Fascismo, non è stato un gioco

di Diego Gabutti

Banalizzare (come si dice) il fascismo è stato sempre uno sport molto praticato in Italia. Mussolini «buonuomo», gli antifascisti «in villeggiatura» alle isole, i gerarchi in pantofole, la dittatura mite e generosa, la bonifica delle paludi, la Treccani, giusto un po' d'antisemitismo (ma indulgente, mica come a Berlino). Non si capiva, in fondo, perché gli oppositori del regime andassero esuli all'estero. Potevano restarsene tranquillamente anche qui, pacifici, indisturbati, persino un po' riveriti.

Coccolati da Primato, cari ai frondisti come Leo Longanesi e Indro Montanelli, e in fondo simpatici anche allo stesso Dux, gli antifascisti avrebbero potuto essere l'ala democratica (diciamo così) del regime se soltanto fossero stati meno cocciuti. Un po' come oggi, sotto la stella cometa del governo meloniano, quando il neofascismo («onore al Msi», commemora la seconda carica dello Stato) è stato trasformato dal voto popolare (il 26% del 55% dell'elettorato) nell'ala littoria della democrazia.

Per lo più il fascismo è caramellato e farcito d'uvetta da storici e memorialisti, che ridacchiano, beffeggianti ma ammirati, del Duce a cavallo che brandisce la Spada dell'Islam, del Duce aviatore e sciatore, del Duce che si molleggia con i pugni sui fianchi nella gabbia Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo del leone, del Duce armato di falce e a torso nudo che partecipa alla battaglia del grano, del Duce giocatore di bocce.

Raccontato così, deriso e rimpianto insieme nei memoir dei giornalisti e dei diplomatici più compromessi, filtrato attraverso le mattane dei legionari fiumani, tutto tele futuriste e telefoni bianchi, il fascismo diventa uno scherzo e gli oppositori degli zucconi che non capiscono la barzelletta. Ci sono libri scanzonati sui rapporti al Duce dell'Ovra, la polizia politica. Si possono leggere libri leggeri e goliardici sulle imprese erotiche di Mascellone nella Sala del Mappamondo. Gli si accreditano opinioni antinaziste ((pando c'era tutt'al più dell'invidia per la bella presenza delle SS, alte e marziali, dalla divisa impeccabile, mentre a lui toccavano militi «brevilinei», sgualciti e pelandroni). Passa per libertario, addirittura per «auto-mormoratore», se non per antifascista occulto: l'idea generale è che il fascismo non sia colpa sua ma degl'italiani, «ingovernabili», «indisciplinati», eterni bambini. Straparlano così, da ottant'anni in qua, intere biblioteche.

Rare se non rarissime le eccezioni: tra i titoli recenti Il caso Mussolini (Neri Pozza 2022) di Maurizio Serra, la biografia di Giovanni Gentile (Il filosofo in camicia nera, Mondadori 2021) di Mimmo Franzinelli, il Mussolini capobanda (Mondadori, 2022) di Aldo Cazzullo e questo Il dissenso al fascismo di Mario Avagliano e Marco Palmieri, storici accurati delle zone in ombra dell'Italia nella prima metà del secolo. Mentre non c'è storia del fascismo, dei suoi Guf, delle sue disfatte militari, dei suoi slogan ridicoli, dei suoi ras, del suo Minculpop, delle sue Opere Balilla, dei suoi gerarchi, dei suoi architetti e trasvolatori, delle sue donne fertili, dei suoi squadristi in orbace o in doppiopetto che non abbia al centro qualche grand'uomo a pancia in dentro e petto in fuori, Avagliano e Palmieri in tutti i loro libri si sono invece sempre occupati di cose che contano e di persone vere.

Negli anni, hanno raccontato la storia delle leggi razziali e dell'antisemitismo fascista, dello sbarco alleato, dei soldati al fronte, della resistenza disarmata dei militari italiani internati nei lager tedeschi per non essersi arruolati nei ranghi di Salò, dei primi anni del secondo dopoguerra, della resistenza allo stalinismo nel 1948. Qui, con Il dissenso al fascismo, si occupano dei dissidenti — gli antifascisti che, tra la proclamazione della dittatura nel 1925 e la caduta del fascismo nel 1943, cercarono d'opporsi al regime e ne furono perseguitati. A fermarli non fu il «consenso» di cui godeva il fascismo, come raccontano gli storici compiacenti, ma il terrore scatenato dal regime contro l'opposizione in qualsiasi forma, dal partito liberale a quello socialcomunista, dai Testimoni di Geova ai boy-scout.

