L’infamia della “razza”

di Stefania Miccolis

«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». È il settimo punto del documento ‘Il fascismo e i problemi della razza’, conosciuto anche come il Manifesto della razza, del luglio 1938, e la prima frase del libro “Di pura razza italiana” (Baldini&Castoldi) di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Una frase per la quale dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Il libro ha iniziato il suo percorso istruttivo già da un anno, non solo nelle scuole, che si spera ne facciano largo uso: gli italiani sono stati e sono ahimè “francamente razzisti”, e non è vera quella pseudo-coscienza comune che ci libera da ogni peccato, quell’istinto ponziopilatesco che si insinua in ogni occasione che fa dell’italiano “brava gente”, perché durante il fascismo – e poi con gli atti vandalici che si sono susseguiti e si susseguono fino ai giorni nostri – l’italiano è stato spesso antisemita.

Il miglior luogo per plasmare le menti è sicuramente la scuola, dove i futuri cittadini si devono formare, la concezione totalitaria della dittatura fascista lo sapeva bene, quindi i proclami del Manifesto della razza, sono introdotti nell’ordinamento giuridico italiano nel giro di poco tempo (circa 180 provvedimenti in cinque anni), cominciando soprattutto dalla scuola, concepita in maniera tale che non ci fosse posto per gli ebrei, né sulle cattedre, né tra i banchi, né sui libri di testo. Nel libro scorrono i nomi di noti intellettuali, giornalisti, uomini di cultura che accettarono le leggi razziali e scrissero articoli razzisti nelle colonne di diversi giornali dell’epoca. Dopo la guerra assunsero ruoli e cariche importanti anche politiche, dichiarandosi ferventi democratici e tendenzialmente di sinistra. Avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa, ma non ci riuscirono o non vollero. Norberto Bobbio ci aiuta a capire: quando in un bar di Padova trovò un cartello che impediva agli ebrei di entrare, avrebbe voluto strapparlo, ma non ne ebbe il coraggio: “Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?». Pochi gli intellettuali che non firmarono le schede di autoclassificazione razziale; fra questi Benedetto Croce di cui vale la pena riportare le parole della sua netta ripulsa verso il censimento: «L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».

È interessante inoltrarsi nel dibattito sull’arte: i fratelli De Chirico, essendo israeliti, non potevano essere futuristi e dovranno difendersi dalle accuse. Alberto Savinio scriverà: «Tanto mio fratello quanto io, che abbiamo l’ambizione di considerarci artisti, preferiamo che le nostre qualità di razza siano dedotte dal carattere delle nostre opere, piuttosto che dai rami del nostro albero genealogico». Ma non tutti avranno la parola ed emigreranno, con la inevitabile perdita di cervelli che solo parzialmente verrà recuperata. È un immenso piacere scoprire grazie alla polizia di regime che li controllava, che i due fratelli De Filippo «mettono in giro delle barzellette che suonano di offesa al Capo del Governo e al Fascismo» e «criticano continuamente gli operati del Regime». Ma molti erano gli uomini di spettacolo che non esitarono a dichiarare la loro razza ariana per continuare a lavorare. Stupisce la presa di posizione di Giovanni Gentile convinto fascista, che dichiarerà di esser contro «il razzismo e i suoi inammissibili riferimenti biologici» e per tutto il periodo razziale aiuterà in diverse occasioni conoscenti ebrei; il 29 agosto 1938 andrà perfino in udienza da Mussolini a Palazzo Venezia per esprimergli perplessità sulle misure contro gli ebrei. Insomma ci sono stati casi in cui si è dimostrato dissenso e solidarietà, ma casi isolati, in ambito privato, che non hanno scalfito il blocco compatto di consenso degli italiani ariani alle leggi razziali.

Per l’approfondita ricerca i due autori si sono avvalsi di documenti dell’archivio di Stato con i fondi del Pnf e del Minculpop, dei documenti e dalla corrispondenza della burocrazia, di diari ed epistolari di persone comuni, della stampa dell’epoca, di lettere inviate al Duce perché venga eliminata la stirpe ebraica. Riaffiorano tra le pagine i delatori, gli sciacalli approfittatori. Viene sfatato con prove documentate che tolgono ogni dubbio su supposizioni ed errori, quel “giudizio assolutorio”, il subire passivamente, quella “non simpatia” degli italiani verso le leggi antisemite, giudizio che la storiografia condividerà a lungo. L’ondata di antisemitismo ha pervaso il paese, nel suo tessuto sociale e culturale; “Di pura razza italiana” certifica, come scrivono Avagliano e Palmieri, che “gli ebrei furono condannati alla morte civile e privati dell’uguaglianza con gli altri cittadini, alla stregua di paria della società italiana”.

