In un libro le 335 'vite spezzate' delle Fosse Ardeatine

di Gabriele Le Moli

 

Militari, membri della resistenza, oppositori storici del fascismo. Esponenti politici di tutti i partiti dell'arco resistenziale. Uomini di tutte le età e fedi religiose, di tutte le provenienze geografiche e di tutti i ceti sociali e di ogni livello di istruzione: aristocratici, borghesi, alti ufficiali, ma anche e soprattutto tante persone comuni: macellai, impiegati, contadini, liberi professionisti. Sono le 335 vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, di cui solo pochi giorni fa è stato celebrato l'80/o anniversario, e di cui per la prima volta, in maniera sistematica, vengono ricostruite e proposte le biografie complete. E' il merito dell'ultima fatica della coppia di storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, che hanno pubblicato con Einaudi il volume "Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza".

La strage, compiuta dai nazisti il 24 marzo del 1944 sotto il comando del capo delle SS di Roma Herbert Kappler, come rappresaglia per l'attacco partigiano di via Rasella che era costato la vita a 33 militari tedeschi, è una delle pagine storiche più famose e presenti nell'immaginario collettivo del Paese. Per la prima volta Avagliano e Palmieri si sono assunti in maniera completa, esaustiva e metodica, il dovere di riportare alla memoria le vite e le storie di tutti i martiri dell'eccidio, dai più noti a coloro che per anni sono stati sepolti nell'oblio.

Il loro lavoro, condotto attraverso una minuziosa ricerca delle fonti, dai diari e lettere dei martiri, dei loro familiari o dei compagni di lotta, alle carte di polizia, le schede carcerarie, i documenti e relazioni dei partiti e dei movimenti di appartenenza, ma anche le schede utilizzate per il riconoscimento dei corpi, gli incartamenti del processo Kappler, le memorie postume e un costante contatto con le famiglie, fornisce così un ritratto complessivo di quello che lo storico Alessandro Portelli ha definito "un vero e proprio spaccato geografico, politico, sociale dell'identità nazionale italiana".

I tentativi di dare un volto e un nome ai martiri di quell'eccidio, in effetti, cominciarono fin da subito, grazie all'impegno di Attilio Ascarelli, il medico che per primo ebbe il compito di esumare ed identificare le salme e che lasciò un corposo fascicolo intitolato "Breve biografia dei 320, con 291 schede biografiche". Negli anni a seguire, però, questo primo volenteroso spunto di ricerca non ebbe il necessario seguito, disperdendosi in una variegata produzione storiografica, dedicata spesso ad approfondire solo singoli aspetti o singoli protagonisti di quel periodo storico.

Alcuni di essi, come il colonnello Giuseppe Montezemolo (capo del fronte militare clandestino e protagonista del colpo di stato del 25 luglio del 1943), hanno ricevuto il massimo risalto, e lo stesso Avagliano gli ha dedicato una monografica, così come al suo concittadino Sabato Martelli Castaldi. Nomi altrettanto noti sono quelli dei carabinieri Giovanni Frignani e Raffaele Aversa, che parteciparono all'arresto del Duce e furono fra le colonne della "banda Caruso". Approfondite schede biografiche erano presenti anche in un volume degli esordi dello stesso Avagliano, "Muoio innocente", dedicato alle lettere dei condannati a morte della resistenza romana.

Nel dopoguerra molti di essi hanno ricevuto i più disparati riconoscimenti: in ogni parte d'Italia ad alcuni di loro sono state intitolate strade, scuole, caserme e parchi. Presso i loro luoghi di nascita, di residenza o di lavoro sono state apposte targhe e pietre d'inciampo. Alcuni sono stati insigniti di medaglie (35 d'oro, 25 d'argento e 4 di bronzo al valor militare, più una medaglia d'oro e una d'argento al merito civile) o croci al merito. Altrettanto numerosi sono però i "senza nome", le persone comuni, accomunate con i più illustri personaggi dalla tragica fine per mano dei nazifascisti, ma sulle quali erano disponibili informazioni limitatissime o quasi nulle, e che ora trovano visibilità. 

(Ansa, 27 marzo 2024)

 

Candido Manca, lo "stradino" martire delle Ardeatine

Fra i martiri delle Fosse Ardeatine figura anche un dipendente dell’Anas, allora AASS, il sardo Candido Manca. La sua figura è ricordata nel bel libro di Mario Avagliano, “Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945”, pubblicato da Einaudi, una storia della Resistenza, della deportazione e dell’internamento militare attraverso gli scritti dei protagonisti.

