contava su una base operaia e su un po’ di contadini, e poi basta. Io mi buttai in quell’esperienza con grande entusiasmo e in breve fui chiamato prima a dirigere l’organizzazione dei contadini e poi quella degli universitari. Allora nel Pci c’erano pochi giovani, tra cui Mario Sicignano, figlio del deputato della Costituente, ora notaio a Torino. L’ondata forte di adesioni giovanili al partito si registrò solo intorno al Sessantotto.
In quegli anni aderì al Pci anche un certo Michele Santoro.
Era il 1971-1972 ed io guidavo la sezione universitaria. Michele si rivolse a me per iscriversi al partito. Come altri giovani, lui veniva da esperienze in formazioni di sinistra extraparlamentare. Era già allora una forte personalità, dotata di una spiccata sensibilità per il mondo della cultura e dell’informazione. Diventammo subito grandi amici. Un’amicizia che ha resistito negli anni e che ancora adesso è viva.
Nel 1974 lei divenne segretario del Pci.
Sì, nel 1973 sono diventato vicesegretario e tra il 1974 e il 1976 sono stato segretario della federazione. Sono stati quattro anni di grandi trasformazioni di Salerno e della società salernitana. Gli anni del referendum sul divorzio e sull’aborto. Gli anni di Filiberto Menna e di tutta quell’area di intellettuali e di docenti universitari, come Angelo Trimarco, Rino Mele, Giuseppe Bartolucci, Achille Bonito Oliva, Marcello Rumma, Paola Fimiani, Edoardo Sanguineti, Alfonso Gatto, la maggior parte dei quali simpatizzava per il Pci, e che fece di Salerno uno dei principali centri dei movimenti dell’avanguardia teatrale, musicale e letteraria italiana.
L’adesione di Filiberto Menna al Pci fece scalpore.
Beh, era un intellettuale brillante, di grande cultura, che aveva legami con il mondo accademico nazionale e internazionale, e poi era il figlio di Alfonso Menna, lo storico sindaco democristiano di Salerno... Si può immaginare quale trambusto accompagnò la sua scelta. Era il simbolo di un cambio profondo che avveniva nella città. La classe intellettuale salernitana andava a dirigere il maggior partito della sinistra. Grazie alla fusione tra il mondo intellettuale e le nuove generazioni, in pochi anni il Pci passò dal 13% al 24-25% dei voti.
Nel 1976, però, il sogno di un governo di sinistra della città si spezzò. E improvvisamente lei lasciò la carriera politica.
I leader storici del Pci salernitano non avevano capito che il mondo era cambiato e che la grande vittoria elettorale delle elezioni politiche era la chiave per trasformare finalmente la vecchia struttura del partito. Aprirsi alla società civile e agli intellettuali significava necessariamente individuare una nuova classe dirigente e mutare il modus operandi del partito. Ebbi uno scontro violento con Abdon Alinovi, ma il corpo del Pci non mi appoggiò. Tra i pochi che mi sostennero, ci furono Michele Santoro e Rocco Di Blasi. Non mi restò che rassegnare le dimissioni.
Michele Santoro anni dopo ci ha detto che il Pci “si trovò ad avere tra le sue fila a Salerno un gruppo di giovani di straordinaria qualità ma li disperse praticamente tutti”. Iniziò un declino che si sarebbe arrestato soltanto diciotto anni dopo, con Vincenzo De Luca.
Credo che il mio allontanamento e la rottura del partito con gli intellettuali abbiano significato per il Pci salernitano il ritorno a una condizione di isolamento dalla società civile, di chiusura settaria nelle sezioni. Poi per fortuna è arrivato De Luca. Vincenzo si iscrisse al partito quando io ero segretario. Frequentava la sezione di fronte al Comune. Forse un segno del destino...
Achille Bonito Oliva sostiene che la rivoluzione urbanistica e culturale che si è registrata nell’ultimo decennio a Salerno è figlia di quegli anni, della stagione di Filiberto Menna e, aggiungiamo noi, di Franco Fichera.
Non posso essere io a dirlo. Di sicuro in quella stagione furono gettati i semi di una nuova classe dirigente.
E hanno dato frutti?
Nel 1979, quando mi sono trasferito a Roma, ho lasciato una città in profondo degrado. Nel 1999, a distanza di venti anni, sono tornato a Salerno, e mi sono trovato di fronte a una città-gioiello. E’ raro in una città del Meridione invertire l’assetto urbanistico e ridare una prospettiva ai cittadini. Onore al merito a De Luca, che con quattro-cinque mosse strategiche ha ridisegnato Salerno e l’ha fatta rinascere.
Ora il professor Fichera è preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Suor Orsola di Benincasa di Napoli.
Sì, sono in prima linea in questa città così bella e così difficile. Una città tormentata, dove la camorra distrugge e inquina l’economia, e tradisce la gente. Sono convinto che anche la missione di un’Università libera come la nostra sia motivo di impegno civile. Il 26 gennaio inaugureremo la nuova sede dell’università, a S. Lucia al Monte, con una lectio magistralis del salernitano Sabino Cassese e con la partecipazione del sindaco Jervolino e del governatore Bassolino. Portare a Napoli l’eccellenza universitaria e grandi docenti quali Francesco Paolo Casavola, Sabino Cassese, Paolo Grossi, Massimo Luciani, Marco Pagano, Franco Gaetano Scoca, Giuseppe Tesauro, Gustavo Zagrebelsky, è un modo per affermare un’altra, ben più vera, Napoli

(La Città di Salerno, 9 gennaio 2005)

Scheda biografica

Il professor Franco Fichera è nato a Frosinone il 13 giugno del 1941, ma è vissuto e si è formato a Salerno, dove la famiglia si trasferì subito dopo la guerra. Ha frequentato il Liceo Tasso e quindi l’Università di Napoli Federico II, dove nel 1965 si è laureato in giurisprudenza.
Inizia subito l’attività politica e quella di ricerca e di docenza universitaria.
Nel 1973 pubblica un libro su fisco e costituzione, “Imposizione ed extrafiscalità nel sistema costituzionale” per la ESI. Nel 1974 diventa segretario provinciale della federazione del PCI di Salerno ed è partecipe dei profondi cambiamenti di quegli anni.
Nel 1976 lascia la segreteria del PCI. Inizia un periodo di riflessione sulla politica e le istituzioni che lo porterà a pubblicare in collaborazione con Carlo Donolo nel 1981 “Il governo debole” (De Donato editore), e nel 1988 “Le vie dell’innovazione” (Feltrinelli). Entrambi con il significativo sottotitolo “Forme e limiti della razionalità politica”.
Intanto, agli inizi degli anni ’80, è chiamato ad insegnare Sistemi fiscali comparati nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II; e poi, negli anni ’90, Diritto tributario nella Facoltà di Economia dell’Università di Bologna. Nel 1992 pubblica il volume “Le agevolazioni fiscali”, con la Cedam. Attualmente è docente di Diritto tributario nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è preside della Facoltà di giurisprudenza.