(Moked.it, 4 giugno 2015)

Di pura razza italiana - la recensione del Corriere della Sera

Quando l'Italia divenne razzista

di Aldo Cazzullo

Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?». Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime. È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.

I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia. Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).

Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società». Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.
In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.
La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!». Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta». Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.
Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.
I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati — fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.

(Corriere della Sera, 19 novembre 2013)

Pagine Ebraiche - Quando l’Italia diventò razzista

di Daniel Reichel

Il re è nudo, viva il re. Come nella favola di Andersen, in Italia c’è un tema su cui a lungo gli occhi sono rimasti chiusi o lo sguardo è stato distolto: le responsabilità italiane nella Shoah e nella politica antisemita dello scorso secolo. Italiani brava gente, racconta la vulgata. Le leggi razziste del 1938 da noi in fondo furono applicate all’acqua di rose. Insomma, un’amnistia generalizzata delle proprie responsabilità di fronte alla storia. “Di pura razza italiana -La reazione degli italiani «ariani» ai provvedimenti contro gli ebrei (1938-1943)” di Mario Avagliano e Marco Palmieri, libro edito da Baldini e Castoldi presentato ieri a Roma, decostruisce il pensiero diffuso dell’innocenza italiana nella persecuzione antiebraica. “Dal nostro lavoro è venuta fuori un’Italia piccola, in cui sciacallaggi, delazioni, campagne antisemite, indifferenza erano regola più che eccezione”. Il re è nudo, gridava sbigottito il bambino di Andersen, risvegliando i suoi concittadini dall’ipocrisia. Il re è nudo denunciano oggi Avagliano e Palmieri.

Attraverso una approfondita ricerca d’archivio lungo tutta la penisola, gli autori, come sottolinea il giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, “smascherano la falsa vulgata sul fascismo buono, sulla dittatura da operetta e il Mussolini bravo fino all’errore dell’alleanza con i nazisti”. A riflettere sullo squarcio che questo libro apre sull’autoassoluzione collettiva verificatasi nel nostro paese, con gli autori e Cazzullo, il giornalista Roberto Olla e lo storico Amedeo Osti Guerrazzi. In apertura l’intervento del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici che ha chiesto da parte delle istituzioni una presa di coscienza forte, “l’Italia non ha mai chiesto scusa agli ebrei. In Germania e in Francia è stato fatto. E’ il momento che anche il nostro paese faccia questo passo”.

Un'Italia che nel 1938 rimase inerte e passiva davanti all’introduzione delle leggi razziste. “Alla Camera fu approvato per acclamazione – ha ricordato Pacifici – mentre al Senato di fatto nessuno si oppose”. Nel silenzio generale l’Italia tradiva la minoranza ebraica. E non fu un atteggiamento semplicemente passivo: ci fu, come racconta Di pura razza italiana, chi con zelo mise in pratica la normativa antiebraica, persino prima che fosse ufficializzata sulla Gazzetta Ufficiale il 19 novembre di 75anni fa. Aziende che licenziavano dipendenti, maestre che cacciavano bambini dalla classe, sciacalli che depredavano negozi, delatori che denunciavano vicini o concorrenti, il tutto davanti a un esercito di indifferenti.

“Una galleria degli orrori dimenticata – nella definizione di Osti Guerrazzi – L’Italia ha accettato le leggi razziste ma non ha mai accettato di essere razzista. Commercianti, burocrati, pseudoscienziati e intellettuali si prestarono alla campagna antisemita, chi motivato dall’ideologia chi per far carriera”. Attraverso le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf, due anni di ricerca nelle sezioni dell’Archivio di Stato, Avagliano e Palmieri ricostruiscono un volto diverso dell’Italia di allora: un paese meno innocente da quanto si professerà poi nel dopoguerra, colluso, responsabile o comunque sordo alla sofferenza dei concittadini ebrei. Ci furono delle eccezioni ed è giusto ricordarle ma furono appunto eccezioni. Invece si impose il filone di pensiero, sposato dallo storico Renzo De Felice, di “italiani brava gente”; che il popolo in fondo non ebbe nessun ruolo nella Shoah, di cui furono unici responsabili i nazisti.