Nato a Dolianova (Cagliari) il 31 gennaio 1907, Manca nel '25 si arruolò volontario nei carabinieri. Prestò servizio a Roma, e dopo tre anni di ferma fu congedato. Rimasto nella capitale, ottenne il diploma di ragioniere e fu assunto nell'Azienda Autonoma Statale della Strada (AASS, poi ANAS). Fu richiamato alle armi una prima volta nel '35, per un anno, e di nuovo nel '39 per alcuni mesi e poi nel '40, con il grado di vicebrigadiere, sempre rimanendo in servizio presso la AASS. Nel '43 era brigadiere, nella compagnia squadre reali e presidenziali di Roma. Dopo l'8 settembre, riuscì a sfuggire ai tedeschi che avevano occupato le caserme. Insieme ad altri 30 carabinieri sbandati che aveva raccolto con sé, entrò nella banda "Caruso", che faceva parte del Fronte Militare Clandestino di Montezemolo, svolgendo azioni militari e raccogliendo informazioni utili al movimento partigiano e agli Alleati. Fu catturato dalla Gestapo il 10 dicembre del '43, insieme al tenente dei carabinieri Romeo Rodriguez Pereira e al capitano dei carabinieri Genserico Fontana, mentre si stava recando da un contabile che procurava denaro ai partigiani. Rinchiuso nel carcere di via Tasso, subì più volte la tortura, ma non rivelò i nomi dei compagni. Fu fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo del '44. Nel dopoguerra gli fu assegnata la medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Una lapide lo ricorda a via Chiana a Roma.

 

 

«I bisogni dobbiamo farli nella cella stessa in un recipiente chiamato bugliolo»

 

di Candido Manca

 

[Roma, carcere di via Tasso] 3.1.1944

 

Bolò mia cara,

ho ricevuto tutti i pacchi, il penultimo conteneva il Mom, di quest'ultimo fammi il piacere di mandarmene ancora, vedi di trovare i barattoli che credo sia migliore. Vuoi sapere come passo i giorni? Puoi immaginarlo, in una cella di metri quadrati 4 e 25 cm. mezza internata con una finestra munita di inferriata, ramata a vetri, semibuia. Come vitto ci danno due pagnotelle, caffè la mattina e appena un pasto di minestra alle 12. Nella cella siamo in quattro e dormiamo sul pagliericcio con due coperte a testa, i bisogni dobbiamo farli nella cella stessa in un recipiente chiamato "bugliolo"; sono sicuro che la faccenda dell'evacuazione davanti agli altri ti faccia sorridere sapendo quanto io ero suscettibile a tale funzione. Per riuscirci la parola d'ordine è «faccia al muro»... viene aperta la finestra e appena finito si apre lo sportellino della porta, il perché lo puoi immaginare. La salute è ottima, il raffreddore è quasi scomparso. Con la venuta del quarto abbiamo avuto la sorpresa dei pidocchi. Fattolo sapere al comandante questi ci ha fatto fare il bagno e disinfettare i vestiti al vapore. Dirti le peripezie non basterebbe un quaderno, ne abbiamo passato delle belle e delle brutte. Che vuoi fare ci abbiamo riso sopra. Ti avevo detto di mandarmi roba da mangiare di meno perché tesoro mio vedo che la mia permanenza qui sembra che duri e non vorrei dar fondo a quel poco che abbiamo messo da parte (puoi mandarmi della verdura al posto della carne che nutro desiderio). Quanto vi desidero! Dei giorni sono tanto triste per questo motivo. Per tutto il resto tengo alto il morale data la mia innocenza. Hai fatto bene di essere stata da Ciccillo per il primo dell'anno, così ti sei un pò divagata. Quanta tenerezza mi dai quando mi parli dei bambini, sento di adorarli in un modo tale che spesse volte anzi sempre a me e ai miei compagni di cella ci escono le lacrime. Hai fatto male di non aver allestito l'albero di Natale. Perché hai privato gli angioletti nostri di quella contentezza. Ad ogni modo spero che a Mariella per il suo compleanno avrai comprato qualche bel giocattolo e pure a Giancarlo. Come stai in salute? Mi auguro bene. Mandami cento lire specie da dieci e da cinque. Quella somma che avevo addosso è qui in deposito e la daranno quando uscirò oppure alla famiglia se fornita dell'autorizzazione del Comando Tedesco "albergo Flora". Fammi pervenire il libro di italiano "da Dante al Pascoli" che deve essere sulla ghiacciaia, la copertina è color marrone. Comprami un piccolo dizionario italiano-tedesco, bada deve essere tascabile e deve contenere anche come si pronunziano le parole. Stai attenta a fianco della parola tradotta deve esserci anche come deve leggersi. Al porta pranzo ti sei dimenticata di mettere la guarnizione cosa che ha permesso al signor sugo di uscire. Non ti faccio gli auguri per il nuovo anno ti dico soltanto che questo dovrà apportarci la felicità e la salute, altro non chiedo a Iddio. Ti abbraccio e ti bacio caramente assieme ai bambini tuo per sempre

Candido

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Raffaele Zicconi, l’Icaro siciliano che sognava la libertà e morì alle Fosse Ardeatine

di Mario Avagliano

«Qui non siamo volgari delinquenti, ma detenuti politici (...) Dopo ben 17 giorni di segregazione cellulare, murato vivo in una stanza, solo, maltrattato in maniera eccessiva, adesso che rivedo la luce sono risuscitato. Le botte, la fame, la mancanza d’aria, mi avevano prodotto un poco di nevrosi cardiaca, dalla quale mi vado rimettendo(…) Ormai sono fermamente convinto che il peggio è passato. Se dopo la condanna vorranno portarmi via da Roma, si vedrà il da farsi».

