Libri. ‘L’Italia di Salò 1943 -1945′. Le voci ritrovate della galassia della Rsi

di Renato de Robertis

Idealisti, camice nere ‘22, gentiliani, funzionari di Stato, militari che avevano compreso tutto o capito poco, gente comune, aristocratici anti-americani, giovanotti con il gusto dannunziano dell’azione, uomini e donne che non si riconoscevano in quel sovrano che aveva abbandonato la capitale, uomini realisti alla ricerca di uno stipendio, ausiliare che aiutavano i propri uomini; italiani insomma; solo italiani sicuri o smarriti, perché per loro “si apre un periodo difficile e complesso poiché il governo e la monarchia non hanno fatto granché per preparare concretamente lo sganciamento dall’alleato tedesco.” Poi, venti anni di Stato fascista, bello o brutto, non potevano mica sparire in una lunga sera di luglio. Le scelte da farsi erano tante: da una parte un Badoglio pasticcione, dall’altra un Mussolini stanco. Ma, prima di tutto, gli uomini non riuscivano a bruciare la divisa, non sapevano dimenticare il sangue versato nel deserto o nella steppa ghiacciata.

I ragazzi italiani non accettavano il Si salvi chi può! Come Raimondo Vianello. Il suo colonnello gli disse di scappare in quel 9 settembre del 1943. Nella vita si perde in un attimo; si sta pure dalla parte sbagliata; ma il ragazzo Raimondo non potevano abbandonare la battaglia, “Morti ce ne sono stati da tutte e due le parti, ma chi è andato su, sapeva di finire male. Non va abiurato.” Sono molte le testimonianze storiche ritrovate da “L’Italia di Salò” di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Questa ricerca storiografica ha il merito di scavare tra i diari e gli epistolari, tra le relazioni ufficiali dei ministri e le informative delle polizie, tra la corrispondenza censurata e i notiziari della Repubblica sociale. Colpisce il ricorso alle lettere dei soldati: il ricorso alla storia minore che aiuta a comprendere la grande storia. Ed ecco i militari che si arruolarono, come Emanuele Frezza di Barletta che non concepiva il combattere con altri eserciti dopo aver avuto accanto i tedeschi per tre anni. I partigiani comunque capivano la “buffonata di un Re  e d’un Badoglio che, fuggendo, ordinano la resistenza a un popolo che ha in odio le armi. E l’errore madornale dei partiti. Scambiano gli uomini fuggiti per i monti con soldati pronti alla resistenza” lo scriveva il partigiano Claudio Sartori, sul foglio “Il ribelle”.

Il lavoro storiografico di Avagliano e Palmieri sollecita domande: dopo pochi giorni, successivi alla dichiarazione dell’armistizio, perché 94.000 militari italiani rientrano nell’esercito alleato italo-tedesco? Lo storico ha l’occasione per decifrare la complessità nazionale del ’43; la quale realizzava, nel giro di pochi mesi,  un esercito di quasi mezzo milioni di repubblichini. Un esercito che però non era solo un fatto politico, ma rappresentava un evento spontaneo, “Prima dell’8 settembre non mi sono sentito né fascista né antifascista, ho sempre cercato di fare il mio dovere  nel migliore dei modi. Però quel giorno sono cambiato, ti dirò che oltre a sentire il mio amore per la patria tradita mi sono sentito fascista…” lo scriveva un sergente di Lucca alla mamma, alla sua coscienza di italiano.

“L’Italia di Salò” è una raccolta di dati preziosi e di voci perdute. Lo Stato sorto sul lago, dichiarato fantoccio, era però composto di funzionari che, solo pochi mesi prima, avevano lavorato per l’apparato statale monarchico; funzionari meridionali, che, con la guerra tedesca, non avevano nulla in comune, volevano lavorare e poi si ritrovarono a pagare di persona.  In generale, questa ricostruzione  dice che “L’Italia di Salò” è una realtà da decifrare maggiormente, non solamente una realtà riferita da una storiografia politica, la quale non volle approfondire l’analisi sul consenso a quella repubblica nata lungo sponde nebbiose.

Dal 1943 1945, fiducia e sfiducia facevano egualmente male. Soldati sbandavano. I bandi di reclutamento spaventavano, “Sulla carta la chiamata riguarda circa 186.000 uomini… ma se ne presentano 87.000”, perché gli americani avanzavano, la guerra stava finendo, la gestione del reclutamento era difficile per le quattro divisioni repubblichine organizzate in pochi mesi. Allora, il capitano degli alpini Eugenio Bonardi testimoniava alla famiglia, “Non pensavamo più che avremmo vinto la guerra, ma consideravamo doveroso di vender cara la pelle e di ridare il senso dell’onore all’esercito italiano così duramente vilipeso.”

Gli italiani di quel triennio parlano in questa ricerca storiografica fatta bene. E ci sono le voci guascone dei veterani di Spagna. Le parole dei funzionari imborghesiti del Ministero dell’Interno. Con le reclute che bussavano alle caserme, però “né alloggi, né coperte” erano stati approntati e “il vitto sarebbe stato completamente insufficiente.” Vicende all’ italiana. Naturalmente. Caserme in cui si scopriva la passione dei diciottenni che si arruolavano per una rivolta generazionale contro la monarchia. (Chi fu che scrisse che i ragazzi di Salò anticipavano di tanto il 1968?) Quando scorgevano i giovani della X Mas o della Gnr, gli anziani comunque scrivevano, “I nostri soldati si vedono di nuovo circolare ovunque rispettati e quelli che danno l’esempio sono i giovanissimi  delle ultime classi, di 15 16 17 anni. Ciò vuol dire che il nostro tempo non è andato completamente perduto…” come si legge in una lettera genovese.

Avagliano e Palmieri scrutano nella galassia repubblichina. Guardano pure nell’ anomalia guerriera che fu la Decima Mas, un esercito nell’esercito, una concezione spartana: tutti insieme al rancio, promozioni solo conquistate sul campo, tante polemiche contro il vecchio Graziani. Marò del sud o del nord. Universitari romani che chiedevano di esser chiamati al fronte, pur avendo l’esenzione universitaria; volontari che aderivano, nel 1945, giorni prima della sconfitta; fascisti clandestini in Sicilia, in nome della Rsi, ossia nove studenti guidati da Cataldo Grammatico, detto Dino, tutti personaggi da romanzo alla Buttafuoco. Anime battute, anime bruciate. Esistenzialismo nero, “O si vince o si muore!” scritto da un volontario della Gnr.

Con Mussolini ammazzato, la nostalgia parlava ad una patria morta nel settembre ’43 – come insegnò Renzo de Felice -; ma i giovani repubblichini non volevano mica smettere di parlare; ecco, allora, la voce finale di Giorgio Pisanò, “E avevamo vent’anni. Con la vita davanti per dimostrare a noi stessi e agli altri di che pasta fossimo fatti”, giacché non era più questione di sistemi ideologici ma di pasta, di pelle, di sangue.

Mario Avagliano Marco Palmieri, ‘L’Italia di Salò 1943-1945’, Il Mulino, pagg. 473, euro 28.00

(@barbadilloit, 22 marzo 2017)

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