Con la caduta del fascismo non si ebbe la presa di coscienza e l’analisi che in Germania ha portato alla piena consapevolezza delle proprie responsabilità. Nella sintesi di Olla, gli italiani che non furono antifascisti si identificarono nei “non antifascisti”: una terza via per evitare di confrontarsi con il passato. Su questa ambiguità rimasta in piedi per decenni, si inserisce l’opera che, sottolinea Avagliano, è nata dall’impulso di Michele Sarfatti, tra i massimi studiosi del tema della persecuzione. “E’ stato lui a proporci di analizzare le reazioni dell’opinione pubblica non ebraica”. E così è venuto fuori un lavoro che desta grande impressione e indignazione. “Leggendo il libro emerge forte il senso di indignazione degli autori per il materiale, i documenti, le testimonianze recuperate – ha affermato Olla – Un’indignazione più che condivisibile”.

“E’ importante abbattere il muro di silenzio che circonda il periodo storico che abbiamo preso in considerazione – ha affermato Marco Palmieri nell’arco della presentazione – e per questo è importante divulgare nelle scuole e tra gli studenti testi e fonti che aiutino i giovani ad avere gli strumenti critici per analizzare il passato. A maggior ragione di fronte alla proliferazione su internet di materiali senza alcun fondamento storico. C’è già stato un vuoto di memoria e ora dobbiamo colmarlo prima che il tempo si dilati ancora”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 21 novembre 2013)

La recensione di Shalom: "E nel 1938 gli italiani si scoprirono di pura razza ariana"

«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Così recitava il Manifesto della razza che nel luglio 1938, dopo una virulenta propaganda sui giornali, ufficializzò la svolta antisemita dell’Italia fascista. Tra settembre e novembre di quello stesso anno il regime passò dalle parole ai fatti, varando le cosiddette leggi razziali che equivalsero alla «morte civile» per gli ebrei, banditi da scuole, luoghi di lavoro, esercito, ed espropriati delle loro attività.
La bella gioventù dell'epoca (universitari, giornalisti e professionisti in erba) rappresentò l'avanguardia del razzismo fascista. Molti di loro avrebbero costituito l'ossatura della classe dirigente della Repubblica, cancellando le tracce di quel passato oscuro. Non a caso, per lungo tempo la persecuzione è stata declassata dalla memoria collettiva, e da una parte della storiografia, a una pagina nera che gli italiani, in fondo «brava gente», avrebbero subìto passivamente.
Per restituirci un’immagine quanto più veritiera possibile dell’atteggiamento della popolazione italiana di fronte alla persecuzione dei connazionali ebrei, Mario Avagliano e Marco Palmieri, nel saggio "Di pura razza italiana". L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), hanno compiuto una ricognizione di un’enorme mole di fonti (diari, lettere, carteggi burocratici e rapporti dei fiduciari della polizia politica, del Minculpop e del Pnf) dal 1938 al 1943.

Ne è emersa una microstoria che narra un «altro Paese», fatto di persecutori (i funzionari di Stato), di agit-prop (i giornalisti e gli intellettuali che prestarono le loro firme), di delatori (per convinzione o convenienza), di spettatori (gli indifferenti) e di semplici sciacalli che approfittarono delle leggi per appropriarsi dei beni e le aziende degli ebrei. Rari i casi di opposizione e di solidarietà, per lo più confinati nella sfera privata. Una microstoria che ribalta il netto giudizio assolutorio degli italiani formulato nel 1961 da Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, che è stato a lungo condiviso da larga parte della storiografia.
Leggendo gli stralci dei documenti d’archivio, dei rapporti di polizia, delle relazioni dei fiduciari del regime, dei diari e delle lettere dei persecutori e delle vittime, pubblicati nel saggio di Avagliano e Palmieri, risulta infatti che complessivamente in quegli anni bui, tra il 1938 e il 1943, milioni di persone si scoprirono di pura razza italiana e i provvedimenti razziali riscossero il consenso maggioritario della popolazione, talvolta convinto, talvolta indotto dall’efficace campagna di propaganda, talvolta infine dovuto a ragioni di opportunismo. E non mancarono episodi di violenza verbale o fisica, soprattutto dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
L’atteggiamento degli italiani “ariani” contribuì a rinchiudere gli ebrei italiani in un nuovo ghetto, dopo l’emancipazione del Risorgimento. Un ghetto invisibile, le cui mura erano costituite, oltre che dalla privazione dei diritti civili e sociali, dalle umiliazioni, dai gesti di indifferenza e dagli epiteti scritti o verbali subiti da vicini, colleghi, ex amici, fanatici antisemiti, giornalisti e intellettuali. Una pagina nera della storia italiana su cui ancora non si è fatta pienamente luce e che questo libro finalmente disvela con tragica evidenza e con rigore storico.