Intervista ad Amedeo Ariano, musicista jazz

di Mario Avagliano

“Salerno è l’anagramma di Orleans, come New Orleans, la città del jazz...”. Parola di Amedeo Ariano, classe 1967, salernitano del quartiere Pastena, batterista di Lucio Dalla e di Sergio Cammariere, considerato dal pubblico e dalla critica tra i più talentuosi percussionisti italiani di jazz. Nonostante viva a Roma da quattordici anni, Ariano è molto orgoglioso delle sue origini, che sbandiera in tutte le occasioni. Il suo ultimo disco, appena uscito in tutta Italia, distribuito da Emi per l’etichetta Via Veneto Jazz, s’intitola “Salerno Liberty City Band”, e riunisce alcuni dei migliori musicisti salernitani di jazz: Alfonso Deidda (piano, sax alto), Daniele Scannapieco (sax tenore), Dario Deidda (contrabbasso), Sandro Deidda (sax, clarinetti), Giovanni Amato (tromba), Gerry Popolo (sax, clarinetto, flauto).

Quando si è avvicinato alla musica?
Ho cominciato a suonare che avevo appena 6 anni di età. Ho studiato per un paio di anni pianoforte Poi mio padre comprò una batteria, fui affascinato dal suono di quello strumento e me ne innamorai. Da allora non ho più smesso.
La sua è una famiglia di artisti?
Siamo tre fratelli gemelli, tutti con la passione dell’arte. Mio fratello Luigi è bassista elettrico di blues e mia sorella Adele è ballerina, insegna all’Accademia di Danza di Roma.
Quando ha debuttato?
La mia prima esibizione dal vivo è stata a 14 anni, in una trasmissione di una tv privata salernitana che assomigliava un po’ a Sarabanda. I concorrenti dovevano indovinare il titolo del brano ascoltando solo tre note. Ricordo che nella band mancava il bassista. Fui io a prendere un basso elettrico a mio fratello Luigi e a convincerlo ad unirsi a noi. Dopo quell’esperienza, anche Luigi è stato contagiato dal virus della musica. E così siamo cresciuti suonando insieme ogni giorno, fino a tarda notte, nella nostra cameretta.
Qual è stato il momento di svolta nella sua formazione musicale?
Sembrerà strano, ma è stato l’anno di militare a Fano. Quando mi diedero i primi 15 giorni di congedo ordinario, invece di tornare a Salerno, seguii il corso di perfezionamento presso l’Umbria Jazz, dove ebbi la fortuna di avere come maestro Marcello Pellitteri.
Salerno negli anni Ottanta è stata una grande fucina di musicisti.
E’ vero. C’erano grossi musicisti di diversa estrazione musicale: jazz, blues, musica classica. Io a 16-17 anni suonavo con un gruppo di jazz-rock che si chiamava Zona Orientale, formato da Peppe Zinicola alla chitarra, Renato Costarella al pianoforte e Maurizio Caldieri al basso, poi sostituito da Paolo Pelella. Provavamo in una cantina, a casa di Peppe Zinicola. Per me è stata una vera e propria scuola.
Lei frequentava anche il Mumble Rumble.
Abitavo vicino al Mumble Rumble e quindi c’ero di casa. Lì sono passati tutti i musicisti salernitani: i fratelli Deidda, i fratelli Zinicola, Stefano Giuliano, Angelo Cermola, Caldieri, i Pelella e tanti altri. Per noi era il locale per eccellenza, ci tenevamo, e per questo, nelle ore libere, non disdegnavamo di fare qualche lavoro per migliorarlo: che so, pitturare le pareti oppure insonorizzare la sala. L’altro luogo dove ci riunivamo, era un miniappartamento che avevamo fittato a Fratte e che chiamavamo “il Posto”. Passavamo tutta la giornata a suonare lì e a scambiarci esperienze e ritmi.
Quali sono i musicisti salernitani con i quali ha avuto più rapporti umani e musicali?
Direi i fratelli Deidda: Dario Alfonso e Sandro. Con loro ho un sodalizio che dura da sempre. Poi Daniele Scannapieco, Gerry Popolo, Giovanni Amato e Bruno Brindisi.
Il fumettista?
Proprio lui. E’ un tastierista di straordinario talento musicale. Ricordo che intorno alla metà degli anni Ottanta non voleva più suonare. Per convincerlo, fui costretto ad andare a casa sua non so quante volte... Formammo un gruppo di fusion che si chiamava Gad-b Band, dalle iniziali di Gerry, Amedeo, Dario e Bruno. Ci divertivamo un mondo. Poi Bruno ha fatto la scelta di dedicarsi totalmente al fumetto, ma avrebbe avuto successo anche come musicista.
Si può parlare di una scuola salernitana del jazz?
La scuola musicale salernitana è un fatto consolidato. In Italia non c’è città che possa vantare tanti bravi musicisti al pari di Salerno. Certo, dopo Gaetano Fasano e Antonio De Luise, non sono usciti fuori altri talenti. Non conosco musicisti salernitani ventenni di belle speranze. L’unica eccezione è il pianista Julian Olivier Mazzariello, un grosso musicista che di sicuro si farà conoscere a livello internazionale. D’altra parte ormai a Salerno non c’è più un posto dove riunirsi per fare jam-session. So che stanno cercando di rilanciare il Mumble Rumble, e mi fa piacere, ma mi sembra che i tempi siano diversi da quelli di una volta.
Nella sua carriera, lei ha attraversato diversi generi musicali.
Fino a 18 anni ho suonato essenzialmente musica leggera. Poi sono passato al blues, quindi al rock-blues e infine alla fusion. Da molti anni ormai è il jazz la mia fonte di felicità.
Nella sua predilezione per il jazz, ha contato anche il sodalizio con Adriano Mazzoletti?
Beh, quando nel 1992 ho conosciuto Mazzoletti a Roma, grazie a lui ho potuto suonare con i più grandi musicisti europei e americani. Parlo di gente come Johnny Griffin, Sonny Fortune, Bobby Watson, George Coleman, Benny Golson, Mulgrew Miller, e vari altri. Con tanti di loro è nato un feeling che mi porta ancora adesso a fare concerti in giro per il mondo.
Ora è in pianta stabile nella band di Sergio Cammariere.
Sergio è un musicista di grande talento. La musica ce l’ha nel sangue! Collaboro con lui dal 1998. E’ una persona molto simpatica, anche se, come tutti gli artisti, ha un carattere un po’ particolare. Quel che più conta è che siamo amici e che mi piace suonare con lui.
Tra i musicisti con i quali spesso suona, c’è anche un certo Lucio Dalla...
Lucio è una persona meravigliosa, uno di quei pochi artisti che meritano di essere considerati tali. Negli ultimi tempi ho suonato spesso con lui. Ricordo in particolare con emozione la serata al Teatro dell’Opera di Vienna, in una sala affollata all’inverosimile, dove – insieme al grande Stefano Di Battista - abbiamo proposti i suoi pezzi riarrangiati in chiave jazzistica. Siamo diventati amici, siamo stati anche insieme in barca alle Tremiti.
E l’esperienza con Alex Britti?
Nel 1995 mi fecero un contratto in Rai, a Uno Mattina. Dovevo mettere su una band. Chiamai Agostino Penna alle tastiere e il salernitano Enzo Autuori al basso. Mi mancava un chitarrista-cantante. Telefonai ad Alex, che allora era semisconosciuto, e lui subito accettò. In seguito Britti mi propose di formare un gruppo di blues, che cantasse in italiano. Io in quel periodo suonavo in un gruppo di rock-blues piuttosto quotato, gli Almanegra, con Gianni Ventre alla chitarra e mio fratello Luigi al basso. Il progetto di Alex era interessante ma non credevo che potesse avere successo, e gli dissi quello che pensavo. Neppure un anno dopo Alex scalava le classifiche con il suo disco... Ci siamo rivisti durante la registrazione del disco di Sergio Cammariere, che è un suo grande amico. Sono contento del suo successo.
Come si potrebbe definire il sound della batteria di Amedeo Ariano?
Il sound della mia batteria è energico, istintivo, a volte anche delicato, di sicuro versatile. Mi piace la buona musica.
Com’è nata l’idea del suo ultimo disco, “Salerno Liberty City Band”.
E’ un disco prodotto da me e composto e suonato esclusivamente da musicisti salernitani. E’ una testimonianza di un gruppo di musicisti che sono cresciuti e maturati insieme e che continuano il loro viaggio musicale in Italia e in Europa uniti dalle origini, dal tipo di musica che suonano e soprattutto dall’amicizia.
C’è molta Salerno nel disco?
Eccome! Innanzitutto le sonorità sono mediterranee. E poi è un disco che ti fa sentire il calore del Sud. I brani sono quasi tutti originali e davvero belli. A pochi giorni dall’uscita del disco, ci sono pervenute richieste perfino dalla Francia. Penso che sia un bel regalo di Natale. Peccato che nella mia città finora nessuno abbia pensato di chiedermi di presentarlo. Né la Regione, né la Provincia, né il Comune. Eppure ho fatto tanto per il jazz a Salerno, ho organizzato decine di festival, e come gli altri musicisti salernitani ho portato il nome di Salerno in giro per l’Italia e per l’Europa, con orgoglio e con onore.
Com’è di carattere Amedeo Ariano?
Ho un brutto carattere. Sono un po’ irascibile e ho modi particolari. In questo momento, sono anche deluso dal punto di vista sentimentale. Però nella mia vita cerco sempre di essere giusto e di non fare del male a nessuno. Mi piace stare in pace con le persone. Non mi piace litigare.
Che cosa le manca della sua città?
Mi manca il lungomare. Mi mancano i miei parenti, i miei amici, l’aria particolare che si respira a via dei Mercanti. Salerno è magica. Quando arrivo all’uscita di Salerno sull’autostrada, penso sempre che la mia città è fantastica. E che bisognerebbe valorizzarla. Si è fatto molto per recuperare il centro storico, per curare gli arredi, ma Salerno merita di più. Per le sue bellezze, per la sua posizione geografica, per la sua gente, merita di essere una capitale della cultura e del turismo del Mezzogiorno.

