Storie – Eva Fisher e il francobollo del 16 ottobre 1943

di Mario Avagliano

È scomparsa questa mattina a Roma la grande artista Eva Fischer, nel suo attico a Trastevere, circondata dall'affetto del figlio Alan David Baumann e della compagna di questi Grazia Malagamba. Domani alle 12 si terrà il funerale a Prima Porta. Nel 1993 la Fisher creò e donò alle Poste un disegno in ricordo del 16 ottobre 1943, data della prima deportazione perpetrata a Roma dai nazisti. L’anno dopo le Poste Italiane pregarono Eva di rappresentare, 50 anni dopo, alcuni degli eventi tragici verificatisi in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, dall’eccidio delle Fosse Ardeatine alla strage di Marzabotto. Ne è nata una serie di francobolli davvero straordinaria.

Eva Fischer nacque a Daruvar (nella ex Jugoslavia) nel 1920, da famiglia ungherese. Il padre Leopoldo, rabbino capo ed eccellente talmudista, venne deportato dai nazisti. Furono più di trenta i familiari di Eva scomparsi nei lager.
Dopo l’occupazione italiana della Jugoslavia, attorno al 1941, insieme alla madre e al fratello minore, Eva venne internata nel campo di Vallegrande (Isola di Curzola) sotto amministrazione italiana. Si trasferì poi con i familiari a Spalato e quindi a Bologna, dove nel 1943 si nascosero sotto il falso nome di Venturi. A salvarli fu determinante l'aiuto di alcuni antifascisti: Wanda Varotti, Massimo Massei ed altri ancora del Partito d'Azione.
A guerra finita Eva Fischer scelse Roma come sua città d'adozione ed entrò a far parte del gruppo di artisti di Via Margutta, frequentando Mafai, Guttuso, Campigli, Carlo Levi, Corrado Alvaro e tanti altri.
Intensa fu l'amicizia con De Chirico, Sandro Penna, Giuseppe Berto, Alfonso Gatto e poi con alcuni artisti internazionali, da Dalì a Picasso e Marc Chagall.
Negli anni successivi Eva Fischer espose i suoi quadri in tutto il mondo, da Londra a Parigi, da Madrid a Israele, dove dipinse mirabili tele di Gerusalemme e Hebron (molto note sono le vetrate del Museo israelitico di Roma) fino agli Usa, dove ebbe come collezionisti gli attori Humphrey Bogart ed Henry Fonda.
Proprio l’anno scorso, in occasione del 70° anniversario della Shoah in Ungheria, la Fisher ha tenuto presso l’Accademia d’Ungheria a Roma la mostra “Camminando nella valle dell’ombra…”, che raccoglieva i dipinti sull’Olocausto da lei realizzati tra i1 1946 e il 1989 e che non aveva mai voluto mostrare a nessuno, neppure a suo marito o a suo figlio. «Comprensibile ritegno a mostrare la parte più profonda del suo animo», ha scritto a questo proposito Elio Toaff.

(L’Unione Informa e Moked.it del 7 luglio 2015)

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Storie – I migranti del 1939 a Ventimiglia

di Mario Avagliano

Tra la fine del 1938 e il 1939 le leggi razziste costrinsero molti ebrei, specie stranieri, a lasciare l’Italia fascista. Una delle vie di fuga fu Ventimiglia, esattamente come avviene oggi per i migranti provenienti dall’Africa, in direzione della Francia, dove non c’era una dittatura, per poi eventualmente spiccare il volo verso la Gran Bretagna o gli Stati Uniti. Ma anche allora i francesi non gradivano l’intrusione e spesso respingevano i clandestini al confine.

Questa storia poco conosciuta viene raccontata da Paolo Veziano in “Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940″ (Fusta Editore), libro emozionante in cui, come scrive Alberto Cavaglion nella prefazione, “la figura geometrica dominante è la ‘serpentina’, o meglio bisognerebbe dire le serpentine, che da Ventimiglia conducevano i profughi ebrei in fuga dall’Italia fascista in direzione di Garavan, il quartiere di Mentone prossimo alla frontiera”.
Vicende drammatiche di famiglie sballottate tra l’Italia di Mussolini, che emanava provvedimenti di espulsione per gli ebrei stranieri e, cautamente, ne favoriva l’espatrio per liberarsi dalla loro presenza, e la Francia democratica che in realtà non li voleva, costringendoli ad entrare clandestinamente attraverso passaggi impervi, come il tristemente celebre “passo della morte” vicino al confine di Ponte San Luigi.
E anche all’epoca in quel traffico di uomini e di donne non mancavano persone senza scrupoli, gli scafisti degli anni Trenta, pescatori o non, che cercavano di trarre il massimo profitto da quei viaggi della speranza.
La storia si ripete. Tragicamente.