(Shalom, n. 9, novembre 2013, p. 36)

La recensione di Pagine Ebraiche: "Italiani, ‘brava gente’ di pura razza"

di Daniel Reichel

“Il capo del Governo è dell’avviso che non si debba parlare di ‘razza’, dato che nel nostro Paese nessuna discriminazione è mai esistita in tal senso ma soltanto la discriminazione di cittadini praticanti la religione ebraica”. Il capo del Governo di cui sopra è il generale Pietro Badoglio e le frasi riportate sono contenute nel verbale della riunione del Consiglio dei ministri dell’8 dicembre 1943. E’ il primo tassello per sigillare dentro all’armadio degli scheletri le responsabilità italiane di fronte alla persecuzione ebraica. In quel “soltanto” si palesa l’intento riduzionista che porterà l’Italia a credersi vittima della guerra. In fondo il nostro fascismo fu all’acqua di rose, i cattivi quelli veri erano i tedeschi, i nazisti. Noi siamo italiani, siamo brava gente, non perseguitiamo gli ebrei. Non la pensano così gli studiosi Mario Avagliano e Marco Palmieri, autori del libro “Di pura razza italiana – La reazione degli italiani ‘ariani’ ai provvedimenti contro gli ebrei (1938-1943)”, edito da Baldini e Castoldi (446 pagine, 18,90 euro). Attraverso una ricostruzione paziente e minuziosa, l’incrocio di documentazioni ufficiali, ufficiose, private, articoli di giornali, gli autori sollevano il mantello polveroso e soffocante di ipocrisia che ha ricoperto il nostro paese: gli italiani, chi per ideologia, chi per opportunismo, chi per indifferenza, aderirono alla campagna di discriminazione contro gli ebrei.

“È la dimensione del fenomeno a essere importante – spiega a Pagine Ebraiche il giornalista e storico Marco Palmieri, membro dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza e della Sissco (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) – c’è un’idea diffusa che le leggi razziste del 1938 furono poco applicate in Italia, ma non è così e a raccontarlo ci sono le circolari ministeriali, le rimozioni documentate degli ebrei dai posti di lavoro, le zelanti lettere di dirigenti scolastici. Un terreno antisemita preparato da una cam- pagna mediatica potente e aggressiva portata avanti da tutti i giornali, da quelli locali ai grandi quotidiani nazionali”. Il libro appare come un grande termometro dell’Italia fascista e sfrutta le centinaia di circolari del ministero, informative delle spie dell’Ovra, degli emissari del Partito nazionale fascista per ricostruire il quadro del sentmento degli italiani di fronte all’antisemitismo. Lo stesso materiale che Mussolini, nel suo essere totalitario, raccoglieva per controllare gli animi della popolazione, un’informazione di massa e dalla massa. Tutto veniva tenuto sotto controllo e da queste documentazioni emerge un volto dell’Italia diverso da quello che verrà poi dipinto nel dopoguerra. Scandagliando un “paniere di fonti”, nella definizione di Palmieri, gli autori mettono insieme un imponente archivio di prove della pervasività della dialettica antisemita nei diversi strati della società italiana. Prove che in un ipotetico processo avrebbero inchiodato l’imputato Italia alle sue responsabilità. “Ma noi non abbiamo avuto una nostra Norimberga – sottolinea Avagliano, anche lui sia storico che giornalista – il nostro processo di epurazione del fascismo è stato una barzelletta, una struttura intera ha praticamente proseguito indenne dal regime alla Repubblica”. Un esempio? Il caso di Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della Razza, che nel 1957 fu nominato presidente della Corte Costituzionale. Un garante perfetto, verrebbe da dire, per i principi democratici enunciati dalla nostra Costituzione. Nemmeno gli intellettuali faranno sentire la loro voce. Emblematiche le affermazioni – riportate nel libro – di Norberto Bobbio: “Nella città dove allora insegnavo (Padova), durante la guerra, apparve nel bar che frequentavo un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei. ‘Adesso strappo quel cartello’, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne ho avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?”. Purtroppo non fu solo passività ma furono tanti gli episodi di cinica e entusiastica adesione da parte dei diversi settori della società. “Difficile commentare – riporta Palmieri – l’atteggiamento di alcune maestre di scuola che si accaniscono nei confronti di bambini della propria classe perché ebrei. Altro capitolo doloroso è quello dei suicidi”. Il libro infatti riporta infatti le terribili storie di ebrei che, spinti dalla disperazione e oppressi dalla persecuzione quotidiana, arrivano fino all’estremo gesto. “La diffusione delle voci sui suicidi per disperazione – scrivono gli autori – è tale che la polizia si sente in dovere di spiegare che ‘sono messe in giro dagli stessi ebrei, o da ariani filo- ebrei. Ogni tanto – per esempio – si sente dire del suicidio di qualche ebreo, e poi il giorno dopo… lo si vede invece girare, sanissimo per la città! Lo scopo, è evidentemente quello di allarmare, suscitando l’indignazione del pubblico contro il Regime’”. Non si sottraggono alla campagna diffamatoria i giornali, dal Corriere della Sera a La Stampa, fino al Gazzettino, dove compaiono, in un bombardamento costante, articoli al vetriolo contro il traditore giudeo. Ed è il caso di dire “scripta manent”, perché l’operazione di Avagliano e Palmieri si argomenta su pagine stampate dei giornali così come di materiale coevo, raccolto attraverso una ricerca durata oltre due anni nelle sezioni dell’archivio di Stato disseminate nel paese. “Dal punto di vista storiografico – riflette Palmieri – un lavoro diretto sulle fonti ti mette al riparo da eventuali smentite”. E così quegli scheletri chiusi nell’armadio della memoria italiana, riprendono forma, vengono fuori in attesa che via sia una presa di coscienza collettiva sulla partecipazione alla discriminazione e persecuzione antiebraica. L’opera di Avagliano e Palmieri è un passo importante in questo senso, ora davvero non ci si può più nascondere per procedere a una autoassoluzione.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2013)