(La Città di Salerno, 12 dicembre 2004)

Scheda biografica

Amedeo Ariano è nato a Salerno il 21 giugno del 1967. Batterista e percussionista autodidatta, si avvicina giovanissimo alla musica. Ha all'attivo un'intensissima attività concertistica al fianco di musicisti stranieri di fama mondiale come: Johnny Griffin - Sonny Fortune - Bobby Watson - Richie Cole - George Garzone - James Moody - George Coleman - Benny Golson - Ronnie Cuber - Larry Schneider - Larry Smith - Kirk Lightsey - Mulgrew Miller - Alan Jean Marie - Cedar Walton - Jon Faddis - Conte Candoli - Claudio Roditi - Buky Pyzzarelly - Bireli Lagrene - Camerun Brown - Mike Mainieri - Gianni Basso - Umberto Fiorentino - Maurizio Giammarco - Stefano Sabatini - Dado Moroni - Franco Ambrosetti - Flavio Boltro - Stefano Di Battista - Tony Scott ed altri. Ha già preso parte a numerose incisioni discografiche con noti jazzisti italiani, nonché a colonne sonore di film. Nel ruolo di batterista ha recitato nei film: "Titus" con Jessica Lange ed Anthony Hopkins, e "Gli eredi" con Anna Falchi. Ha suonato "live music" in diverse sfilate di moda tra cui: Lancetti, Joy's & Jo, Modamed. La sua versatilità musicale gli consente di far parte di gruppi musicali anche fuori dal circuito del jazz come: pop, blues, funky e musica leggera. Partecipa a diversi programmi televisivi tra cui: "Uno Mattina" (Inverno '96, RAI 1), "Maurizio Costanzo Show" (Inverno '98, Canale 5), "Tribù" ('98, MC), "Tappeto Volante" ('99, TMC), orchestra "Mambo AI" di "Domenica In" (intera edizione'99-2000' RAI 1), orchestra "I Luna D'oro" di "Uno Mattina" (intera edizione estate 2000, RAI 1). Dal '92 ad oggi ha suonato in numerosi festival del jazz italiani ed esteri, tra cui: Veneto Jazz - Padova Jazz - Worldwide Festival, Belluno - Bologna Jazz Festival - Umbria Jazz-Roma Jazz festival ed altri.Esteri: Berlino, Monaco, Amburgo, Mosca, Ankara, Zurigo, Malta, Barcellona ed altri. Sempre dal '92 insegna batteria all'Accademia musicale "Setticlavio" in Salerno. Inoltre, è coordinatore nazionale dell' AIPS (Associazione nazionale professionisti dello spettacolo); direttore artistico e consulente musicale del "Festival internazionale del Jazz e del Blues degli Alburni" (di tutte le edizioni, arrivate oramai all'ottava); presidente dell'Associazione Musicart dall'estate 2001 e consulente artistico e musicale del festival "Ho Jazz Bee Good" di Mosciano S.Angelo (TE) e del "Festival Degli Appennini" di Silla (BO).