Tutt'altro che caramellosa, niente canditi, zero uvetta, la storia della repressione negli anni del fascismo è la storia d'un regime criminale, assassino, feroce. Non è vero che Hitler e Stalin fossero peggio di Mussolini soltanto perché fecero peggio di lui. Mussolini ha fatto quel che ha potuto coni mezzi e il materiale umano che aveva. Se solo ne avesse avuto i mezzi, il vantaggio e l'occasione, non avrebbe certo indietreggiato di fronte al genocidio, come infatti dimostrarono le leggi razziali del 1938 che gettarono in pasto ai cannibali migliaia d'ebrei. Qualunque cosa se ne legga nei libri così spiritosi di Leo Longanesi, nelle Storie d'Italia di Montanelli o nelle biografie di Filippo Tommaso Marinetti, di Giuseppe Bottai e di Berto Ricci, un antisemita rabbioso che Montanelli definiva «un anarchico» e «un idealista», il fascismo non fu affatto uno scherzo né un intermezzo piacevole: eravamo ragazzi, c'era l'avventura dell'impero, giovinezza, giovinezza.

A decine di migliaia d'italiani (molti dei quali lasciarono clandestinamente il paese poiché anche l'espatrio era diventato un reato, com'era reato raccontare barzellette sull'Uomo della Provvidenza o criticare per una qualsiasi ragione il regime) non era sembrato divertente farsi purgare e randellare dalla feccia della società nazionale. Decine di migliaia d'italiani finirono in galera, al confino, in manicomio, stipati nelle isole che la stampa internazionale descriveva realisticamente come «Siberia e Cayenna italiane». Ci furono centinaia di suicidi, la maggioranza dei quali soltanto tra virgolette: malnutriti, torturati con le tecniche più efferate, talvolta persino violentati (come raccontano Avagliano e Palmieri) dalle stesse guardie carcerarie, gl'internati antifascisti morivano come mosche, assassinati senza che i loro aguzzini fossero chiamati a risponderne.

Avagliano e Palmieri scavano in una vasta costellazione di piccole storie che finiscono male, malissimo, bene, mai benissimo. Storie d'avvocati, d'operai, di calzolai, d'ingegneri espulsi dall'ordine, di studenti e insegnanti, di sacerdoti, di donne e uomini che il fascismo ha imprigionato, torturato, oltraggiato, ucciso. «No, non è terrore, è appena rigore», spiegò Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927. «Terrorismo? Nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazionale, si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto» Erano discorsi da teppista, i soli che gli si addicessero. Stalin e Hitler dicevano esattamente le stesse cose.

Come ci ricordano Avagliano e Palmieri, è di questo che si parla quando si parla di fascismo. Sul dissenso e la resistenza al fascismo è stata fondata la repubblica, che per quanto imperfetta è sempre meglio di qualunque regime. Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo. C'era Mario Draghi a Palazzo Chigi e adesso guardateci. 

(Italia Oggi, 31 dicembre 2022)

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Le barzellette su Mussolini raccontano il dissenso nascosto

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

La campagna elettorale per le elezioni politiche che si è appena conclusa ha avuto un nuovo protagonista indiscusso: i meme. Il sarcasmo, infatti, al giorno d’oggi viaggia veloce e senza confini sui social network. E per questo i meme sono diventati una cosa seria, poiché hanno assunto un peso specifico assai rilevante nella ridefinizione della geografia politica del consenso: non c’è candidato, leader o esponente istituzionale che possa sfuggire all’ironia puntuta, irriverente, dissacrante e soprattutto contagiosa delle immagini divertenti che gli utenti della rete producono, anche in modo spontaneo, e che si diffondono con una viralità mai vista prima.

Se lo strumento (la rete e i social) e le potenzialità di circolazione e diffusione sono senza precedenti, ciò che invece non è affatto nuovo è il ruolo della satira e dello sbeffeggiamento che, in presenza di situazioni in cui la libertà d’espressione è limitata o non ammessa del tutto, assumono anche la valenza di potente mezzo di opposizione, di resistenza, di dissenso. Tant’è vero che sono oggetto di feroce di repressione.

In Italia, ad esempio, ci fu una vivace fioritura di meme ante litteram durante il ventennio fascista. Un’ironia sotterranea, che circolava segretamente, strappando un sorriso e aprendo in questo modo qualche crepa nella cappa oppressiva che il regime fece scendere sul paese mettendo fuori legge e punendo severamente qualsiasi forma d’opposizione, ma anche di semplice dissenso non organizzato e non politico, bensì spontaneo.

A una ricostruzione dettagliata di questo fenomeno è dedicato un intero gustoso capitolo del nostro ultimo libro “Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943”, appena pubblicato da Il Mulino, che - come ha affermato la storica Simona Colarizi - ricostruisce finalmente in modo completo la storia degli oppositori a quel regime, raccontando sia le vicende dei militanti politici noti, come Gramsci, Pertini e Sturzo, sia di quelli sconosciuti: operai, casalinghe, contadini, impiegati protagonisti di scioperi, proteste, scritte murali, atti di critica al fascismo ma anche di barzellette, epigrammi, storielle sarcastiche, motti di spirito, storpiatura degli slogan e parodia delle canzoni fasciste e della retorica ufficiale.