(L’Unione Informa e Moked.it del 23 giugno 2015)

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Quando i razzisti salirono in cattedra.... in Germania e in Italia

di Mario Avagliano

Erano belli, brillanti, intelligenti e colti. Furono responsabili della morte di milioni di ebrei. Il nazismo in Germania non fu solo un movimento guidato da folli in preda a deliri di onnipotenza. Hitler si avvalse di una poderosa macchina burocratica e di propaganda che, per funzionare, aveva bisogno di uomini preparati. Giuristi, dottorandi in economia o in storia, giovani laureati costituirono un’élite di intellettuali che svolse un ruolo fondamentale sia dal punto di vista teorico e organizzativo, sia come apparato di esercizio quotidiano del potere.
Ma che cosa spinse questi uomini a mettersi al servizio del nazismo? Un poderoso saggio di uno storico francese, Christian Ingrao, intitolato «Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS» (Einaudi, pp. 405, euro 34), cerca di dare una risposta a questo interrogativo, seguendo i percorsi biografici e culturali di ottanta di loro.

Secondo la tesi di Ingrao, che ha fatto già discutere in Francia e in Germania, grosse colpe sono addebitabili alla cultura bellica e alle vicende della Grande Guerra, che ebbero particolare influenza sui bambini tedeschi di allora, tanto più quelli provenienti dalle aree di confine, che subirono occupazione ed espropri da parte delle Nazioni vincitrici del conflitto. Werner Best, ad esempio, a undici anni durante la guerra perse il padre, il quale gli lasciò una lettera in cui esortava lui e il fratello «a diventare uomini, tedeschi e patrioti».
Gli studenti tedeschi degli anni 1918-1924, futuri intellettuali delle SS, espressero con la massima chiarezza questa angoscia escatologica e costituirono il grosso delle truppe delle varie formazioni paramilitari sorte in quel periodo. La loro militanza proseguiva la lotta contro il trattato di Versailles, che aveva umiliato i tedeschi, per la salvaguardia della nazione assediata da un «mondo di nemici», esterni ed interni, ed ebbe come valvola di sfogo finale l’adesione in massa al movimento nazista.
Il partito di Hitler, col suo progetto di rifondazione della germanità e di affermazione della superiorità della razza nordico-ariana, riuscì ad intercettare il loro consenso, rappresentando il transfert di una rivincita anche ideale di una generazione, il sogno di un invincibile Grande Reich millenario.
La storia divenne così la ragione legittimatrice di una «scienza combattente», di un corpo elitario di intellettuali che, rileva Christian Ingrao, mobilitò a partire dal 1939 il razzismo e l’antiebraismo nella giustificazione della guerra e nella produzione dell’immagine del nemico e in molti suoi elementi non ebbe il timore di sporcarsi le mani nel genocidio degli ebrei, partecipando in prima persona agli eccidi di massa, prima nell’Est europeo e poi anche nel Reich.
La maggior parte degli intellettuali SS sopravvisse all’apocalisse del 1945, subendo molto spesso duri processi, in qualche caso il patibolo e di frequente il carcere.
La parabola degli intellettuali italiani dell’epoca presenta alcuni punti in comune e parecchie divergenze con i loro coetanei d’oltralpe. Anche il consenso degli intellettuali italiani al fascismo trovò, almeno in parte, le sue radici nella prima guerra mondiale, nella delusione conseguente alla cosiddetta vittoria mutilata e nelle ambizioni di costruire un’Italia nuova e potente, erede della Roma imperiale, protagonista in Europa e nel Mediterraneo. Il partito fascista di Benito Mussolini, tuttavia, all’inizio non fu antisemita, anzi molti ebrei militarono nelle sue fila, anche con incarichi di rilievo. La svolta razzista e antiebraica, che negli anni Venti coinvolgeva solo una minoranza di uomini di cultura, prese corpo a seguito della conquista dell’Etiopia.
Giornalisti, artisti e scrittori parteciparono attivamente all’intensa campagna di propaganda antisemita orchestrata dal regime tra il 1937 e il 1938 e dopo l’emanazione delle leggi razziali, avvenuta nell’autunno del 1938, per oltre sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della persecuzione. Un bel libro appena uscito, «Baroni di razza» di Barbara Raggi (Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Rimasero tutti (o quasi) al loro posto, perfino Nicola Pende, firmatario del famigerato Manifesto della Razza. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono le dure sentenze della Storia, transitando senza colpo ferire nella Repubblica. Così Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza, divenne nel 1957 presidente della Corte Costituzionale. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse la sua carriera col rango di professore emerito. Segno di un processo di defascistizzazione dell’Italia che fu largamente incompiuto, falsato, come scrive Pasquale Chessa nell’introduzione, dal peccato originale di «un algoritmo del perdono morale etico e politico”.