Intervista a Luca Trabucco, pianista classico

di Mario Avagliano

Nonostante la giovane età, è uno dei pianisti di musica classica più corteggiati dai teatri d’Italia e d’Europa, per il “gusto raffinato del suono” e per l’originalità delle sue interpretazioni. Luca Trabucco, 34 anni appena compiuti, è salernitano di nascita, anche se è cresciuto a Genova e ora vive a Trieste. Musicalmente ha una passione smodata per Beethoven e per i compositori francesi Ravel e Debussy. Ha lavorato con direttori d’orchestra del calibro di Enrique Mazzola e Donato Renzetti. Lontano da Salerno da tanti anni, Trabucco confessa di sentirsi “uomo del Sud” e di essere orgoglioso delle sue origini, ha parole di elogio per la sua città natale e dice di essere dispiaciuto di non essersi mai esibito al Teatro Verdi: “Nemo propheta in patria...”. Poi annuncia che a inizio 2005 uscirà il suo nuovo cd, che sarà diffuso in tutte le edicole in allegato alla rivista “Suonare news”. E parla di un progetto ancora “allo stato embrionale”: la fondazione di un’Accademica pianistica di alto livello “proprio a Salerno”, che potrebbe raccogliere tutti i giovani talenti meridionali.

Dove abitava a Salerno?
Nel quartiere Pastena, Mio padre era dirigente della sede salernitana di un’industria del vetro, la PPG. Purtroppo ci siamo trasferiti a Genova quand’ero ancora un bambino, e quindi i miei ricordi sono sbiaditi.
Com’è nata la sua passione per il pianoforte?
Devo ringraziare i miei genitori, che mi hanno quasi costretto a prendere lezioni di pianoforte. All’inizio non ero entusiasta, poi all’età di 13-14 anni ho cominciato a pensare che da grande il mio lavoro sarebbe stato il pianista.
Perché?
Perché ho visto che certe cose che volevo fare al pianoforte mi riuscivano e che suonare mi piaceva e mi emozionava. Insomma, c’era del talento, e valeva la pena continuare.
Lei ha studiato al Conservatorio di Genova. Chi sono stati i suoi maestri?
Mi sono diplomato al Conservatorio di Genova nel 1992 e poi ho frequentato l’Accademia di Imola fino al 2000. Il mio primo maestro è stato Claudio Proietti, con il quale sono praticamente cresciuto. Gli devo molto. Poi mi sono perfezionato all’Accademia con grandi nomi della musica mondiale, prima con Lazar Berman, Alexander Lonquich e Riccardo Risaliti, e quindi con Boris Petrushansky e Piero Rattalino. Sono contento di aver avuto tanto da tanti.
In dodici anni di carriera, lei ha tenuto centinaia di concerti in tutt’Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Qual è stato quello più emozionante?
La finale del concorso del Premio Venezia, al Teatro La Fenice, nel 1993. Era la prima volta che suonavo in un teatro di quel tipo. Ero uscito da poco dal Conservatorio, e per me quel concerto ha rappresentato lo spartiacque tra la carriera di studente e quella di professionista. Lo considero il mio vero debutto. Ricordo che dentro di me avvertii timore, paura, ma anche l’emozione di trovarmi in un luogo dove si era fatta la storia della musica e la soddisfazione di entrare a far parte di un mondo che era il mio sogno da ragazzo.
Nel suo repertorio musicale figurano soprattutto compositori francesi, in particolare Claude Debussy e Maurice Ravel. Come mai?
Per una questione di gusto personale. Nel periodo della mia tarda adolescenza, mi sono appassionato molto alla letteratura francese, ai poeti maledetti, a Marcel Proust. Mi sono così avvicinato al modo di vedere e di sentire della Francia inizio ‘900. Da lì fino ad approdare alla musica di Debussy e Ravel, il passo è stato breve.
Lei ha vinto molti premi. Qual è quello di cui va più fiero?
Forse il Premio Treviso, perché è un premio storico in Italia che è stato vinto da pianisti che poi hanno fatto una grande carriera. Quando me l’hanno assegnato, ho pensato che in fondo non dovevo essere tanto male.
Qual è il pianista a cui si ispira?
Arturo Benedetti Michelangeli. L’ho sempre trovato straordinario per il senso dell’illusionismo di quello che riusciva a fare, soprattutto dal punto di vista timbrico e del suono.
Se fosse un critico musicale, come definirebbe il suo modo di suonare?
E’ difficile rispondere. Quando suono, cerco di mettere nell’esibizione tutta la serietà della mia preparazione e le mie capacità tecniche. Qualche critico ha scritto che ho un “gusto raffinato del suono”. Credo di riconoscermi in questa definizione, e spero che anche il pubblico che mi ascolta la condivida.
Quali sono i suoi progetti attuali?
La settimana prossima sono a Milano per incidere il mio nuovo disco, che uscirà a gennaio-febbraio 2005, in allegato con il mensile “Suonare news”, con musiche di Bach, Chopin, Debussy e Scarlatti. A dicembre, poi, mi attende una intensa attività concertistica a Milano, Bari, Trieste.
Il suo sogno nel cassetto?
Suonare l’integrale delle 32 Sonate di Beethoven. Sembra un numero limitato, ma in realtà è un impegno straordinario che può portare via diversi anni della vita.
Quali sono i colleghi pianisti che stima di più?
Maurizio Baglini, mio amico fraterno. Roberto Cominati, napoletano. E poi Davide Cabassi. Sicuramente ne ho dimenticato qualcuno, e mi scuso.
E’ vero che la sua compagna è una pianista?
E’ vero. Si chiama Maia Glouchkova, ed è di Sofia. Ci siamo conosciuti a un concorso internazionale. E’ in quelle occasioni che di solito si formano le coppie di pianisti...
La musica è tutto il suo mondo o c’è posto anche per altre cose?
L’altro mio grande amore è la lettura. Divoro letteralmente libri di qualsiasi genere. Ho avuto un periodo pulp, in cui mi piacevano soprattutto gli scrittori emergenti italiani, come Scarpa e Ammaniti. Ora sto riscoprendo i classici del Novecento, da Stendhal a Dostoevskij. Poi adoro cucinare e credo di essere anche un buon cuoco. Il mio piatto forte è il soufflé alle erbe. A Genova giocavo spesso a biliardo, ho partecipato anche a vari campionati. Quando torno lì a trovare la mia famiglia, mi porto dietro la stecca.
Com’è Luca Trabucco di carattere? Socievole o timido, forte o debole?
Sono una persona tranquilla, riflessiva. Credo di essere abbastanza equilibrato, anche se - come capita ai nati sotto il segno della Bilancia -, l’equilibrio è allo stesso tempo un pregio e un difetto, soprattutto quando si traduce in difficoltà nel prendere decisioni.
Si è mai esibito a Salerno?
No, mai. Ho suonato al Festival di Ravello, a villa Rufolo, e poi a Capri e a Ischia, ma nella mia città mai. So che il Teatro Verdi restaurato è bellissimo e mi piacerebbe esibirmi lì. Dicono che “nemo propheta in patria”. Speriamo che ci sia la possibilità di smentire questo detto.
Le piace la sua città di origine?
Guardi, sono rimasto sorpreso dal cambiamento che c’è stato. Nel ’92 Salerno mi aveva fatto una strana impressione, mi era sembrata una città buia. Poi ci sono mancato per anni. Quando sono tornato qualche anno fa, ho trovato una città che non mi aspettavo: ordinata, estremamente curata, con un lungomare meraviglioso. Un po’ la Svizzera del Sud. Una città a cui i cittadini vogliono bene.
Ha in programma progetti legati a Salerno?
Da qualche tempo sto meditando circa la possibilità di fondare un’accademica pianistica di alto livello proprio a Salerno. Si tratta di realtà abbastanza diffuse al nord, ma piuttosto rare al sud, e quindi ci sarebbe spazio. E’ un progetto ancora allo stato embrionale, ma mi piacerebbe realizzarlo.
Dopo tanti anni vissuti a Genova e a Trieste, si sente ancora un meridionale?
La risposta è sì. Quando mi presentano come pianista genovese o triestino, li correggo sempre, e dico che sono nato a Salerno. Non mi sono mai sentito un settentrionale, e non solo perché sono nato a Salerno e perché la famiglia di mio padre è della Sicilia. E’ anche un fatto di temperamento e di cultura. Genova e Trieste sono belle città, ma sono estremamente chiuse. Assomigliano a Salerno solo in una cosa: il mare. Non potrei vivere in una città senza mare. Nella mia vita mi piace avere il riferimento dell’acqua