La recensione di Italia Oggi: "Le leggi razziali non furono col cuore in mano. I primi a sostenerle furono gli intellettuali. Ecco un elenco di nomi molto imbarazzante"

di Diego Gabutti

Banalizzare le leggi razziali del fascismo è un classico per chi rivendica l'eredità di Mascellone. Be', dicono, c'erano queste benedette leggi razziali, okay nessuno però le rispettava.
Erano state pensate per compiacere Hitler, ma le stesse autorità fasciste, per non parlare degl'italiani qualsiasi, ci scherzavano sopra, le prendevano sottogamba. Erano una specie di salto nel cerchio di fuoco: un pegno da pagare alla scenografia imperiale, come il fez e la camicia nera, come il saluto romano e l'A Noi. Gli ebrei stessi, quasi non s'accorsero delle leggi razziali. Se è impossibile, come diceva il Dux, governare gl'italiani, figurarsi se è possibile trasformarli, via lavaggio del cervello, in persecutori e assassini d'ebrei.
Eppure fu esattamente quel che successe, come raccontano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Di pura razza italiana. L'Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini e Castoldi 2013, pp. 446, 18,90 euro; ebook, 5,99 euro). Non è il primo libro sulle leggi razziali. Ce ne sono stati parecchi altri, a partire dalla classica Storia degli ebrei sotto il fascismo di Renzo De Felice, Einaudi 2005, uscito in prima edizione nel 1961. Qualche tempo fa, per stare agli ultimi titoli usciti, Paolo Simoncelli ha pubblicato un bel saggio su Giovanni Gentile e le leggi razziali: «Non credo neanch'io alla razza». Gentile e gli ebrei, Le Lettere 2013, pp. 238, 16,50 euro (Gentile, racconta Simoncelli, non era antisemita, e fece anzi il possibile per aiutare gli ebrei con i quali lavorava, anche se non «si lasciò mai andare a esternazioni pubbliche, che, dato il suo peso intellettuale, avrebbero certo avuto eco e peso notevole», postillano Avagliano e Palmieri). È da leggere anche America nuova terra promessa. Storie d'ebrei italiani in fuga dal fascismo di Gianna Pontecorboli (Brioschi 2013, pp. 192, 15,00 euro): il racconto d'una diaspora, che non fu solo tedesca, ma anche italiana. Tutti libri importanti, ma Di pura razza italiana è il primo che sgombri definitivamente il campo dalle banalizzazioni correnti. Idee di panna montata: gl'italiani non furono mai crudeli con i giudei salvo rare eccezioni e, quanto poi a Benito Mussolini, il Dux era notoriamente un «buonuomo», mica un tiranno, tanto che mandava in ferie pagate, «al confino», i suoi avversari politici (come ha detto una volta Berlusconi, che deve avere un po' troppo bazzicato Indro Montanelli, grande banalizzatore del fascismo, prima che il partito di plastica li dividesse). Avagliano e Palmieri dicono esattamente quel che c'è da dire sugl'italiani: che non sono affatto «brava gente», qualunque cosa dicano di se stessi.
Gl'intellettuali furono naturalmente i primi a unirsi con fervore alla campagna antisemita: «Scienziati, accademici, editori, letterati, scrittori, giornalisti e artisti si prestarono a fare da agitprop della campagna razzista contro i neri e gli ebrei. Alcuni sono già noti al grande pubblico, per esempio Guido Piovene, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari. La ricerca archivistica e bibliografica ha consentito di individuarne altri: Enzo Biagi, Antonio Ghirelli, Giulio Carlo Argan, Concetto Pettinato, Giovanni Spadolini, Mario Missiroli, Maria Luisa Astaldi, Aldo Capasso, Alfio Russo. Un elenco certamente incompleto. In linea generale per gli intellettuali resta valido il giudizio di De Felice: troppi uomini di cultura videro nella legislazione antisemita «una maniera per mettersi in mostra, far carriera, fare soldi, per sfogare i loro rancori e le loro invidie contro questo o quel collega». Ma sarebbe limitativo ritenere che la loro adesione al razzismo di Stato fu dovuta per lo più a conformismo, acquiescenza, opportunismo o viltà». Tra loro «vi è chi sostenne le tesi razziste in modo convinto». Ma non furono soltanto gl'intellettuali a scatenarsi contro gli ebrei italiani. S'unirono al pandemonio funzionari statali, imprenditori, giuristi e magistrati, l'intero corpo insegnante, avvocati e persone comuni. Soprattutto persone comuni. Bastò un rapido shampoo al cervello per trasformare gl'italiani in antisemiti attivi e passivi: gli attivi scrivevano «vietato l'ingresso ai cani e agli ebrei» sulla vetrina delle loro botteghe, i passivi lasciavano fare o si lamentavano sottovoce tra amici. Nessuno sembrò cogliere la dimensione apocalittica dell'antisemitismo fascista. Avagliano e Palmieri raccontano tutta la storia in un libro straordinario. Non è soltanto un libro sugli orrori e le infamie del fascismo. È anche un libro sull'Italia e sugl'italiani, gente facilmente reclutabile sotto le peggiori bandiere, come si è visto negli ultimi settant'anni, anche dopo il fascismo. C'era qualcosa dell'odio antisemita nell'amore per i tiranni da parte del cosiddetto «popolo di sinistra» negli anni Cinquanta e Sessanta. C'è qualcosa d'antisemita, un tocco cioè di «superiorità antropologica», anche nell'antiberlusconismo chic, come pure nella bava alla bocca dei grilliti. Vale anche per questi fenomeni d'intolleranza politica e culturale la definizione che i socialisti viennesi davano dell'antisemitismo a cavallo tra l'Otto e il Novecento: il socialismo degl'imbecilli.