Così, ad esempio, vi si legge la storiella di Mussolini che va in visita a un manicomio e passa in rassegna i malati che applaudono convinti tranne l’ultimo della fila, il quale quando gli viene chiesto perché non batte le mani risponde di essere infermiere e non matto. E ancora: «sulla tomba della madre del Duce hanno messo quattro soldati di guardia. Lo sai perché? Per evitare che risorga e faccia un altro Duce»; «Hai la foto del Duce in tasca? No. Ma allora dove sputi».

La memoria collettiva del fascismo, in effetti, nel dopoguerra prende una strana piega, sedimentando il ricordo di un regime risibile, di rituali e liturgie grottesche e pratiche ridicole, che contribuisce a oscurare il ricordo della pratiche repressive feroci, della brutale privazione della libertà e del soffocamento di ogni forma di dissenso e opposizione. A ben guardare un fondamento di questa incredibile evoluzione si può cercare proprio in questa fioritura di battute e di sarcasmo. Sotto la dittatura, però, il ruolo dell’ironia fu importante, poiché nel quadro della pressoché totale impossibilità di manifestare il dissenso, queste freddure andarono a scalfire la pretesa sacralità del fascismo e del duce, il suo mito e quindi la pretesa dedizione assoluta alla causa e al pensiero unico. Un flusso che la polizia politica, come dimostrano le carte relative alle indagini per ricercare chi le crea o semplicemente le racconta, faticò a contenere e a interrompere.

Fermo restando il fenomeno della diffusione di una comicità e di una ironia fine a sé stessa, mettere in circolo barzellette, storielle e battute e lasciarsi andare a una risata di fronte ad esse rappresentarono uno sfogo e una reazione all’oppressione del regime, alle difficoltà della vita quotidiana e alla povertà della vita intellettuale al di fuori dai canoni consentiti. Tant’è vero che nel 1938 Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, annotò nel suo diario che circolavano «barzellette a josa. Fioriscono ai margini della disciplina cieca e muta».

A grandi linee, nel fenomeno si può anche rintracciare una tendenza generale: barzellette, battute e parodie su Mussolini, i gerarchi e il fascismo, tra i ceti popolari, avevano più spesso il retrogusto di una critica sincera e sentita, portata avanti nonostante i rischi di denuncia. Tra i ceti medio-alti, invece, rispondevano più di frequente al mero spirito di divertissement, che non intaccava la sostanziale adesione al fascismo e al mito del duce.

La polizia politica mise sotto torchio coloro i quali venivano sorpresi a raccontare storielle ironiche contro il duce e il regime, nel difficilissimo intento di risalire a chi le aveva create. Così il prefetto di Sassari nel 1932 denunciò un tale che in pubblico chiese: «Sapete quale è la differenza tra il Popolo d’Italia e Mussolini? La differenza è che Mussolini ha i pieni poteri, ed il popolo d’Italia ne ha i coglioni pieni». Quello di Forlì invece nel 1934 diffidò un uomo che in un albergo di Riccione andava raccontando che «Hitler ha i baffi rossi perché Mussolini ha le emorroidi». L’anno seguente una barberia romana attirò l’attenzione delle autorità per essere una sorta di covo di satira antifascista: «Il Duce chiamò a sé un Accademico d’Italia per chiedergli di sostituire nel vocabolario italiano la parola culo. Dopo alcuni giorni l’Accademico tornò a Lui per riferirgli che aveva trovato la nuova parola. Il nuovo vocabolo sarebbe stato comprensione. Il Duce si meravigliò e disse: che c’entra questa parola? L’Accademico rispose: come? Ce lo ha insegnato Lei stesso quando in un discorso disse che il Fascismo era entrato nella comprensione del Popolo Italiano».

Un filone molto gettonato era quello di prendere di mira corruzioni e ruberie che abbondavano tra le gerarchie del regime. Ne è un esempio la barzelletta allusiva riferita da un rapporto del prefetto di Milano a fine 1934, raccontata sempre da un barbiere, ma all’uomo sbagliato, un fiduciario fascista che prontamente sporse denuncia: «Mussolini si recò un giorno da un dentista per farsi estirpare un dente che gli faceva male. Dopo l’operazione chiese quanto doveva ed il dentista pretese la somma di lire mille. Mussolini protestò per il caro prezzo, ma, poi, finì col pagare; però, nel consegnare il denaro, disse: “Queste sono le mille lire, ma guardi che sono rubate”. Il dentista rispose: “Non ne dubito”». «Una volta – recitava un’altra storiella sarcastica – un operaio comprò della frutta, ma essendosi accorto che era stata avvolta in un giornale dove vi era l’effige del Duce, disse di cambiare la carta altrimenti si mangiava anche la frutta».