(La Città di Salerno, 14 novembre 2004)

Scheda biografica

Luca Trabucco è nato a Salerno il 17 ottobre del 1970. Ha intrapreso gli studi musicali a Genova presso il Conservatorio "N. Paganini" con Claudio Proietti per il pianoforte e Adelchi Amisano per la composizione; in seguito si è perfezionato presso l'Accademia Pianistica "Incontri col Maestro" di Imola prima con Lazar Berman, Alexander Lonquich, Riccardo Risaliti e quindi con Boris Petrushansky e Piero Rattalino. Vincitore di vari concorsi pianistici tra cui il "Premio Venezia" nel 1993, il "Premio Città di Treviso" nel 1995 e il Concorso Internazionale "Città di Pavia" nel 2000, ha suonato in tutta Italia, in vari paesi europei e negli Stati Uniti, collaborando con prestigiose istituzioni (Teatro Carlo Felice di Genova, Lyceum di Firenze, Teatro Comunale di Treviso, Asolo Musica, Kawai in Concerto all'Università Bocconi di Milano, Università Normale di Pisa, Orchestra Filarmonia Veneta, Ente Arena Sferistereo di Macerata, Orchestra Sinfonica Siciliana, Teatro La Fenice di Venezia ) ed importanti Direttori (Enrique Mazzola, Donato Renzetti, ecc.). Negli ultimi anni, si è dedicato alla realizzazione dell'integrale delle opere di Debussy e Ravel e all'approfondimento del repertorio francese contemporaneo. Ha da poco pubblicato un CD per la Phoenix con musiche di Ravel, Debussy e Messiaen. È attivo anche come compositore; nel 1991 il suo Trio Ludico ha vinto il Premio "C. Czerny". La sua musica è pubblicata dalla Edi-Pan di Roma.

Intervista ad Alessandro Cellerino, scienziato

di Mario Avagliano

E’ una delle giovani promesse della neurobiologia italiana. Il suo progetto di ricerca sui segreti della longevità umana è stato recensito addirittura dal New York Times. Lo scienziato Alessandro Cellerino, salernitano, 35 anni, associato presso l'Istituto Nazionale di Neuroscienze del CNR e ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa, indaga da tempo sui meccanismi che controllano lo sviluppo del cervello. Gli sono stati assegnati numerosi premi, anche internazionali. E il suo primo libro, intitolato “Eros e cervello”, che analizza il significato dei meccanismi alla base della sessualità e del comportamento affettivo e i circuiti cerebrali che sono alla base di questi comportamenti, è stato un successo di vendite e di critica.