(Italia Oggi, 5 dicembre 2013)

 

La recensione della Gazzetta del Mezzogiorno: "Quando in Italia si 'vigilava' sugli ebrei"

di Michele Pacciano

Il 5 dicembre 1937 il Prefetto di Bari emana la circolare che ha per oggetto «Misure di vigilanza contro attività sovversive», in cui invita le forze di polizia del territorio a vigilare sugli ebrei, considerati «Setta perniciosa, disseminata in tutto il Mondo, mossa da interessi economici», che «conduce – come è noto – una lotta accanita, aperta contro il Nazismo tedesco e subdola contro il Fascismo» Proprio da questo primo atto semiufficiale, proprio qui in Puglia, cominciò sottotraccia la persecuzione degli ebrei italiani che avrebbe portato alle leggi razziali e alla Shoah.
A 75 anni di distanza, quel periodo e quegli atti rimangono una ferita ancora aperta. Siamo sicuri, noi italiani, di non essere stati razzisti, di non essere stati conniventi, o peggio delatori, siamo sicuri di aver fatto tutto il possibile, come popolo e come individui per evitare che si arrivasse alla tragedia della Shoah? E soprattutto, siamo sicuri che il Sud sia stato quell'isola felice, che tanta storiografia si è affrettata ad abbozzare? I documenti dell'Ovra, la polizia politica fascista, ci raccontano un'altra storia: una storia di omissioni e delazioni, di comportamenti discriminatori che l'uomo comune attuava, sapientemente fomentato dalla propaganda per isolare,ostracizzare e poi deportare gli ebrei italiani.
Auschwitz non fu un fulmine a ciel sereno né una tragedia subita da inerti cittadini schiacciati dalla furia nazista, fu invece una pagina nera sapientemente orchestrata dal regime ma anche accettata e condivisa dalla maggior parte della nazione. Troppe volte si è indugiato sull'eroico ruolo dei giusti che al costo della vita hanno salvato,uno, 100 o 1000 ebrei, sorvolando sull'atteggiamento di chi non solo non reagiva ma approvava e collaborava. A fare luce su questo periodo infamante del nostro passato recente, contribuisce ora l'opera degli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri. Nell'anniversario della proclamazione delle leggi razziali, il saggio "Di pura razza italiana", (Baldini & Castoldi ed. pagg 446, Euro 18,00) apre uno squarcio inquietante nella nostra memoria rimossa, sfatando luoghi comuni e comode verità. Gli italiani non furono tutti brava gente, ma per paura, calcolo convenienza, divennero parte attiva delle persecuzioni in un drammatico quadro nazionale, la Puglia diventa prima avamposto e poi retrovia di quel razzismo antiebraico che da latente divenne istituzionale e organizzato. Non mancarono,anche da noi, di gesti di coraggio e di ribellione ma si trattò soprattutto di atti individuali dettati da un forte senso etico più che da un comune sentire. Né valga ad assolverci il fatto che gli ebrei fossero stati espulsi dalla Puglia in dal 1492. l'odio di razza si accanì soprattutto contro gli studenti stranieri e gli esuli di origine ebraica di passaggio sul nostro territorio. Episodi di esecrabile viltà furono compiuti soprattutto a Bari e Taranto ad opera degli esponenti più fanatici del Guf, la gioventù universitaria fascista che si macchiò di varie spedizioni punitive. L'editore Vito Laterza era osservato speciale dell'Ovra, e quando gli chiesero delle sue presunte origini ebraiche, rispose con ironia ai vagheggiamenti burocratici dei suoi persecutori. In queste pagine si pongono interrogativi insoluti, che ci fanno sentire, tutti, un po' meno innocenti.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 21 dicembre 2013)