Febbraio 1944, carcere di Regina Coeli, terzo braccio: quello gestito direttamente dalle SS tedesche. La luce filtra a quadretti tra le sbarre della cella 367, dove Raffaele Zicconi, classe 1911, partigiano del Partito d’Azione, con un mozzicone di matita scrive a casa una lettera clandestina. Lino è siciliano, originario di Sommatino (Caltanissetta), ma risiede da anni a Roma, dove nel ‘41 ha sposato Ester Aragona, nata nel 1916 a Cosenza, nipote dello scienziato Alfonso Splendore, che nel 1908 aveva scoperto la toxoplasmosi all’università di Rio de Janeiro. Ha un figlio piccolo, Renzo, di appena due anni, e un’altra figlia in arrivo (Simonetta), anche se non farà in tempo a saperlo, finendo ucciso dai tedeschi nella strage delle Fosse Ardeatine.

La storia di Zicconi è riemersa dal buio della Storia grazie al nipote Massimo Ciancaglini, che ha amorevolmente raccolto le lettere e i biglietti del nonno da Regina Coeli, conservati negli archivi di famiglia, li ha trascritti e li ha pubblicati su un blog: La Vita e la Resistenza a Roma.

Lino lavora come impiegato alle Poste. Non molto alto, come tutti i maschi di famiglia, è bruno di carnagione, ha baffi ben curati, capelli ondulati scuri impomatati con la brillantina, è elegante nei modi e nell’abbigliamento (nelle missive dal carcere fa cenno più di una volta al suo smoking). Gran fumatore, ha una collezione di bocchini per le sigarette. Personalità forte la sua, a tratti irascibile, ma condita di intelligenza e di romanticismo, come testimoniano le lettere d’amore alla futura moglie Ester scritte tra il ‘39 e il ‘41.

Dopo il matrimonio, è andato a vivere con i suoceri in un grande appartamento al terzo piano di Piazza Ledro 7. Al piano di sotto ha la casa e l’ambulatorio il medico Luigi Pierantoni, detto Gigi, figlio di Amedeo, uno dei fondatori del Pcd’I nel 1921. Gigi è iscritto al Partito d’Azione clandestino, diviene presto suo grande amico e lo introduce negli ambienti antifascisti romani. La polizia fascista vigila e il 25 giugno 1943 spicca un ordine d’arresto a piede libero nei confronti di Lino, con citazione a comparire davanti al Tribunale di guerra di Roma. Le dimissioni forzate di Mussolini, datate esattamente un mese dopo, faranno decadere le accuse.

Dopo l’armistizio con gli Alleati e l’occupazione tedesca di Roma, Zicconi è tra i primi ad entrare nella Resistenza e l’8 ottobre aderisce al Partito d’Azione. Nel frattempo lascia la casa di Piazza Ledro, dove nascondeva in cantina una famiglia di ebrei che gli ha chiesto aiuto. Non vuole mettere a rischio i suoceri e allora prende casa in affitto, trasferendosi lì con la famiglia e i nuovi amici ebrei.

Il 7 febbraio 1944, alla vigilia di un’azione di sabotaggio della sua squadra ad alcuni pali postelegrafonici,  viene tradito da un sedicente compagno di nome “Albertini”, che consegna lui e l’amico Pierantoni nelle mani delle SS. «A fine guerra Albertini fu processato – racconta il nipote Massimo – ma uscì indenne dal processo». Portato a via Tasso, il carcere diretto da Herbert Kappler, Lino viene picchiato e rinchiuso in cella d’isolamento, al buio e senz’aria, ma non rivela i nomi dei compagni.

Il 24 febbraio, dopo diciassette terribili giorni di prigionia e di torture in via Tasso («mi hanno ormai collaudato come incassatore di primo ordine anzi fuori classe», ironizza lui stesso), è trasferito a Regina Coeli, dove il trattamento e il vitto sono di gran lunga  migliori. «Io sto bene e mi vado rimettendo – manda a dire ai suoi -. Questa mattina il mio amico mi ha dato un poco di zucchero, e mi sono fatto due uova frullate. Mi sembrava un sogno , dopo tutte le sofferenze ed i patimenti inenarrabili nel vero senso della parola, che ho dovuto sopportare nella triste tomba di lassù. Qui ho aria, luce, compagnia di veri amici che mi hanno sempre sorretto, e che godono nel vedere che le mie sembianze umane tornano a rifiorire sul mio volto. Qui sì tutti per uno ed uno per tutti. Mi hanno dato da mangiare, da fumare, e mi hanno assistito sul piccolo disturbo che mi affligge, ricordo questo di lassù». E in un altro biglietto clandestino aggiunge:  «Dalle porte si chiacchiera con le altre celle. Io sto di fronte a Gigi, e siamo in continuo contatto. Nella cella ci stiamo creando tante piccole comodità, e si va avanti discretamente».