Quanto ha contato Salerno nella sua formazione?
Il mio legame con Salerno è davvero forte, anche se sono andato via dalla mia città quand’ero bambino, dopo la morte prematura di mia madre. Durante l’adolescenza, infatti, ho trascorso buona parte delle ferie a Salerno, a casa della nonna e con gli zii e le zie materne. Ricordo in particolare le estati passate al mare, in uno stabilimento di Pastena, i giochi di spiaggia, le amicizie. Per me è stato un periodo indimenticabile.
Lei però è cresciuto a Napoli.
Sì, nel quartiere di Fuorigrotta. Ho seguito lì mio padre, prima professore e poi preside in un Istituto Tecnico Statale. Ho frequentato tutte le scuole a Napoli e, dopo la maturità al liceo scientifico, a 18 anni ho tentato la strada del concorso per entrare nella Scuola Normale di Pisa. E’ stato mio padre a convincermi a provare. Avrebbe voluto concorrere anche lui, quand’era studente. Mi è andata bene, ed eccomi qui.
Un’impresa difficile. Lei minimizza.
In effetti la Scuola Normale è molto selettiva. Ogni anno vengono ammessi soltanto 30 studenti di tutta Italia alla classe di scienze matematiche e fisiche naturali. D’altra parte io sono nato con la passione della biologia. Già da bambino sognavo di studiare gli animali e i loro comportamenti...
Ha sofferto il distacco dalla Campania?
A quell’età i distacchi non si sentono, sono una cosa abbastanza naturale. A Pisa poi ho trovato un ambiente sano, costituito da persone motivate e preparate, e assai stimolante sia dal punto di vista formativo che da quello umano. E’ stato più duro lasciare l’Italia e trasferirmi, in Germania prima a Monaco e poi a Tubinga. Anche se l’esperienza all’Istituto Max-Planck è stata straordinaria e mi ha consentito di entrare in contatto e di confrontarmi con ricercatori americani, inglesi, tedeschi, greci e di tante altre nazionalità.
Nel 1998 si è aggiudicato la prima edizione del prestigioso Premio Bruno Ceccarelli.
E’ stata per me una grossa soddisfazione. Una pietra miliare della mia carriera di scienziato, di cui vado particolarmente fiero. Tra l’altro Bruno Ceccarelli è un personaggio in cui mi riconosco, perché era uno studioso eclettico, uno che era al di fuori degli schemi del mondo accademico italiano.
Dopo i quattro anni in Germania, nel 2000 è tornato in Italia, come ricercatore presso la Scuola Normale di Pisa.
A Pisa ho cominciato un progetto di ricerca nuovo. Io di estrazione sono un neurobiologo, mi sono sempre occupato dello studio del cervello, per essere più precisi dei meccanismi che portano alla connessione tra i diversi neuroni all’interno del cervello. In questi ultimi anni ho cercato di sviluppare un filone di ricerca che utilizzasse un approccio di tipo evoluzionistico nello studio di questi meccanismi, avvalendosi di conoscenze che vanno dalla biologia evoluzionistica alla genetica molecolare, dalla neurobiologia alla psicofisica e alla psicologia evoluzionistica.
Cosa vuol dire in soldoni?
Abbiamo creato delle facce virtuali al calcolatore, per studiare come le persone reagiscono ai diversi tratti somatici, sia attraverso questionari sia attraverso l’esame delle percezioni a livello cerebrale. E’ venuto fuori che esiste una relazione tra le variazioni nella geometria dei volti e la percezione delle persone. In particolare i meccanismi di valutazione appaiono condizionati da meccanismi ancestrali che derivano dall’evoluzione darwiniana. La bellezza è stata un elemento importante nella selezione naturale: probabilmente l'uomo di Neanderthal è l'Homo sapiens, con cui era riuscito a convivere fino a 30 mila anni fa, non si sono mai incrociati perché per noi i Neanderthal erano poco attraenti e questo meccanismo influenza ancora oggi i nostri giudizi.
Sta affermando che la bellezza è un dato oggettivo?
E’ ormai abbastanza chiaro che esiste una componente biologica e innata che influenza la percezione della bellezza. Esiste cioè un meccanismo neuronale con il compito di analizzare la bellezza: questo spiegherebbe la velocità con cui il cervello, davanti ad un viso che riteniamo bello, produce un'onda caratteristica. E spiegherebbe anche perché un bambino piccolo guardi più a lungo un viso bello di uno brutto: esistono dei criteri di valutazione oggettivi ed innati.
Quali caratteristiche ha un volto bello?
Un volto bello ha dei tratti precisi, decisamente infantili: mento piccolo e vicino alla bocca, distanza breve tra occhi e bocca, fronte alta e labbra carnose. Nella realtà, il viso ideale, che piaccia a chiunque indistintamente, non esiste: esso sarebbe la media di tutti i volti. A un certo numero di soggetti sono stati mostrati visi ottenuti dalla fusione computerizzata di 2, 4, 8, 16, 32 visi reali. Ebbene, quanto maggiore era il numero dei visi utilizzati per costruire quello composito, tanto più quest'ultimo veniva giudicato attraente, e nessuno dei visi di partenza veniva preferito all'artificio finale.
Lei ha anche studiato il fenomeno dell’omosessualità. E’ una abitudine acquisita o un'inevitabile conseguenza di una particolare combinazione di geni che ognuno di noi eredita alla nascita?
La teoria classica della psicoanalisi considera l'omosessualità maschile il risultato di esperienze infantili, ed in particolare dell'interazione con un madre possessiva ed un padre assente. Nell'ultimo decennio però si sono accumulati indizi che indicano il coinvolgimenti di fattori genetici ed ereditari nell'omosessualità. Particolarmente convincente è lo studio di gemelli identici di cui uno omosessuale. In oltre la metà dei casi anche l'altro gemello risulta essere omosessuale. Studi successivi hanno dimostrato che l'omosessualità maschile tende ad essere trasmessa lungo la linea materna, e riguarda in particolare le madri di più figli. In base a questa ricerca, l’omosessualità sarebbe un sottoprodotto di geni che rende le donne particolarmente fertili.
Dal 2003 lei si sta occupando di studiare i meccanismi che influenzano la longevità. Una ricerca molto innovativa, di cui ha scritto anche il New York Times.
Sto studiando i fattori sia genetici che ambientali che controllano e modificano la longevità, utilizzando una specie particolari di pesci, denominata Nothobranchius, che abbiamo pescato appositamente in Africa e che vive soltanto tre mesi. Con questi pesci è possibile fare tanti tipi di sperimentazioni per verificare se una manipolazione o un trattamento farmacologico può cambiare la longevità. E’ chiaro che i risultati di questa ricerca potranno essere utili anche per approntare strategie tese ad allungare la vita delle persone.
Dopo un periodo trascorso all’estero, lei ha deciso di lavorare in Italia. Sulla base della sua esperienza personale, il fenomeno della fuga dei cervelli italiani all’estero è un’invenzione della stampa o è una realtà?
E’ una realtà. Io sono tornato in Italia per motivi personali, non perché ci fossero condizioni di lavoro migliori. Non a caso tutti i premi Nobel italiani hanno vinto il premio quando operavano all’estero. Purtroppo in Italia c’è scarsa considerazione per i ricercatori. Non si comprende che chi fa ricerca, contribuisce allo sviluppo del Paese. La ricerca crea innovazione, e l’innovazione è fondamentale per l’economia. Invece vengono investite pochissime risorse per la ricerca, siamo il fanalino di coda in Europa, e i pochi soldi disponibili vengono mal distribuiti, finiscono sempre nelle stesse mani. Il sistema di distribuzione dei fondi è bacato, favorisce i baroni della ricerca e serve soltanto a foraggiare le cordate che controllano il mondo accademico italiano. Se si pensa che in ambito biomedico le ricerche più d’avanguardia ed i ricercatori più brillanti e creativi sono finanziati da Telethon e non dallo Stato, il quadro è chiaro.
Un quadro buio...
Non del tutto. Per fortuna i ricercatori italiani sono abituati a fare miracoli e fanno scoperte scientifiche incredibili anche avendo a disposizione solo un terzo dei fondi dei loro colleghi all’estero. L’arte di arrangiarsi ce la portiamo dietro anche in laboratorio.
Il Sud è svantaggiato rispetto al Nord anche nel campo della ricerca?
Per quanto riguarda la distribuzione dei fondi, non mi pare. Piuttosto al Sud c’è un problema di infrastrutture e di mentalità. Spesso nelle università meridionali c’è poco interesse a fare ricerca. Da poco hanno aperto una scuola di eccellenza a Lecce. Speriamo che sia un segnale di svolta.
Da buon scienziato, avrà un sogno nel cassetto.
Guardi, il mio sogno è quello di creare una struttura, un istituto, dove si possa far ricerca con la mentalità degli Stati Uniti o dell’Inghilterra, in modo indipendente.
Salerno è ancora nel suo cuore?
Eccome! Ci torno almeno due volte all’anno, e amo passeggiare al lungomare oppure andare in costiera. Salerno è diventata una città molto ordinata. E’ un salotto rispetto a vent’anni fa. La trovo una città tranquilla, raccolta, a misura d’uomo, a differenza di Napoli, che per certi versi è una città infernale...