(Il Mattino, 9 dicembre 2012)

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Storie - Pino Levi Cavaglione e il giorno da leoni

di Mario Avagliano

«Marco [Moscati] è ritornato da Roma. I suoi sono sfuggiti alla razzia. Le notizie che egli porta sono raccapriccianti. I tedeschi hanno agito con meticolosa ferocia. Bambini lattanti, donne incinte, vecchi paralizzati non hanno trovato pietà. Venivano caricati sui camion gremiti altri infelici, con selvaggia furia». È quanto scrive nel suo diario il 20 ottobre 1943 il comandante delle bande partigiane dei Castelli Romani, Pino Levi (il cognome Cavaglione lo aggiungerà nel dopoguerra, in omaggio alla madre Emma, deportata e morta ad Auschwitz).
La biografia di questo incredibile personaggio, nato a Genova nel 1911, figlio di Aronne (Nino) Levi, è stata ricostruita per la prima volta nel libro «Il Ponte Sette Luci» (Metauro) di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni, presentato alla Casa della Memoria il 5 dicembre scorso.

Pino, all’epoca giovane avvocato, era un giovane fuori dal comune, che amava la letteratura, la storia, la fotografia, la musica lirica, il pugilato e leggeva in francese e inglese. Antifascista della prima ora, nel 1937 fu iscritto nel casellario politico centrale del Ministero dell’Interno, diventando uno dei 160mila sovversivi italiani. Quello stesso anno raggiunse Carlo Rosselli e gli amici di GL a Parigi per arruolarsi nelle brigate internazionali in Spagna; proposito dal quale dovette recedere per l’intervento del padre Aronne, che andò a prenderlo in Francia e lo riportò a casa.
Arrestato dal regime fascista il 10 maggio 1938, iniziò il suo lungo girovagare per il centro-sud della penisola, al confino prima per antifascismo e poi, dopo l’entrata in guerra, quale «ebreo antifascista». Liberato dal governo Badoglio, Pino dopo l’8 settembre sfuggì all’arresto dei nazifascisti a Genova e si recò a Roma, dove fu assegnato alle bande dei Castelli Romani. Dopo appena quaranta giorni ne diventò il comandante militare, su nomina del Cln. Il 16 novembre i genitori, che si nascondevano a Genova col falso nome di coniugi Parodi, vennero catturati dai nazisti. Il 6 dicembre furono deportati ad Auschwitz, da dove purtroppo non fecero ritorno.
Il titolo del libro (Il Ponte Sette Luci) prende lo spunto dall’azione militare più clamorosa realizzata dalla Resistenza romana. Nella notte di pioggia tra il 20 e il 21 dicembre la banda dei Castelli Romani, con la collaborazione del Fronte Militare Clandestino, portò a termine un’azione spettacolare dal punto di vista bellico. Vennero fatti saltare in aria, quasi nello stesso momento, un convoglio carico di esplosivi sulla Roma-Cassino, nei pressi di Labico, e il ponte Sette Luci della ferrovia Roma-Formia, a circa 25 km da Roma, mentre vi transitava un treno carico di militari tedeschi, provocando circa 400 tra morti e feriti. Gli ordigni per gli attentati e le informazioni sui treni erano stati forniti da Giuseppe Montezemolo.
La paternità dell’azione, per prudenza, fu avvolta da segreto: il Cln non ne diede notizia sulla stampa clandestina e i tedeschi, persuasi che i partigiani italiani non erano così efficienti da compiere azioni di belliche di tale portata, la attribuirono ai paracadutisti inglesi.
Pino Levi Cavaglione nel suo diario così scrisse: «No, dannati tedeschi, questa volta il colpo non vi è venuto dal cielo, non vi è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme. E vi odiamo, vi odiamo a morte».
Trasferito a Zagarolo e a Palestrina, l’intrepido avvocato conobbe Aldo Finzi, sottosegretario agli interni di Mussolini ai tempi del delitto Matteotti, che collaborò con lui e con la Resistenza. Finzi il 24 marzo 1944 verrà ucciso alle Fosse Ardeatine, assieme a Marco Moscati, catturato a Roma, dove si era recato per recuperare un carico di armi.
Dopo la liberazione, Pino Levi Cavaglione diventò funzionario dell’Alto Commissariato per l’epurazione di Genova. Nel 1946 sposò Margherita Garello, con la quale ebbe due figli: Marco (come l’amico del cuore Moscati) e Maura. Avvocato, militò nel Pci, fino all’invasione delle truppe sovietiche in Ungheria nel 1956, che lo indussero a lasciare il partito e ad iscriversi al Psi.
Nel 1945 uscì la prima edizione del suo diario, «Guerriglia nei Castelli romani», ristampato due volte. Lo recensirà anche Cesare Pavese, con le seguenti parole: «le sue scene hanno davvero l’incredibile verità di un documento fotografico». Il film «Un giorno da leoni» di Nanni Loy s’ispirerà proprio all’azione del Ponte Sette Luci e alle pagine di Pino, mirabile esempio di un racconto della Resistenza senza l’aurea del mito.
Anche la sua avventurosa vita, come quella di Primo Levi, si concluderà prima del tempo, per sua stessa mano, il 27 febbraio 1971.