Lino ha trovato la strada per corrispondere clandestinamente con casa senza il vaglio della censura e di poter ricevere pacchi e cibo, attraverso le figlie di un altro detenuto politico («la nostra vera colonna di sostenimento e sostentamento»), probabilmente in contatto con qualcuno dell’amministrazione carceraria. «Percorrete sempre quella [strada] – ammonisce la famiglia -, perché così anche quando uscirà il padre, se io sarò ancora qui, mi porteranno tutti i giorni tutto ciò che volete. Sono loro che pensano già ad una quindicina di persone, e sono ben felici di esservi utili. Ester pensi come poter fare per farle una gentilezza che dimostri la nostra riconoscenza. Se voi consegnate il pacco invece direttamente qui, mi arriva anche con due giorni di ritardo ed in questo caso non azzardatevi a mettere biglietti, se vi preme la mia incolumità, e di farmi ricevere il pacco».

A Regina Coeli le condizioni di salute di Zicconi migliorano, anche grazie all’affetto dei compagni («qui si è tutti per uno e il cameratismo è veramente bello. Sia per il fatto del fumo che per il fatto del mangiare»), ma la lontananza dalla famiglia gli pesa. Molto. «Vorrei notizie un poco più estese di tutti – scrive -, e di Ester, che ho un vago timore che non stia troppo bene (la moglie avverte forti fitte allo stomaco, ancora non lo sa, è incinta ndr). Vi penso tutti ardentemente , ma come potete immaginare , ho lo spasimo di poter riabbracciare pupetto». E in un’altra missiva esprime tutto il suo desiderio di essere ancora con loro: «Mia piccola cara, troppe cose ci sono da indovinare nel tuo letterone che ho tanto gradito. Mi dici di aver ripreso l’ufficio, sei stata dunque male? Cosa ti è successo? Mi devi parlare esplicitamente. Scrivi come se parlassimo. Ho ancora bisogno di vivere in casa. Come hai ricevuto il colpo? Cosa hai fatto quando non sono rientrato? In casa come ti sei sistemata? Con chi stavi? Cosa ha fatto Renzuccio? E ora come fai? Ti prego non mi lasciare all’oscuro, isolato. Se tu mi parli di tutto ciò io ti risponderò, parleremo, e io non sarò più lontano da casa».

Le sue parole d’amore per la moglie commuovono: «Piccola stellina mia, bé cosa vuoi? Oggi penso troppo alle stelle e mi sono ricordato che nel firmamento tu brilli sempre più fulgida. La tua lettera di ieri mi ha tolto dall’ansia e dall’incubo della mia solitudine». Così come l’affetto per il figlio: «Ho solo qui il conforto(veramente immenso) delle vostre fotografie. Mi riguardo continuamente Renzuccio nostro, e mi convinco sempre di più che fra tutte le nostre disgrazie, i nostri dolori, le nostre sofferenze, Iddio ci ha voluto dare la prova lampante che non si è dimenticato di noi, facendoci avere quanto di meglio potevamo aspettarci nei riguardi di pupetto. Cerca di non farlo guastare, insegnali ad essere sempre buono e docile com’è. Fagli leggere le mie lettere, convincilo insomma che paparino suo è sempre vicino. Distrailo molto, perché è tanto sensibile, e sono sicuro che anche lui soffre della mia lontananza. È l’unico tesoro veramente di valore che abbiamo. Conserviamolo senza farlo rovinare. Ricordati che non deve essere allevato con le botte. Non voglio assolutamente. Che nessuno me lo tocchi».

Il suo animo nobile e generoso emerge anche da altri particolari. Come quando, nonostante il vitto del carcere sia scarso, non vuole che la famiglia (e l’amatissima zia, suo «angelo custode») si privi di qualcosa per lui: «Quando mi mandate da mangiare – avverte la cugina Mimmina - attenetevi esclusivamente alla mia tessera. Non fate sacrifici finanziari, dillo anche a zia. (…) Non era il caso di privarti di tutta la marmellata. Non voglio affatto che facciate sacrifici».

Nei momenti di sconforto, Zicconi si aggrappa agli ideali politici: «In certo qual modo – confessa alla cugina Mimmina - mi sento anche orgoglioso di questa avventura dato che non sono un volgare delinquente ma un novello Cesare Battisti, per quanto lui sia andato oltre il punto al quale mi fermerò io. E a proposito di Cesare gli sto facendo concorrenza anche per il pizzetto che cresce rigoglioso e mi da’ campo alla gioia immensa di passeggiare per le celle, fronte corrugata, sguardo linceo e terribile». Oppure lo aiuta la sua tenace fede religiosa: «Questo per Ester – si legge in un biglietto -. Importantissimo e delicatissimo. Mi stacchi dal muro dove l’avevo attaccato dietro il seggiolone della mia scrivania, il quadro della Madonna al quale tengo moltissimo . Lo spolveri bene dietro e davanti, e me lo riponga bene dopo averci tolta la cornice della quale non mi interessa nulla. Mi raccomando… Madonna che voi pregherete per me e per la mia liberazione. Datemi conferma per la mia tranquillità». In un’altra lettera chiede invece di fargli recapitare il libro che ha nello studio: “La vita di Cristo”.