Di pura razza italiana. L'Italia ariana di fronte alle leggi razziali

"Di pura razza italiana" di Mario Avagliano e Marco Palmieri: la storia della reazione degli italiani "ariani" di fronte alle leggi razziste tra il 1938 e il 1943

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(Baldini & Castoldi, 448 pagine, 18,90 euro)

In occasione del 75° anniversario delle leggi razziali, esce in tutte le librerie il nuovo saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Di pura razza italiana (Baldini & Castoldi, pp. 446, euro 18.90), che per la prima volta in Italia, mette a fuoco la reazione di complicità, indifferenza, opportunismo, e in rari casi di solidarietà, degli italiani “ariani” ai provvedimenti e alla persecuzione antiebraica nel nostro Paese, attraverso una ricognizione ampia e approfondita dei documenti coevi da tutta Italia, quali diari, lettere, denunce, articoli di giornale e relazioni fiduciarie. Un libro potente di denuncia. Una lettura necessaria.

 

Dalla recensione di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera:

«Pagine emozionanti, che colpiscono e indignano. Una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano».

Massimo Bray, ministro dei Beni culturali: «L’approvazione delle leggi razziali rappresenta, ancora oggi, una ferita aperta e una pagina buia della nostra storia del secolo scorso. A 75 anni dalla loro promulgazione, il volume che oggi viene presentato ha il pregio di voler costituire un ulteriore e prezioso tassello per la ricostituzione di una imprescindibile memoria collettiva, radice di ogni vero spirito democratico e speranza per un futuro di pace, a difesa della persona e dei suoi diritti inalienabili».

Roberto Olla, giornalista e storico: «Un libro necessario, perché il binario su cui correvano le opere di divulgazione su questo tema era troppo stretto nel dualismo fra le leggi razziste volute dal regime da un lato e i giusti italiani dall'altro. Per questo è un libro da divulgare, se vogliamo che il nostro presente faccia i conti col nostro passato».

Amedeo Osti Guerrazzi, storico: «E' un libro estremamente importante e completo, perché sulle leggi razziste c'è stata una immensa rimozione di massa, un oblio condiviso, che ha coinvolto l'intera popolazione e nessuno ha voluto vedere, sapere, capire cosa stava succedendo. Questo volume contribuisce a fare luce sulla galleria degli orrori dell’antisemitismo italiano».

 

Il libro

«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Così recitava il Manifesto della razza che nel luglio 1938, dopo una virulenta propaganda sui giornali, ufficializzò la svolta antisemita dell’Italia fascista. Entro novembre il regime passò dalle parole ai fatti, varando le cosiddette leggi razziali che equivalsero alla «morte civile» per gli ebrei, banditi da scuole, luoghi di lavoro, esercito, ed espropriati delle loro attività. La bella gioventù dell'epoca (universitari, giornalisti e professionisti in erba) rappresentò l'avanguardia del razzismo fascista. Molti di loro avrebbero costituito l'ossatura della classe dirigente della Repubblica, cancellando le tracce di quel passato oscuro.