(L'Unione Informa, 12 dicembre 2012)

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Storie – Il «marrano» che finì ad Auschwitz

di Mario Avagliano

Nella prima edizione del 1905 del suo celeberrimo «Dizionario moderno» Alfredo Panzini definitiva «marrano» l’ebreo convertito al cristianesimo, «poco fidato perché in segreto fedele al giudaismo». Un termine usato in senso dispregiativo e che era rivelatore di una certa dose di antisemitismo già presente nella cultura e nella società italiana del primo Novecento.
L’utilizzo in senso dispregiativo fu accentuato alla fine degli anni Trenta, quando diversi ebrei italiani o residenti in Italia, prima e dopo l’approvazione delle leggi razziste di marca fascista, si battezzarono, oppure ancora minorenni furono battezzati dalle famiglie, non certo per solide convinzioni religiose ma nel solo intento di sfuggire alle persecuzioni. Un’illusione, perché l’antisemitismo aveva radici biologiche più che fideistiche o spirituali. E tanti ebrei convertiti finirono ugualmente ad Auschwitz.

Una di queste storie, come scrive Luigi Accattoli nel suo blog, è raccontata da Bruno Bartoloni, vaticanista di lungo corso per il Corriere della Sera, nel libro «Le orecchie del Vaticano» (Mauro Pagliai editore, pp. 252). Figlio di un giornalista italo-argentino (anche lui corrispondente dalla Santa Sede) e di un’ebrea tedesca, Bartoloni narra che il «nonno Fritz divenne un “marrano” insieme a mia nonna Hilde nella speranza di salvarsi. Avevano seguito l’esempio di mia madre Marianne che per potersi sposare con mio padre si era fatta battezzare dal cardinale Eugenio Pacelli (…). Si fecero battezzare ma so per certezza che fu per necessità. Fui battezzato anch’io per la stessa necessità e non certo per mia scelta.
Dopo l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi, il nonno Fritz per intercessione del Vaticano si nascose presso i collegi pontifici, nelle vicinanze di Santa Maria Maggiore. Lì fu catturato dalla banda Koch nel corso della retata del dicembre 1943, che portò al fermo di alcuni oppositori politici e di alcuni ebrei, poi deportati dai nazisti in Polonia. Bartoloni riassume così il suo dramma: «Lo sfortunato Fritz Warschauer dovette fuggire da Berlino perché ebreo, si dovette nascondere a Roma perché ebreo, trovò un rifugio perché cattolico ma fu preso come “politico” e morì ad Auschwitz bollato due volte con il duplice marchio di ebreo e di oppositore politico».
Un dramma individuale che ha spinto il nipote a «recuperare con orgoglio il nobile titolo di marrano», facendo coincidere con il 7 luglio 1944 il giorno della sua integrazione «in questa sospetta categoria». Infatti fu proprio in quel giorno, «voglio credere al tramonto», che il nonno materno di Bruno, il tedesco Fritz Warschauer, morì di stenti nel blocco 19 di Auschwitz. «Da quel 7 luglio dunque sono tornato a essere un ebreo, anche se marrano come mio nonno. Recuperare l’identità ebraica mi è sembrato un piccolo contributo di riparazione ideale all’intreccio di violenze e di ingiustizie delle quali mio nonno è stato vittima, compresa la mortificazione di farsi battezzare, spinto dal ricatto di una possibile sopravvivenza».

