«L’Italia di Salò», 20 mesi di guerra civile vista dal basso

di Roberto Chiarini

Avagliano e Palmieri la rileggono a partire da scelte e motivazioni dei giovani aderenti  

Per molti, decisivi furono il «tradimento» di Badoglio e la voglia di dire che gli italiani non erano vigliacchi

In nessuna nazione europea come in Italia l’eredità del fascismo e, marcatamente, del fascismo repubblicano sorto sulle sponde del lago di Garda ha segnato i caratteri della politica e della stessa democrazia. Le ragioni dell’inossidabile persistenza della sua eredità nella vita della Repubblica sono molteplici. Ha pesato innanzitutto la durata ventennale del regime instaurato da Mussolini. Non di meno, ha costituito un pesantissimo lascito la guerra fratricida che si combatté nei Seicento giorni di Salò. È comprensibile che quel nodo politico e morale resti perciò tuttora il più visitato dalla storiografia. Negli ultimi tempi i riflettori si sono accesi in particolare su quella delle due parti in lotta che è stata a lungo più trascurata o negletta. Parliamo di coloro che andarono a cercare «la bella morte».

Ora, del vasto e variegato mondo di «vinti» disponiamo di uno studio - Mario Avagliano e Marco Palmieri, «L’Italia di Salò 1943-1945» (Il Mulino, 489 pagine, 28u) - che affronta sistematicamente l’argomento. Avvalendosi di una base documentaria particolarmente ricca, gli autori hanno riletto quei venti mesi di guerra civile «dal basso», partendo dalle motivazioni, dalle scelte, dai comportamenti adottati dai giovani (più di mezzo milione) che scelsero o subirono l’atroce destino di combattere o semplicemente schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Avagliano e Palmieri ci conducono per mano ad esaminare l’avventura, umana e politica, vissuta dai «figli di stronza»: dai primi che impugnarono le armi contro gli Alleati senza aspettare la chiamata di Mussolini a quanti dopo l’armistizio restarono fedeli all’alleato tedesco o, internati in Germania, decisero in un secondo tempo di arruolarsi nell’esercito di Graziani, passando per i prigionieri degli Alleati non cooperatori per finire con quanti si arruolarono nell’Esercito Nazionale Repubblicano o nelle varie formazioni «nere»: dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla XMas alle Brigate Nere allo stesso reparto femminile delle Saf, per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, responsabili delle più barbare atrocità.

A correre a Salò furono innanzitutto ex avanguardisti ed ex balilla. Li spinse la delusione sofferta a seguito della destituzione del duce, ma ciò che li fece davvero ribellare fu «il tradimento» perpetrato da Badoglio e dal re con la firma dell’armistizio. «Mi arruolai- protesta uno di essi, Gianfranco Finaldi - per dimostrare che noi italiani non eravamo fatti tutti della stessa pasta, non eravamo un popolo di vigliacchi». Più del fervore per la causa del fascismo, mosse i ragazzi di Salò la morale del «soldato fascista» alla quale erano stati educati a scuola e spesso anche in famiglia. Non tutti idealisti. Non furono tutti idealisti, peraltro, i giovani che scelsero o si adattarono a servire il nuovo regime fascista. Nelle loro file numerosi furono - l’ha ammesso lo stesso federale di Milano, Vincenzo Costa - autentici sciacalli che decisero di vestire la divisa solo per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Del resto, un’Italia educata a «libro e moschetto», sprofondata da ultimo in una guerra civile, era difficile che non desse spazio alla sua «peggiore gioventù» e non incoraggiasse le imprese più disumane. Per il resto dei militi di Salò - la gran maggioranza - scattarono vuoi un malinteso amor di patria, vuoi il riflesso condizionato dell’obbedienza all’autorità costituita inculcato dal regime.

(Il Giornale di Brescia, 28 marzo 2017)

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