Non a caso, per lungo tempo la persecuzione è stata declassata dalla memoria collettiva, e da una parte della storiografia, a una pagina nera che gli italiani, in fondo «brava gente», avrebbero subìto passivamente.

Per restituirci un’immagine quanto più veritiera possibile dell’atteggiamento della popolazione di fronte alla persecuzione dei connazionali ebrei, Avagliano e Palmieri hanno compiuto una ricognizione di un’enorme mole di fonti (diari, lettere, carteggi burocratici e rapporti dei fiduciari della polizia politica, del Minculpop e del Pnf) dal 1938 al 1943.

Ne è emersa una microstoria che narra un «altro Paese», fatto di persecutori (i funzionari di Stato), di agit-prop (i giornalisti e gli intellettuali che prestarono le loro firme), di delatori (per convinzione o convenienza), di spettatori (gli indifferenti) e di semplici sciacalli che approfittarono delle leggi per appropriarsi dei beni e le aziende degli ebrei. Rari i casi di opposizione e di solidarietà, per lo più confinati nella sfera privata.

Complessivamente in quegli anni bui milioni di persone si scoprirono di pura razza italiana e i provvedimenti razziali riscossero il consenso maggioritario della popolazione.

 

pallanimred.gif (323 byte) La scheda del libro sul sito della Baldini & Castoldi

pallanimred.gif (323 byte) Un estratto del libro

pallanimred.gif (323 byte) Lo spot del libro

 

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LE RECENSIONI (quotidiani nazionali)

pallanimred.gif (323 byte) Quando l'Italia divenne razzista, Corriere della Sera, di Aldo Cazzullo (19 novembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) A scuola di razzismo, Il Messaggero (19 novembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) "Fuori i giudei", infamie dall'Italia fascista, Il Mattino (19 novembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) "La leggi razziali non furono col cuore in mano. I primi a sostenerle furono gli intellettuali. Ecco un elenco di nomi molto imbarazzante, di Diego Gabutti, Italia Oggi (5 dicembre 2013)

 

TV e RADIO

pallanimred.gif (323 byte) Tg Parlamento - Pagine Politiche (RAI 2), Intervista a Mario Avagliano a cura di Gianni Scipione Rossi (6 gennaio 2014)

pallanimred.gif (323 byte) Uno Mattina (RAI 1), Intervista a Mario Avagliano (17 dicembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) Tg1 Storia (RAI 1), Intervista a Mario Avagliano a cura di Roberto Olla (6 gennaio 2014)

 

LE RECENSIONI (quotidiani locali)

pallanimred.gif (323 byte) Italiani e leggi razziali, una pagina oscura, Gazzetta di Parma (26 novembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) Quando in Italia si vigilava sugli ebrei, Gazzetta del Mezzogiorno, di Michele Pacciano (21 dicembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) In Puglia il primo atto di discriminazione razziale, Corriere del Giorno (4 gennaio 2014)

 

LE RECENSIONI (periodici)

pallanimred.gif (323 byte) E nel 1938 gli italiani si scoprirono di pura razza ariana, Shalom (novembre 2013)

pallanimred.gif (323 byte) Italiani, "brava gente" di pura razza, Pagine Ebraiche, di Daniel Reichel (dicembre 2013)

 

pallanimred.gif (323 byte) Gli autori

Mario Avagliano, giornalista e storico, è membro dell'Istituto Romano per la Storia d'Italia dal Fascismo alla Resistenza (Irsifar), della Società Italiana per gli Studi di Storia Contemporanea (Sissco) e del comitato scientifico dell’Istituto “Galante Oliva”, e direttore del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio. Collabora alle pagine culturali de Il Messaggero e de Il Mattino. Con Einaudi ha pubblicato: Generazione ribelle. Diari e lettere 1943-1945 (2006); Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-1945 (2011) e Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012). Con Baldini&Castoldi ha pubblicato: Il partigiano Montezemolo. Storia del capo della resistenza militare nell’Italia occupata (2012), Premio Fiuggi Storia 2012..

Marco Palmieri, giornalista e storico, è membro dell'Istituto Romano per la Storia d'Italia dal Fascismo alla Resistenza (Irsifar) e della Società Italiana per gli Studi di Storia Contemporanea (Sissco) e collabora col Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma. Con Einaudi ha pubblicato: Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-1945 (2011) e Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012).

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