Anche le sigle, tanto diffuse sotto il regime, erano terra fertile per far proliferare l’ironia: Pnf diventò «Per Necessità Familiare» o anche «Pane Nostro Fatigato» e per i fascisti doc «Per Niente Fare» oppure «Preparazione Nostri Furti», mentre Mvsn venne tradotta in Mai Visto Sudare Nessuno, Gil in Gioventù Incretinita del littorio». E a Roma c’è chi inventa una nuova interpretazione dell’S.P.Q.R. letto per diritto e per rovescio, riferita ai gerarchi fascisti: «-Signori Podestà, Quanto Rubate? E quelli rispondevano con fascistica imperiosità: – Rubiamo Quanto Possiamo. Silenzio!».

Tuttavia, a conferma che barzellette e storielle dietro l’ironia celavano solide verità, si metteva alla berlina anche la mancanza di coraggio del popolo italiano: «In casa: – Accidenti a quel ladro di Mussolini! Morte a tutti quei filibustieri fascisti! Fuori di casa: – Viva il duce! Viva il fascismo». O la sua intelligenza, come nel seguente epigramma: «Povero popolo, / quanto sei bravo! / Farti suo schiavo / può un fanfarone / che da un balcone / ti sa incantare; / se fa il giullare / con le parate, / le smargiassate, / tu corri appresso... / Povero popolo, / quanto sei fesso!»

(Il Domani, 5 novembre 2022)

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Mussolini: il 25 luglio il suo arresto fu concordato con il re?

di Mario Avagliano

Il 26 luglio del 1943, mentre in piazza e nelle strade centinaia di migliaia di italiani ancora festeggiano la caduta del fascismo, i principali quotidiani titolano in prima pagina, a caratteri cubitali, «Le dimissioni di Mussolini». Un modo alquanto edulcorato di informare l’opinione pubblica su quell’evento storico, dopo vent’anni di dittatura e di rigido controllo della stampa da parte dell’occhiuta censura del Minculpop.

In realtà la mattina del 25, dopo la votazione notturna dell’ordine del giorno Grandi da parte del Gran Consiglio del Fascismo, il duce si è recato a Villa Savoia per un colloquio con il re Vittorio Emanuele III, il quale lo ha gelidamente congedato dalla carica di primo ministro. All’uscita, ha trovato ad attenderlo i carabinieri, che lo hanno arrestato e trasportato in caserma in ambulanza.

Ma se le cose non fossero andate esattamente così? Se invece Benito Mussolini avesse concordato con il re una sorta di finto arresto per evitare problemi con i nazisti e l’ala oltranzista del suo partito?

Ad avanzare questa tesi non è un testimone qualsiasi, ma Sandro Pertini, antifascista, partigiano, indimenticato presidente della Repubblica, in un’intervista inedita contenuta in un dvd allegato al libro di Ugo Intini dal titolo «Avanti! Un giornale. Un’epoca. 1896-1993» (Ponte Sisto, 700 pp., euro 20), che racconta la storia del quotidiano socialista e propone anche colloqui con Pietro Nenni, Alberto Jacometti, Lelio Basso e Riccardo Lombardi. Pertini sostiene che quando Mussolini fu arrestato dal re, i due erano d'accordo, aggiungendo che anche il generale dei carabinieri Angelo Cerica, che organizzò il blitz, la pensava allo stesso modo. La spiegazione logica è fornita dallo stesso Pertini. Mussolini aveva capito che la guerra era perduta e che il fascismo era finito. Cercava perciò una via di uscita dignitosa e tale da salvargli la vita. L’arresto gli consentiva di abbandonare il posto di comando contro la sua volontà e così nessuno (a partire da Hitler) poteva accusarlo di codardia. Un accordo conveniente anche per il re, che salvava la faccia, dopo aver formalmente condiviso tutte le scelte del regime fascista, compreso le leggi razziali del 1938 e l’ingresso in guerra.

In seguito, gli avvenimenti presero una piega diversa, ma in quei giorni ci fu una grande ambiguità. Mussolini, almeno in questa prima fase, non gridò al tradimento o al golpe, né ci furono reazioni troppo veementi da parte dei fascisti.

La tesi di Pertini è interessante, anche se – per ora – priva di riscontri documentali. Certo che prendendo in esame questa versione dei fatti, assumerebbe una luce diversa anche il paradossale scambio di lettere tra i due futuri nemici giurati, Mussolini e Badoglio, all’indomani del 25 luglio.

Badoglio infatti tratta l’ex dittatore con i guanti di velluto, con tono sussiegoso, scusandosi e dandogli del voi, alla maniera fascista. «Il sottoscritto capo del governo – scrive - tiene a far sapere a S.V. che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale interesse essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto verso la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare».