(La Città di Salerno, 28 novembre 2004)

Scheda biografica

Alessandro Celerino è nato a Salerno il 28 marzo del 1969. E’ stato ammesso nel 1987 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si è laureato in Biologia nel 1991, col massimo dei voti e la lode, e dove ha preso il dottorato in Neurobiologia. Ancora studente, ha iniziato il lavoro di ricerca a Pisa presso il laboratorio di Lamberto Maffei, per trasferirsi poi nel 1994 al laboratorio di Yves Alain Barde, presso l'Istituto di Psichiatria di Martinsried (Monaco di Baviera). Da qui è passato al Max-Planck di Tuebingen (laboratorio di Mathias Baehr), collaborando con il Dipartimento di Oftalmologia dell'Università (laboratorio di Konrad Kohler). Nel gennaio 1998 è tornato all'Istituto di Neurofisiologia del CNR di Pisa quale ricercatore a contratto. Ha vinto fellowships europee e tedesche, ha partecipato quale invited speaker a Congressi internazionali, incluso il Neuroscience Meeting del 1996, dove ha presieduto una slide session. Nel 1998 gli è stato assegnato il premio "Bruno Ceccarelli" per giovani ricercatori in Neuroscienze. Oltre a circa 25 articoli su ricerche internazionali, ha pubblicato nel 2002 "Eros e Cervello. Le radici biologiche di sessualità, estetica, amore" (Bollati Boringhieri), che è stato premiato con il Premio "Liceo Fermi, città di Cecina" per la divulgazione scientifica. Ha vinto anche il premio "Ecòle instument de Paix" per l' innovazione didattica. E’ associato presso l'Istituto Nazionale di Neuroscienze del CNR. Ha svolto numerosi studi sui meccanismi di sviluppo del cervello e collabora con "La Stampa", "Le Scienze", "Mente e Cervello"

Intervista a Francesco D'Onofrio, politico

di Mario Avagliano

C’è un salernitano del centrodestra che può legittimamente cantare vittoria, nonostante le batoste subite a Salerno e in provincia dalla coalizione di governo. “Alle europee l’Udc ha avuto un successo straordinario”, dice il senatore Francesco D’Onofrio, fine giurista, capogruppo dei centristi al Senato ed ex ministro della Pubblica Istruzione del primo Governo Berlusconi. Fu lui nel 2002 a redigere il documento fondativo del partito di Casini e di Follini. E non ha dimenticato di essere un meridionale. Anzi, in qualità di relatore della proposta di legge sulla devolution, manda un avvertimento agli alleati e in particolare alla Lega: “La debaclè della Casa della Libertà in Campania e nel salernitano dipende anche dallo scarso profilo meridionalista della coalizione. Bisogna smetterla di penalizzare il Sud”.

