L’infamia della “razza”

di Stefania Miccolis

«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». È il settimo punto del documento ‘Il fascismo e i problemi della razza’, conosciuto anche come il Manifesto della razza, del luglio 1938, e la prima frase del libro “Di pura razza italiana” (Baldini&Castoldi) di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Una frase per la quale dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Il libro ha iniziato il suo percorso istruttivo già da un anno, non solo nelle scuole, che si spera ne facciano largo uso: gli italiani sono stati e sono ahimè “francamente razzisti”, e non è vera quella pseudo-coscienza comune che ci libera da ogni peccato, quell’istinto ponziopilatesco che si insinua in ogni occasione che fa dell’italiano “brava gente”, perché durante il fascismo – e poi con gli atti vandalici che si sono susseguiti e si susseguono fino ai giorni nostri – l’italiano è stato spesso antisemita.

Il miglior luogo per plasmare le menti è sicuramente la scuola, dove i futuri cittadini si devono formare, la concezione totalitaria della dittatura fascista lo sapeva bene, quindi i proclami del Manifesto della razza, sono introdotti nell’ordinamento giuridico italiano nel giro di poco tempo (circa 180 provvedimenti in cinque anni), cominciando soprattutto dalla scuola, concepita in maniera tale che non ci fosse posto per gli ebrei, né sulle cattedre, né tra i banchi, né sui libri di testo. Nel libro scorrono i nomi di noti intellettuali, giornalisti, uomini di cultura che accettarono le leggi razziali e scrissero articoli razzisti nelle colonne di diversi giornali dell’epoca. Dopo la guerra assunsero ruoli e cariche importanti anche politiche, dichiarandosi ferventi democratici e tendenzialmente di sinistra. Avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa, ma non ci riuscirono o non vollero. Norberto Bobbio ci aiuta a capire: quando in un bar di Padova trovò un cartello che impediva agli ebrei di entrare, avrebbe voluto strapparlo, ma non ne ebbe il coraggio: “Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?». Pochi gli intellettuali che non firmarono le schede di autoclassificazione razziale; fra questi Benedetto Croce di cui vale la pena riportare le parole della sua netta ripulsa verso il censimento: «L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».

È interessante inoltrarsi nel dibattito sull’arte: i fratelli De Chirico, essendo israeliti, non potevano essere futuristi e dovranno difendersi dalle accuse. Alberto Savinio scriverà: «Tanto mio fratello quanto io, che abbiamo l’ambizione di considerarci artisti, preferiamo che le nostre qualità di razza siano dedotte dal carattere delle nostre opere, piuttosto che dai rami del nostro albero genealogico». Ma non tutti avranno la parola ed emigreranno, con la inevitabile perdita di cervelli che solo parzialmente verrà recuperata. È un immenso piacere scoprire grazie alla polizia di regime che li controllava, che i due fratelli De Filippo «mettono in giro delle barzellette che suonano di offesa al Capo del Governo e al Fascismo» e «criticano continuamente gli operati del Regime». Ma molti erano gli uomini di spettacolo che non esitarono a dichiarare la loro razza ariana per continuare a lavorare. Stupisce la presa di posizione di Giovanni Gentile convinto fascista, che dichiarerà di esser contro «il razzismo e i suoi inammissibili riferimenti biologici» e per tutto il periodo razziale aiuterà in diverse occasioni conoscenti ebrei; il 29 agosto 1938 andrà perfino in udienza da Mussolini a Palazzo Venezia per esprimergli perplessità sulle misure contro gli ebrei. Insomma ci sono stati casi in cui si è dimostrato dissenso e solidarietà, ma casi isolati, in ambito privato, che non hanno scalfito il blocco compatto di consenso degli italiani ariani alle leggi razziali.

Per l’approfondita ricerca i due autori si sono avvalsi di documenti dell’archivio di Stato con i fondi del Pnf e del Minculpop, dei documenti e dalla corrispondenza della burocrazia, di diari ed epistolari di persone comuni, della stampa dell’epoca, di lettere inviate al Duce perché venga eliminata la stirpe ebraica. Riaffiorano tra le pagine i delatori, gli sciacalli approfittatori. Viene sfatato con prove documentate che tolgono ogni dubbio su supposizioni ed errori, quel “giudizio assolutorio”, il subire passivamente, quella “non simpatia” degli italiani verso le leggi antisemite, giudizio che la storiografia condividerà a lungo. L’ondata di antisemitismo ha pervaso il paese, nel suo tessuto sociale e culturale; “Di pura razza italiana” certifica, come scrivono Avagliano e Palmieri, che “gli ebrei furono condannati alla morte civile e privati dell’uguaglianza con gli altri cittadini, alla stregua di paria della società italiana”.

(Moked.it, 4 giugno 2015)

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