Mussolini gli risponde in modo altrettanto sorprendente, offrendosi addirittura di collaborare: «Desidero ringraziare il maresciallo d’Italia Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. Unica residenza di cui posso disporre e la Rocca delle Carminate, dove sono disposto a trasferirmi in qualunque momento. Desidero assicurare il maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione».

C’è nell'intervista con Pertini un altro elemento interessante, solo in parte conosciuto. Pertini sostiene che esisteva il progetto di fare il principe Umberto capo della Resistenza. Se così fosse avvenuto, l’esito del voto tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946 avrebbe potuto essere diverso e magari al Quirinale negli anni Ottanta non ci sarebbe stato Pertini ma forse lo stesso Umberto.

Un altro episodio curioso emerge dall’intervista, anche questa inedita, ad Alberto Jacometti, diventato segretario del Psi dopo la disfatta del Fronte popolare nel 1948. Jacometti racconta che dopo l'accordo tra Hitler e Stalin del 1939, per un anno e mezzo il mondo sembrò capovolto. A Ventotene, dalle camerate dei detenuti comunisti, si sentivano gli applausi e i cori di entusiasmo quando la radio annunciava le vittorie tedesche. La storia riserva sempre sorprese.

24 giugno 2022

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La Tangentopoli del Duce

di Mario Avagliano 

È una sera qualsiasi del 1975, a Genova. Sul palco si esibisce l’attore Walter Chiari e all’improvviso lancia una provocazione al pubblico. «Quando Mussolini fu appeso per i piedi a Piazzale Loreto – afferma -, dalle sue tasche non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lor signori!» La cronaca non ci dice se la sua battuta venne accolta dagli applausi, ma non c’è dubbio che l’attore, che aveva trascorsi giovanili nella Repubblica Sociale, esprimeva un luogo comune sulla presunta onestà del duce e del regime fascista che è ancora diffuso in Italia.

Una “fake-news”, si direbbe oggi, che viene fatta a pezzi dal prezioso lavoro di ricerca di Mauro Canali e Clemente Volpini in «Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo» (Mondadori). Un saggio che, attraverso documenti inediti provenienti dal Ministero delle Finanze, versati all’Archivio Centrale dello Stato e messi solo da poco a disposizione degli studiosi, ci fornisce un’impietosa radiografia del malaffare in camicia nera, facendo i «conti in tasca» ai gerarchi. A partire dal capo assoluto del fascismo, che nel 1919 aveva fondato il suo movimento anche per combattere i profittatori di guerra (i cosiddetti “pescicani”), e che invece quando il 25 luglio 1943 perde il potere, è un uomo ricco, proprietario di numerosi terreni e immobili di pregio, molti dei quali prudentemente intestati alla moglie Rachele, e di un imponente complesso tipografico. Beni che saranno valutati, nel 1950, circa 2 miliardi. I vent’anni di potere assoluto hanno reso il «povero maestrino» e la «contadina sempliciona e rozza» di Predappio due ricchi borghesi.

La ricerca storica di Canali e Volpini prende le mosse all’indomani della caduta di Mussolini. È il 5 agosto e da pochi giorni il maresciallo Pietro Badoglio si è insediato al Viminale col suo governo tecnico-militare che ha spodestato il duce dopo un ventennio di regime, mettendolo agli arresti anche se, pudicamente, i giornali hanno parlato di "dimissioni". Quel giorno, però, bando alla prudenza: quasi tutti i quotidiani riportano una notizia sensazionale. Il governo Badoglio ha istituito una commissione con il compito d’indagare sulle fortune accumulate dai gerarchi: i cosiddetti illeciti arricchimenti del fascismo. Una vera e propria Tangentopoli ante litteram. Il duce e i ras del regime, un tempo intoccabili, temuti e riveriti da stampa e opinione pubblica, vengono sbattuti in prima pagina con l’accusa di corruzione e concussione.

Quello che il libro scoperchia è un autentico verminaio. Una storia di tangenti e appalti, di capitali che trovano riparo all’estero, di raccomandazioni, di festini e di sesso, di cricche e di prestanome; un intreccio perverso tra politica e affari, alla faccia del rigore e dell’onestà tanto proclamati dalla propaganda fascista. Vicende a tratti grottesche, con fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni del water, tesori sepolti in giardino. Verbali di sequestro dettagliati e scrupolosi che testimoniano gli illeciti arricchimenti del fascismo: ville favolose, palazzi, pellicce, arazzi, gioielli scintillanti, fino al numero di posate in argento, all’ultima pantofola, calza e mutanda dei gerarchi inquisiti. Solo in piccola parte questi patrimoni torneranno nei bilanci dello Stato.