Fuori la guerra continua. E a Roma si susseguono le fucilazioni di partigiani da parte dei fascisti e delle SS. Lino teme il peggio: «La causa ci sarà, e molto probabilmente, anzi sicuramente, ci dovrebbe essere la condanna. Il mio fervido augurio è che questa sia magari di 30 anni. E spero fermamente che sia così soltanto. Ad ogni modo abbiate fiducia e sappiatemi attendere con pazienza e rassegnazione, pregando per la mia salvezza». Tuttavia sa che da un momento all’altro la sua vita potrebbe finire. E allora invia alla moglie Ester una lettera-testamento, nella quale le chiede perdono per aver osato troppo:

«Mia piccola Madonna,

è con la stessa disperazione del moribondo che si attacca alla vita , che io mi stringo a te. Come un naufrago si aggrappa rabbiosamente all’unico relitto di nave che potrà salvarlo da morte, io così disperatamente mi aggrappo a te per salvarmi. A te così cara, a te così buona, che con il tuo amore, con la tua passione sai ancora darmi la gioia e lo scopo di vivere. Sono anche io quasi un naufrago della vita, di questa insulsa, di questa stupida, di questa miserabile vita, che dopo aver maledetto, benedico. Amore mio non puoi ancora capire il mio stato d’animo, e i tremendi periodi di burrasca che sono costretto ad attraversare. Non hai ancora idea delle lotte tremende che da solo, completamente da solo, devo combattere. Tutta la mia bella filosofia è caduta stupidamente di fronte alla dura realtà. Tutta la mia spensieratezza s’è infranta nell’urto contro la vera vita. La vita di tutti, la vita che non ho mai voluto immaginare, che non ho mai conosciuta. Quest’ira repressa che è in me, questo spirito di ribellione impotente,non è se non il frutto di chi ha tutto perduto. Chi è abituato a vincere, credo non potrà mai assoggettarsi alla vita del vinto. Il mio orgoglio sconfinato, il mio spirito indipendente, il mio isolamento completo su tutto ciò che mi riguarda, la mia frenesia di agire solo per assaporare la soddisfazione unicamente mia dello scopo raggiunto, mi ha portato al punto di essere mal giudicato, di non essere compreso, di apparire forse anche pazzo. Imbevuto di teorie individualistiche assolute, mi sono buttato a corpo morto in un esperimento che mi affascinava. Raggiungere il superuomo creato da me, in me stesso. Ed in questo mi sono talmente immedesimato da condurre la mia lotta sorda inebriandomi di ogni mia piccola conquista. Ciò mi ha completamente astratto dalla realtà, nella quale sono caduto così bruscamente, dopo anni di studio,da infrangere ogni più piccola illusione senza più poter distruggere la mia maniera di vivere, inadatta alla nuova posizione che dovevo occupare nella vita. Icaro, lo stesso che aveva aspirato ad altezze troppo elevate, ha trovato la morte sul suo insulso tentativo. E io nel mio sogno dorato ho dimenticato di valutare in giusta misura quelle che avevo considerato inezie trascurabili; e ho trovato la morte dello spirito. (…)

Ho voluto raggiungere cose più grandi di me, ma sotto il loro peso sono rimasto schiacciato. Per non confessare la mia sconfitta, ho fatto cose assurde, che mi hanno fatto perdere anche l’ultimo sogno di grandezza e di supremazia, finché mi sono trovato in terra, nelle stesse condizioni di una belva chiusa in trappola, che nella sua irrequietezza ruggendo si lancia impotente contro le sbarre della gabbia. (…)».

E infatti l’«incognito domani», come lo definisce lo stesso Lino in un’altra lettera alla sorella Anna, gli riserva sorprese amare. Il 24 marzo 1944, il giorno dopo l’attacco dei Gap comunisti a Via Rasella, per rappresaglia le SS assassinano barbaramente 335 detenuti politici ed ebrei alle Fosse Ardeatine, prelevandoli da via Tasso e da Regina Coeli. Tra questi, c’è anche Raffaele Zicconi, l’elegante partigiano siciliano che amava la libertà come Cesare Battisti e inseguiva il sogno di Icaro.