(L'Unione Informa, 18 dicembre 2012)

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Storie – Sam Pivnik e le storie infinite di Auschwitz

di Mario Avagliano

Auschwitz ha smesso di parlare all'oggi? No, e forse non lo farà mai. E fin quando ci saranno sopravvissuti o parenti prossimi di coloro che sono finiti dentro quell'inferno, continueranno ad emergere storie dalla "notte e nebbia" del passato, infrangendo la direttiva nazista che voleva cancellare dalla faccia della terra ogni traccia del passaggio nei lager di milioni di esseri umani.
Una di queste vicende, mai prima di ora raccontate, è quella di Sam Pivnik, figlio di un sarto ebreo, nato a Bedzin in Polonia, che il 1° settembre 1939, giorno del suo tredicesimo compleanno, quando i nazisti invadono il suo Paese, vede spazzata ogni possibilità di futuro. Da quel momento, si legge in «L’ultimo sopravvissuto» (Newton Compton Editori, 326 pagine), il suo libro di memorie appena uscito in Italia, cessa la sua vita normale: conosce il ghetto, i divieti imposti dai tedeschi, il coprifuoco, gli stenti, il terrore per le strade. A seguito di un rastrellamento, tutta la sua famiglia viene deportata ad Auschwitz-Birkenau. Lui è l’unico, insieme al fratello Nathan, a sfuggire alle camere a gas.
Quando Mengele passa in infermeria a selezionare gli ebrei destinati alla morte, il suo dito punta verso il ragazzo polacco, ma Sam si butta ai suoi piedi, inonda di lacrime i suoi stivali, piange, pregandolo di risparmiarlo o di ucciderlo con un colpo di pistola, invece di mandarlo nelle camere a gas. E incredibilmente Mengele lo lascia in vita.
Sopravvissuto alle crudeltà delle SS e dei Kapo, ai lavori forzati nella miniera Fürstengrube e alla “marcia della morte” nel rigido inverno polacco, Sam è infine il 3 maggio 1945 tra i prigionieri sulla nave Cap Arcona, bombardata dalla Royal Air Force, convinta che fosse carica di soldati nazisti che tentavano di fuggire in Norvegia. Ma ancora una volta, miracolosamente, riesce a salvarsi.
Nel dopoguerra Sam si trasferirà a Londra dagli zii e parteciperà alla guerra d’indipendenza del 1948, come membro del Machal, i Volontari per Israele.
Resta da chiedersi perché ha raccontato la sua storia soltanto ora. “E’ una domanda semplice, ma la risposta non lo è – scrive lui stesso -. Quando sono arrivato a Londra dopo la guerra nessuno voleva più sentire di quello che era successo (…) La coscienza mi chiese di dimenticare, di costruirmi una nuova vita, Quello che voi leggerete una o magari due volte in questo libro è ciò che io rivivo ogni giorno e ogni notte della mia vita. Come ogni altro sopravvissuto all’Olocausto. Non è una lamentela. Non lo faccio per essere compatito. È un fatto. E un altro fatto è che un giorno ho capito che dovevo raccontare questa storia. Ufficialmente e poi stamparla. Perché ogni storia dell’Olocausto dovrebbe essere raccontata”.