Alla ribalta salgono nomi eccellenti. Si scopre ad esempio che Alessandro Pavolini, il Robespierre nero, ministro del Minculpop, boss del cinema di regime, è pronto a tutto, anche a cambiare le leggi, pur di far felice l’amante, l’attrice e icona sexy Doris Duranti (la prima, assieme a Clara Calamai, ad apparire sullo schermo con il seno nudo). L’integerrimo Roberto Farinacci, l’ideologo della purezza fascista, ha accumulato un patrimonio di centinaia di milioni: niente male per un ex ferroviere diventato avvocato copiando la tesi di laurea. Edmondo Rossoni, ex leader sindacale, considerato «la migliore forchetta del regime» e non solo perché usa pasteggiare con posate d’oro, si è invece costruito nel Ferrarese un vero e proprio impero immobiliare. Il mercimonio e la corruzione non risparmiano neppure le pratiche per ottenere l’arianizzazione: diversi ebrei per sfuggire in questo modo alle leggi razziste sono costretti a versare ai gerarchi fascisti pesanti tangenti. C’è poi Mussolini e i suoi «affari di famiglia», con gli intrallazzi di Galeazzo e Edda Ciano, l’avidità di donna Rachele e la rapacità del clan della famiglia della sua amante Claretta Petacci.

Un libro necessario quello di Canali e di Volpini, che smitizza una volta di più le presunte virtù del fascismo italiano, che fu un regime dittatoriale, guerrafondaio e razzista e non brillò neppure per integrità morale, lasciando all’Italia repubblicana una triste e penosa eredità di corruzione della politica e della burocrazia.

(Il Mattino, 26 agosto 2019)

 

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Quando Mussolini incantò Hemingway

di Mario Avagliano
 
Il grande bluff del fascismo e di Benito Mussolini abbagliò non solo milioni di italiani, ma anche buona parte della stampa internazionale (oltre che politici di lungo corso o alle prime armi, da Winston Churchill al giovane John Kennedy). I corrispondenti americani nel Belpaese, dopo la marcia su Roma, per diversi anni fecero a gara a intervistare il dittatore italiano ed espressero la loro ammirazione per il duce dal “famoso cipiglio stampato sul volto”, come lo definì nel 1923 lo scrittore Ernest Hemingway, futuro premio Nobel per la letteratura.
 
Lo stesso Hemingway, che anni più tardi in Spagna si scaglierà con veemenza contro i fascisti di Franco, già nel giugno del 1922, dalle colonne del “Toronto Daily Star”, aveva difeso Mussolini dagli attacchi di violenza politica: “È un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi, non è il mostro che è stato dipinto, non è come viene descritto, non è un rinnegato socialista, ha avuto molte buone ragioni per lasciare il partito”.
 
E se Hemingway fu tra i primi a capire chi fosse realmente Mussolini e a ritrattare le sue posizioni, stigmatizzandolo come «il più grande bluff d’Europa», ci fu invece chi rimase a lungo ottenebrato dal duce e ne tessé le lodi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, come racconta il saggio di Mauro Canali intitolato “La scoperta dell’Italia” (Marsilio, pp. 480), vincitore del Premio Fiuggi Storia.
 
In effetti il movimento fascista, inventato in Italia (spesso ci si dimentica di questo non invidiabile primato nazionale) e poi esportato all’estero, fenomeno nuovo e sconosciuto alla cultura politica del mondo occidentale, si rivelò agli occhi della stampa estera un enigma difficile da decifrare e narrare. E diversi giornalisti presero lucciole per lanterne, ignorando la soppressione delle libertà imposta dal regime fascista ed arrivando ad attribuire a Mussolini una riforma del capitalismo unita all’umanitarismo sociale, almeno prima che la guerra in Etiopia e le leggi razziste del 1938 rivelassero la vera identità del fascismo.
 
Furono numerose le testate statunitensi, dal Chicago Daily News al Chicago Tribune, dal Public Ledger di Filadelfia al New York Herald Tribune al New York Times, che ospitarono articoli favorevoli al fascismo, come risulta dalla ricerca di Mauro Canali. Anzi l’arrivo al potere del fascismo indusse molte agenzie e giornali ad aprire uffici di corrispondenza a Roma (sottoposti peraltro a sorveglianza dal regime). II duce venne descritto dai giornalisti americani come un dittatore buono, un vero “Man of People”, un uomo di governo abile, spregiudicato e dinamico, conquistando anche corrispondenti di sicura fede democratica, come Walter Lippmann, vincitore poi di due premi Pulitzer e schieratosi negli anni Sessanta contro la guerra in Vietnam; Ida Tarbell, detta la «rossa radicale» per la vicinanza alle posizioni del movimento socialista americano; Anne O’Hare McCormick, che sul supplemento domenicale del New York Times definì il fascismo giusta espressione della rivolta dei giovani «stanchi degli armeggi dei parlamenti»; e perfino la marxista e femminista Louise Bryant, moglie di John Reed, che era stata con lui in Russia nei giorni della Rivoluzione d’Ottobre.
 