("Patria Indipendente", n. 7, luglio 2011)

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Storie - Il Montezemolo partigiano

di Mario Avagliano

   Il 23 settembre del 1943 i tedeschi circondavano il Ministero della Guerra, sede del comando di Roma Città Aperta, arrestando il conte Guido Calvi di Bergolo, genero del re e a capo della struttura, e altri ufficiali, e deportandoli in Germania. L'unico a sfuggire al blitz nazista era il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che - indossati abiti civili - se la svignava attraverso i sotterranei del Ministero, sbucando in via Nazionale e dandosi alla macchia.
Iniziava cosi l'attività resistenziale di Montezemolo, di cui ho parlato ieri a Firenze, nella bella sede del Consiglio regionale della Toscana. Beppo, così era chiamato in famiglia, reduce di tre guerre (i due conflitti mondiali e la guerra di Spagna), disilluso dal fascismo come milioni di italiani, invece di nascondersi, diede vita al Fronte militare clandestino, che raccoglieva migliaia di militari, carabinieri e civili (tra cui don Pietro Pappagallo), collaborava strettamente con il Cln ed era collegato con Brindisi e il governo Badoglio.
Il Fronte compì atti di sabotaggio, rifornì di armi ed esplosivi le bande partigiane, sottrasse migliaia di militari dalle chiamate di Salò, svolse un'intensa attività di intelligence al servizio degli Alleati e produsse anche documenti falsi come carte di identità e certificati di battesimo che servirono a diverse famiglie di ebrei per sfuggire alla caccia all'uomo scatenata da nazisti e fascisti. Un'organizzazione capillare e importante, con  gruppi collegati in tutta l'Italia occupata.
Dopo lo sbarco alleato ad Anzio, in vista dell'insurrezione, i gruppi clandestini intensificarono le riunioni e gli incontri. Tedeschi e fascisti ne approfittarono per catturare molti esponenti della Resistenza, anche attraverso l'opera di delatori. Come avvenne per Montezemolo, considerato da Kappler il suo "più temibile nemico", che venne imprigionato nel carcere di via Tasso e barbaramente torturato.
Verrà ucciso dai tedeschi il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine assieme ad altri 334 italiani, di cui circa 70 ebrei, gridando "Viva l'Italia! Viva il re!". Gli sarà assegnata la medaglia d'oro alla memoria. La sua vicenda straordinaria e il suo eroismo verranno a lungo dimenticati, in quanto esponente di quella resistenza moderata, monarchica, militare per troppo tempo negletta e che solo dal presidente Ciampi in poi si è finalmente iniziato a studiare e a riscoprire.

(L’Unione Informa e Moked.it del 27 settembre 2016)

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Storie - Al Museo di via Tasso depositati nuovi documenti. La lista degli ebrei alle Ardeatine e la lettera di Terracina

di Mario Avagliano

I tedeschi volevano cancellare le tracce del terrore perpetrato a Roma nei nove mesi della loro occupazione. E così la notte del 3 giugno 1944, nelle ore frenetiche dei preparativi per la fuga dalla capitale, Herbert Kappler ordinò alle SS di bruciare gran parte dei documenti che erano custoditi presso il carcere di via Tasso. Una straordinaria fotografia di quei roghi è stata ritrovata nell’archivio del questore di polizia Giuseppe Dosi, che di recente è stato acquisito dal Museo Storico della Liberazione di Roma.

Dosi, che nel dopoguerra sarebbe diventato direttore dell’ufficio italiano Interpol, proprio la mattina del 4 giugno recuperò nel carcere delle SS e nel reparto tedesco di Regina Coeli (il tristemente famoso terzo braccio) la documentazione scampata alla distruzione.
L’archivio di Dosi è stato presentato il 19 ottobre scorsi, dal presidente del Museo, Antonio Parisella, e da Alessia Glielmi, responsabile degli archivi, insieme ad altri originali documenti inediti provenienti da privati.
Una delle scoperte più rilevanti compiute dalla Glielmi è stata quella degli elenchi originali dei nominativi utilizzati dagli agenti tedeschi incaricati di prelevare a Regina Coeli i detenuti e di predisporre il trasporto verso la via Ardeatina il 24 marzo 1944. Gli elenchi ricomposti, che furono compilati da Heinz Thunath, sono tre: due riguardano gli ebrei («Judenliste») e uno gli altri detenuti. Essi contengono nome, cognome, data ed in alcuni casi luogo di nascita e numero di cella dei detenuti prelevati.
Tra i documenti acquisiti dal Museo figurano anche quelli di Davide Arnaldo Terracina, detto Dino, ebreo romano sfuggito miracolosamente alla deportazione del 16 ottobre e alla strage delle Fosse Ardeatine, come narrò egli stesso nel 1944 in una lettera allo zio Salvatore Fornari, emigrato a New York. Di particolare interesse il racconto delle ore successive all’azione di via Rasella del 23 marzo 1944, dove quel giorno casualmente Terracina si trovava in un appartamento in affitto assieme ai suoceri, al cognato Armando e al figlio. Terracina e il figlio furono arrestati dai tedeschi e rinchiusi nei sotterranei al Ministero dell’Interno, ma grazie alle carte d’identità false furono rilasciati.
Parisella ha anche presentato il lavoro sviluppato per la digitalizzazione dei documenti esposti nelle bacheche del Museo, realizzato con il supporto tecnico del Consiglio Nazionale delle Ricerca. È stata creata fra l’altro una banca dati delle 1.132 biografie di coloro che transitarono in quel periodo nel carcere nazista di via Tasso. Un eccezionale archivio della memoria dell’orrore nazista a Roma.