Senatore, pochi sanno che lei è nato a Salerno.
Mio padre era impiegato del Provveditorato agli Studi di Salerno. Ci ho vissuto poco, perché la mia famiglia poi si è trasferita in giro per l’Italia, ma nonostante la sommarietà del collegamento, per me il legame con Salerno è stato sempre fondamentale. Anche per quello che faccio oggi.
Come mai?
Sono nato politicamente con un salernitano, il professor Alfonso Tesauro, al tempo della Democrazia Cristiana. Mi ricordo che nel 1968, quando don Alfonso venne candidato alle elezioni politiche, si lamentò con me perché aveva avuto un collegio senatoriale difficile. Contro di lui si presentavano Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi. E invece riuscì ad essere eletto. Ero molto amico anche degli Scarlato, della sinistra dc, e ho avuto sempre una grande simpatia per Fiorentino Sullo, nonostante non gli abbia mai perdonato di aver abbandonato la scena dopo il congresso di Avellino. Quanto al mondo politico romano, in fondo mi ha sempre un po’ considerato un salernitano emigrato.
Lei cominciò a far politica nel 1982.
Sì, allora era sugli scudi Ciriaco De Mita. Tutta la mia carriera politica è stata costellata di politici campani. Sono stato il vice di Gerardo Bianco alla Camera dei Deputati. La scorsa legislatura il mio numero due era Roberto Napoli, di Battipaglia, poi passato con l’Udeur, col quale sono rimasto in buoni rapporti. Sono intimo amico di Clemente Mastella, del quale ho frequentato la casa e anche la cucina. E per finire, sono stato eletto per la prima volta parlamentare proprio a Napoli, nel 1983.
Una lunga carriera politica nella Dc, poi nel Ccd, fino a quando, nel 2002, è stato tra i fondatori dell’Udc.
L’Udc è nato per mia iniziativa, ad Agrigento, in Sicilia. Il documento fondativo del partito l’ho scritto io. Rischiavamo di diventare una sorta di Rifondazione democristiana, invece - anche grazie ai miei sforzi - si è capito che il tributo alle radici dc era giusto, ma bisognava andare oltre.
Come spiega il successo dell’Udc alle europee?
Credo che siamo stati capaci, soprattutto nel Mezzogiorno, di intercettare la nostalgia per la Dc, ma anche la delusione per i risultati insoddisfacenti della Casa delle Libertà.
Partiamo dalla nostalgia per la Dc.
L’Udc ha dimostrato di essere un punto significativo di riferimento per il popolo ex democristiano, molto di più del gonfalone del Ppi nell’indistinta Margherita e nell’ancora più indistinto Triciclo di Prodi.
Però avete tolto voti anche a Forza Italia...
Il passaggio di voti c’è stato. Questo non significa essere gli eredi di Forza Italia. Sarebbe un errore catastrofico.
Ora cosa succede nel Governo?
Berlusconi deve capire che il problema è serio. La Casa delle Libertà deve trasformarsi in un’alleanza popolare di centro, e nell’azione di governo ci deve essere più attenzione per il Mezzogiorno. In questi tre anni si è data la sensazione che, a causa dell’accordo con la Lega, il Sud dovesse essere penalizzato.
A proposito, dopo le elezioni la Lega pretende il federalismo. E minaccia: senza devolution, niente alleanze ai ballottaggi.
Finché sarò io il relatore della legge sul federalismo, non c’è rischio che il Mezzogiorno sia messo sotto. Ricordo che quando Tremonti e Bossi mi chiesero di fare il relatore, li misi in guardia: “Se volete il professor D’Onofrio, vi mando la parcella. Se volete il capogruppo dell’Udc, ricordatevi che sono democristiano e meridionale!”.
Basterà?
Io penso che occorra un nuovo patto di unità nazionale. Dal patto di Teano al patto federalista tra Nord e Sud. Purtroppo la malattia di Bossi mi ha fatto perdere un interlocutore prezioso di questo processo. Spero che si riprenda presto.
In Campania la perdita di consensi del centrodestra è ancora più marcata rispetto alle altre regioni del Sud.
La Campania è il buco nero del centrodestra. E questa è una delle ragioni per cui la Casa delle Libertà è debole nella cultura meridionalista.
Perché in Campania avete tanti problemi?
A Napoli città, ad Avellino, a Benevento, gran parte della forza dirigente autentica della vecchia Dc sta con il centrosinistra: De Mita, la Jervolino, Mancino, Gerardo Bianco, Mastella, l’ultimo arrivato Cirino Pomicino. E’ vero, sono tutti scontenti e preoccupati, ma nemmeno lontanamente disposti a schierarsi dall’altra parte. La verità è che la Casa delle Libertà non è riuscita ad agganciare gli ex democristiani, né politicamente né elettoralmente. Il centrodestra è apparso troppo nordista e lontano dai bisogni del Mezzogiorno.
Questa analisi vale anche per Salerno?
Solo in parte. Salerno e la sua provincia negli ultimi trenta anni non hanno espresso grandi leader nazionali del livello di De Mita e degli altri. Qui il successo del centrosinistra è un po’ più anomalo. Confesso che mi piacerebbe andare a fondo e capire le motivazioni del voto.
Salerno è sempre nel suo cuore, anche politicamente?
Non ritengo di aver fatto moltissimo per Salerno, dal punto di vista politico. Questo non significa che mi tirerei indietro. Anzi, ne approfitto per dire che i senatori salernitani del mio gruppo, Borea e Salsano, sanno di avere un amico in me.
Lei ogni tanto capita a Salerno. Che opinione ha della città?
Salerno è una gran bella città, soprattutto il lungomare. Peccato che è schiacciata dalle colline: ha una struttura orografica che non consente un’ulteriore espansione.
So che lei è un grande ammiratore della Costiera Amalfitana.
E’ uno dei posti più belli del mondo. Nel periodo estivo, non manco mai di passare qualche giorno a Positano. Vorrei anche visitare la Certosa di Padula. Non ci sono mai stato, e mi dicono che ne vale la pena.
E’ vero che tifa Salernitana?
Mi auguro che la Salernitana torni in serie A. Visto che nel mondo del calcio si registra finalmente la riscossa del Sud, con il Palermo e il Messina, mi sembra che anche la Salernitana abbia diritto a giocare nella massima serie. Non c’è dubbio che si tratta di un’impresa difficile. Allestire una squadra competitiva costa una quantità mostruosa di soldi, e non è più sufficiente fare appello agli imprenditori locali.
C’è un posto di Salerno che ama in modo particolare?
Quando vengo a Salerno, passo sempre per Piazza Portanova. E’ lì che sono nato, al numero civico 17. Nonostante le modifiche urbanistiche, è rimasta sostanzialmente intatta. L’altra mia tappa fissa salernitana, è la pasticceria Pantaleone, per le famose scazzette con le fragoline di bosco. Hanno un sapore unico e indimenticabile!

(La Città di Salerno, 27 giugno 2004)

Scheda biografica

Il senatore Francesco D’Onofrio è nato il 3 agosto 1939 a Salerno. Professore universitario, avvocato, è il capogruppo dei senatori dell’Udc. ha iniziato la sua carriera politica nel 1982. E’ stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 1983, come senatore della Democrazia Cristiana, a Napoli. E’ stato vicecapogruppo della Dc alla Camera dei Deputati e capogruppo del Ccd-Cdu al Senato. Nel 1994 è stato nominato ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Berlusconi. Parlamentare da sei legislature, nel 2001 è stato eletto senatore nel collegio numero 3 di Roma (Valmelaina-Prima Porta). Ha fatto parte di varie commissioni parlamentari, tra cui la Bicamerale per le Riforme, la Commissione Affari Costituzionali e la Commissione Antimafia. Attualmente è il relatore della proposta di legge del Governo sul federalismo.

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