Per molti anni Mussolini, si legge nel saggio di Canali, “godette di grande popolarità presso la stampa americana”, che esaltò il decisionismo, l’iperattivismo e la ferrea volontà del giovane dittatore nell’imporre regole a un popolo che in fondo consideravano anarchico, paragonandolo addirittura a Theodore Roosevelt. Le cause dell’abbaglio? Il merito attribuito al duce di aver salvato l’Italia dal “red scare”, il pericolo rosso, e di averla modernizzata, ma anche la scelta del regime fascista dell’intervento statale nell’economia, sul modello del New Deal di Roosevelt, e della risoluzione dei conflitti sociali attraverso il corporativismo.
 
Ma vi fu anche chi non cadde affatto nella trappola verbale di Mussolini, come il romanziere Francis Scott Fitzgerald, che giunto a Roma nel 1924 con la moglie Zelda, parlò subito di Italia come una terra morta e criticò lo pseudodinamismo del duce, definendolo un “tiranno”.
 
(Il Mattino, 22 febbraio 2018)

Storia degli italiani che a Salò si schierarono dalla parte sbagliata

di Concetto Vecchio

Cosa spinse migliaia di uomini e donne, spesso giovanissimi, ad aderire, a fascismo caduto, alla Repubblica sociale di Salò? Lo fecero per un’estrema convinzione ideale, per patriottismo, per fede nel Duce, certo; ma anche per “proteggere la famiglia”; “per non perdere il posto”; “per evitare l’internamento ideale”, come emerge dal campione di motivazioni riportato da Mario Avagliano e Marco Palmieri in L’Italia di Salò 1943-1945, edito da Il Mulino. Un saggio rigoroso che fa i conti con questi italiani che decisero di combattere dalla parte sbagliata, per mettersi, dopo il Ventennio, e i disastri della guerra, ancora una volta al servizio di Mussolini.

A lungo la Rsi fu un tabù per gli studi storici. Da un lato i reduci diedero vita a una storiografia spesso di parte o apologetica. Nel campo antifascista si negò ogni dignità a coloro i quali, dopo l’8 settembre, militarono nella rifondazione fascista: i fascisti, durante la guerra civile, li avevano etichettati come banditi, fuorilegge e animali. Ma a pesare, nella valutazione del campo antifascista, c’erano le indicibili violenze di cui gli aderenti alla Rsi si macchiarono contro la popolazione civile e i partigiani nel crepuscolo della loro esperienza. Avagliano e Palmieri mettono in fila le impressionanti cifre, tratte dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 1943-45: furono uccisi 23662 civili per un totale di 5626 episodi violenti e criminali. A questa macabra contabilità i militari della Rsi contribuirono nella misura del 20 per cento.

Ora l’approccio degli autori è scientifico e cerca di fornire delle risposte con una prospettiva storica. «Perché molti giovanissimi compirono quella scelta, che tipo di esperienza vissero sotto le armi coloro che combatterono per Salò, cosa sapevano della Resistenza, e come la giudicavano?»: una congerie di motivazioni che Giorgio Bocca definì, con un’espressione icastica, «la pentecoste dei diversi». Quindi questo libro è anche un’indagine sugli italiani. «Ritornato dalla Francia quale fuoriuscito ritenni opportuno – confessa Luigi, classe 1892, di Lumezzane – aderire alla Rsi perché avevo otto figli e mi si disse che solo con l’iscrizione avrei potuto trovare il modo di sostenerli».

(la Repubblica, 19 giugno 2017)

 

Italia nera, Italia rossa, Italia liberata

di Andrea Rossi

Con “L’Italia di Salò” (Il Mulino, 2017), Mario Avagliano e Marco Palmieri proseguono la loro opera di scavo nel “come eravamo” della nostra nazione, e come nei volumi precedentemente editi, emergono dettagli importanti trascurati in altri studi sul passaggio traumatico dal regime fascista alla democrazia in Italia. Avevamo lasciato in Vincere e vinceremo, un paese stremato e maturo per il collasso istituzionale soprattutto a causa del crollo del fronte interno, ma con ancora fiammate di sincero appoggio al fascismo e alla guerra mussoliniana.

La scomparsa del duce dalla scena politica provoca l’ira sorda dei fascisti, i quali, a differenza di come è stato detto e scritto per decenni, non si nascondono e non si convertono, anzi, in molti casi già iniziano a pensare al “dopo” che ritengono inevitabile, ossia l’arrivo dei tedeschi per il ristabilimento dell’ordine interno e delle alleanze belliche. Se quindi il 25 luglio provoca sgomento e desiderio di vendetta fra le camicie nere e fra i tanti simpatizzanti di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre è il momento in cui, drammaticamente emergono le fratture nel tessuto sociale della nazione, seguendo fratture già “in nuce”: dittatura contro democrazia, onore contro libertà, volontarismo contro l’attendismo; il ritorno di Mussolini, la fondazione di uno stato fascista sotto l’aquila nazista e il proseguimento della guerra saranno poi le condizioni perché questo magma ribollente inizi a percorrere l’inevitabile sentiero della guerra civile.