(L'Unione Informa, 23 ottobre 2012)

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Fosse Ardeatine. Vite perdute e ritrovate

di Mario Avagliano

Roma 24 marzo 1944, quarto giorno di primavera. In una cava di pozzolana sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini con un colpo di pistola alla nuca. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, ebrei, detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione di dieci a uno (ma nella fretta e nella confusione ne vengono uccisi cinque in più), in rappresaglia per l’attacco partigiano del giorno prima in via Rasella, costato la vita a 33 militari della compagnia dell’SS Polizei Regiment Bozen. È il più grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana d’Europa e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra.

Nella ricorrenza del 50° anniversario della scomparsa di Attilio Ascarelli, il medico legale ebreo che dall’estate all’autunno del 1944 diresse le attività di esumazione e di identificazione delle salme della strage delle Fosse Ardeatine, esce un libro intitolato I Martiri Ardeatini. Carte inedite 1944-1945 (AM&D Edizioni, pp. 331, euro 30). Il volume, curato da Martino Contu, Mariano Cingolani e Cecilia Tasca, propone per la prima volta le schede biografiche delle vittime che furono redatte all’epoca dalla commissione, accompagnate da un interessante saggio sui più recenti sviluppi storiografici relativi all’eccidio, una preziosa bibliografia sull’argomento, un profilo del professor Ascarelli, e l’inventario del Fondo a lui intestato e conservato presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Macerata.
In qualità di direttore della commissione medico-legale, Ascarelli raccolse la documentazione prodotta in quei mesi (comprensiva di fotografie delle operazioni di recupero delle salme, dei cadaveri e delle lettere ritrovate sui corpi delle vittime), più altri documenti che via via aggiunse negli anni successivi.
In uno di questi corposi fascicoli, sono contenute 291 schede di martiri (su un totale di 335), alcune più ampie, alcune telegrafiche, che vengono pubblicate in questo volume e ci rivelano particolari inediti di alcuni di loro.
Nulla si sapeva, ad esempio, del commerciante Secondo Bernardini, democristiano, che fu arrestato dalle SS a Pisoniano assieme alle moglie e, dopo la devastazione della casa, venne tradotto nel carcere di via Tasso, dove entrambi «subirono immane torture tra le quali hanno avuto asportazioni delle unghie e fustigazioni sotto le piante dei piedi». Il sottotenente Marcello Bucchi, invece, rinchiuso a Regina Coeli assieme a don Giuseppe Morosini, quando ebbe un colloquio con la madre e questa gli chiese cosa avesse fatto, rispose: “Mamma, la Patria è un ideale tanto grande”.
Le schede rappresentano, come scrive Claudio Procaccia nella prefazione, “un punto di partenza per la creazione di un dizionario biografico delle persone assassinate il 24 marzo 1944”. Se infatti il susseguirsi degli eventi tra il 23 e il 24 marzo è stato ampiamente ricostruito dalla storiografia, così come si è indagato a fondo sull’impronta che l’eccidio ha lasciato nella memoria del dopoguerra (vedi il libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito”), poco invece si conosce, ad eccezione di alcuni personaggi più noti, delle vicende individuali delle vittime, di cui oggi resta traccia – e non per tutti – solo in alcune pubblicazioni locali o a carattere familiare, nelle cerimonie e nelle lapidi presenti a Roma e nelle città di origine.
La ricostruzione delle biografie civili e politiche dei martiri – alcuni dei quali ancora non sono stati identificati – sarebbe invece un’operazione di grande interesse storico, anche perché da essa emergerebbe un microcosmo altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e liberazione.
Alle Fosse Ardeatine furono uccisi italiani originari di ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia (più alcuni stranieri: un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria.
Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali, compresi alcuni colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi era un sacerdote, don Pietro Pappagallo, e anche 75 ebrei (per la maggior parte di essi, i documenti pubblicati in questo volume sono le uniche testimonianze biografiche sino ad ora note). Tra i politici, infine, c’erano esponenti di tutte le forze antifasciste, compresi alcuni degli esponenti più autorevoli del Fronte militare clandestino di Roma, a partire dal loro capo, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Il libro I Martiri Ardeatini, che sarà seguito a breve nel piano editoriale da altri due volumi tratti dal Fondo (uno sui verbali di esumazione della commissione medico-legale e un altro sulla figura del generale Simone Simoni, una delle vittime dell’eccidio), offre quindi la chiave e gli strumenti per riportare alla luce quelle vicende, “perché – come scrisse nel 1945 Ascarelli – si diffonda ovunque l’eco di tanta infamia e perché resti documentata una delle innumerevoli atrocità naziste che commosse la pubblica opinione del mondo civile!”.