(L'Unione Informa, 25 dicembre 2012)

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Storie – Rita Levi Montalcini e gli italiani “brava gente”

di Mario Avagliano

Rita Levi Montalcini non fu solo una straordinaria scienziata. Lei che aveva conosciuto l’infamia delle leggi razziali e nel 1938, da giovane ricercatrice, era stata costretta dal regime fascista ad emigrare in Belgio, per tutta la vita riservò una parte del suo impegno alla politica e alla riflessione etica. Piero Banucci, su «La Stampa» di ieri, ha proposto un’intervista inedita risalente al 1988. Vale la pena rileggerne alcuni brani.

Scopriremo che Rita Levi Montalcini riteneva attuale “essere antifascisti”: «Significa mantenere vivi quei valori che si stanno perdendo da parte dei revisionisti. Oggi non c’è da opporsi a una persecuzione, a una privazione della libertà come avveniva sotto il fascismo. Antifascisti dovremmo esserlo tutti. Purtroppo non è così. Il fascismo è stato la distruzione di tutti i valori morali. Un revisionista per esempio è lo storico Renzo De Felice. Per lui siamo stati tutti uguali, tutta brava gente, tanto vale passare una spugna su tutto. Un momento: io dico no, ci sono i bravi e i cattivi. Primo Levi è stato formidabile nel denunciare il revisionismo. Le cose vanno ancora peggio in Francia. De Felice afferma che l’Italia è fuori dall’ombra dell’olocausto. Non è affatto vero. Sono amareggiata da queste affermazioni. Oggi, nel 1988, antifascismo è avere dei principi etici».
E sul pericolo di razzismo, così si esprimeva: «Il razzismo è sempre in agguato. In molte parti del mondo si assiste a persecuzioni non diverse da quelle che abbiamo avuto in Europa mezzo secolo fa. Ci sono ritorni di antisemitismo, persino in Italia. Tutto ciò denota un basso livello di valori etici. I razzisti sono persone frustrate, che pensano di rivalersi perseguitando persone che ritengono inferiori. Questi rigurgiti del passato non mi toccano, ma mi addolorano».

(L'Unione Informa, 1° gennaio 2013)

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Storie – Quel treno che arriva dall’inferno dell’Europa del 1942

di Mario Avagliano

Giugno 1942. Un treno carico di militari dell’Armir, il corpo di spedizione italiano in Russia, partito da Bologna e diretto a Stalino, in Ucraina, incrocia alcuni convogli di civili che viaggiano in senso opposto. Il sottotenente genovese Enrico Chierici, della Sezione fotografi dell’Ottava Armata, filma la scena con la sua cinepresa personale, formato 9,5. Il filmato, della durata di 20 minuti, restaurato da Home Movies, l’archivio nazionale del film di famiglia, con la collaborazione dell’Istituto Parri, è stato presentato nel capoluogo emiliano il 12 gennaio.

Le immagini inedite arrivano dal cuore dell’Europa durante il secondo conflitto mondiale. A Bobruisk, in Bielorussia, il treno è piantonato da soldati tedeschi. Sui vagoni e sul marciapiede s’intravedono diverse famiglie: uomini, donne, ragazzi. Si tratta di ebrei? O di deportati civili? La mancanza della stella gialla sugli abiti e il fatto che i carri non siano piombati, ha dichiarato Marcello Pezzetti a Paolo Brogi sul “Corriere della Sera”, porterebbe ad escludere la prima ipotesi.
Comunque sia, questo filmato che spunta dal lontano passato è l’occasione per aprire una questione storiografica interessante. Nei territori dell’ex Unione Sovietica i nostri militari vennero per la prima volta a contatto con il dramma della Shoah e con la violenza dei tedeschi nei confronti degli ebrei. E quando tornarono a casa, rivelarono ai familiari e ai commilitoni quello che avevano visto: fucilazioni, deportazioni, stragi.
Le informative degli agenti dell’Ovra, gli spioni del regime, testimoniano abbondantemente le parole dei soldati italiani al loro rientro in patria. Anche attraverso questa fonte diretta (oltre che dalle relazioni di alcuni diplomatici), il regime di Mussolini conosceva la sorte degli ebrei che finivano nelle mani dei nazisti.
E a quanto pare l’archivio del fotografo Chierici, scomparso nel 2001, contiene nuovo materiale ancora da esaminare. Altre storie da quegli anni terribili, altri volti, altre immagini dell’Europa funestata dalla guerra, dalla crudeltà e dall’antisemitismo.

(L'Unione Informa, 15 gennaio 2013)

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