(Il Messaggero, 23 marzo 2013)

Storie – I 100 anni di Priebke e le falsità su via Rasella

di Mario Avagliano

C’è un filo nero che lega gli annunciati imminenti festeggiamenti per i 100 anni di Erich Priebke, uno dei boia delle Fosse Ardeatine, e le polemiche su via Rasella sollevate da Pippo Baudo in una trasmissione Rai di prima serata.
Da un lato il criminale di guerra nazista, al quale Herbert Kappler assegnò il compito di controllare le liste dei condannati a morte dell’eccidio delle Ardeatine (che alla fine furono 335, cinque in più del già assurdo rapporto di 1/10 ordinato a Berlino), che non si è mai pentito di quello che ha fatto e ora gode in Italia di un regime di semilibertà, passeggia impunemente per le vie di Roma e viene considerato un’icona dai suoi fan, che lo chiamano Il Capitano.
Dall’altro la tv pubblica, che sposa, senza alcun contraddittorio, le tesi di “atto terroristico” riguardo all’azione di via Rasella, dando voce al falso storico della richiesta di consegnarsi che sarebbe stata rivolta ai partigiani gappisti autori dell’azione.
Sui festeggiamenti di Priebke che, secondo quanto scrive il Corriere della Sera, sarebbero in via di organizzazione, in gran segreto, il giorno 29 luglio da parte del suo avvocato Paolo Giachini, si sono registrate le dure reazioni di esponenti della Comunità Ebraica di Roma, dell’Anpi, dell’Aned e dell’Anfim. “C’è poco da festeggiare”, ha giustamente scritto il vicepresidente Eugenio Iafrate sul profilo di Facebook dell’Aned. E se la festa si farà, in molti sono pronti a mobilitarsi.

Sul caso di via Rasella, l’Anpi ha criticato aspramente Baudo e i dirigenti di Viale Mazzini, ricordando le sentenze della Corte di Cassazione e di altri Tribunali che hanno stabilito che si trattò di “un legittimo atto di guerra” e la deposizione di Albert Kesserling al processo Kappler, nella quale il feldmaresciallo tedesco ammetteva che non fu rivolto alcun appello alla popolazione romana o ai responsabili dell'attentato prima di ordinare la rappresaglia
Ora forse ci sarà una trasmissione riparatrice. Ecco il post pubblicato sul profilo FB dell’Anpi nazionale: "Caso Pippo Baudo-Via Rasella: la RAI prospetta la possibilità di chiarire la vicenda in uno spazio apposito nella rubrica del mattino, (“Agorà”), che va in onda dalle 8 alle 10. Ovviamente, abbiamo rifiutato, perché il pubblico di quello spazio è molto diverso da quello serale e stiamo insistendo per una vera rettifica e non ci acquieteremo fino a quando non sarà stata ristabilita la verità".
Ma quanti danni sono già stati fatti alla memoria storica del nostro Paese, con tanti italiani che considerano Priebke “un soldato che ha fatto il proprio dovere” (parola di Mario Merlino, uno dei suoi fan, conosciuto come “Il professore nero”) e i partigiani come dei violenti terroristi?

(L'Unione Informa e il portale Moked.it del 23 luglio 2013)

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Le falsità della trasmissione di Baudo su via Rasella: la rettifica del Tg3

Ieri sera, martedì 30 luglio, nel corso del Tg3 delle 19 (edizione nazionale) è stato letto il comunicato di rettifica delle falsità sui fatti di via Rasella pronunciate durante la puntata dell'8 luglio de "Il viaggio". Il direttore Bianca Berlinguer ha letto la seguente precisazione: "Nella puntata di lunedì 8 luglio de “Il viaggio”, su RAI 3, condotto da Pippo Baudo, sono state fatte delle affermazioni imprecise e non corrispondenti a verità sull'eccidio delle Fosse Ardeatine e sui fatti di Via Rasella. Non fu offerta, infatti, alcuna possibilità ai partigiani dei Gap (gruppi di azione patriottica e non di azione proletaria come si è detto nella trasmissione) di offrirsi per salvare le vittime destinate alla fucilazione nelle Fosse Ardeatine: il Comando tedesco rese pubblica la notizia dell’eccidio solo dopo il suo compimento come riconosciuto dallo stesso maresciallo Kesserling nel corso di un processo. Ben due sentenze, poi, della Corte di Cassazione hanno qualificato l’azione diVia Rasella come “legittimo atto di guerra”. Il ricordo dei martiri delle Fosse Ardeatine, cui va sempre il nostro commosso pensiero, deve essere sempre improntato alla verità storica e mai strumentalizzato. La direzione RAI 3 prende doverosamente atto del comunicato dell’ANPI nazionale, rammaricandosi di quanto accaduto".

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