Da nessuno voluta (almeno a parole) ma da tutti combattuta, la lotta fratricida sarà lo stigma dei seicento giorni di Salò, con gradazioni diverse di partecipazione: dai soldati in grigioverde reclutati con i bandi emessi da Rodolfo Graziani, che per evitarla diserteranno in modo massiccio, spesso verso le formazioni partigiane (ma anche semplicemente per tornare a casa), alle brigate nere che hanno nel loro dna la repressione dell’antifascismo e della resistenza.

Nel vortice finiranno tutti: uomini e donne, giovanissimi e squadristi del ’22, torturatori e galantuomini, profittatori e persone perbene: come spesso accade, nella resa dei conti conclusiva di una guerra civile, il conto sarà pagato in solido non dai più colpevoli ma quasi sempre dai meno furbi, mentre molti fra i capi riuscirono a passare indenni dalla bufera successiva al 25 aprile 1945. Avagliano e Palmieri indagano con maestria questi “cluster”, e fanno luce sulle motivazioni di alcuni protagonisti, ma soprattutto dei tanti comprimari, tratteggiando una comunità disperata e assieme orgogliosa, spietata e talvolta umanissima, che finì per trovarsi dalla parte sbagliata della storia.

 

(Orientamenti, 1° giugno 2017)

Le "ragioni" dei vinti. La recensione di Avvenire

di Angelo Picariello

La storia dei vinti raccontata da loro stessi, "dal basso", dalle memorie minime dei protagonisti, al momento di arruolarsi, o alla fine di tutto, coi plotoni di esecuzione già schierati. L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri ripercorre le vicende del biennio che divise l’Italia in due, sul piano ideologico e territoriale: dal Gran Consiglio del 24 luglio 1943 che portò alla rimozione, da parte del re, di Benito Mussolini e al suo arresto, fino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione. Passando per l’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre, ma annunciato la sera dell’8; il blitz tedesco che portò alla liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, l’annuncio della nascita della Repubblica Sociale da Radio Monaco, il 18 settembre.

Un vuoto storiografico già colmato dal racconto in chiave "reducistica" di Giorgio Pisanò, dalle ricerche di Renzo De Felice e Aurelio Lepre, dalla narrativa storica di Giorgio Bocca e Gianpaolo Pansa, dai saggi a quattro mani di Indro Montanelli e Mario Cervi. Ma questo nuovo, prolifico, binomio Avagliano-Palmieri si addentra soprattutto nella documentazione privata, nei racconti di vita vissuta sempre necessari a completare il delinearsi di un quadro storico, ma particolarmente determinanti nel definire gli eventi di un regime istituzionale provvisorio che, per forza di cose, ha lasciato poche fonti ufficiali cui poter attingere.

Vicende umane da inserire «nella temperie di una guerra totale che, in nome di contrapposte visioni ideologiche, vide scontrarsi eserciti regolari, formazioni altamente politicizzate, movimenti resistenziali, gruppi etnici, fedi religiose e non risparmiò la popolazione civile». Sullo sfondo le alterne vicende della guerra, ma anche le nuove motivazioni che fornì, appena prima del tracollo definitivo, il celebre discorso di Mussolini al teatro lirico di Milano il 16 dicembre 1944. Nomi famosi finirono dalla parte sbagliata, facendo la scelta che parve loro più coerente, come disse ad esempio l’attore Raimondo Vianello spiegando la sua, o anche solo più conveniente, come affermò candidamente Dario Fo, motivandola semplicemente con l’obiettivo di "portare a casa la pelle". Giornalisti come Enrico Ameri o Livio Zanetti, attori come Walter Chiari, Carlo Dapporto, Giorgio Albertazzi (che si definirà «non fascista» e spiegherà la sua adesione con l’idea di «orgoglio nazionale ») o Enrico Maria Salerno. Divertente il racconto di quest’ultimo che, ricorrendo ai suoi virtuosismi di guitto, tenterà di sfuggire all’arresto fingendosi matto e riempiendo di ingiurie la commissione che lo interrogava.

Tanti giovani si arruolarono convinti che il no alla monarchia asservita alle convenienze dei ceti borghesi traditori fosse la scelta giusta. «È con le lacrime agli occhi – scrive da Bologna ai suoi un giovane entrato nei bersaglieri – ma col cuore fermo che vi comunico la mia decisione. Voi mi avete educato nel culto della nostra cara Patria e mi avete insegnato ad amarla. Roma stessa è in pericolo, perciò tocca a noi giovani indomiti difenderla».

Anche la Chiesa fu attraversata da divisioni, a seguito di una precisa strategia perseguita dal fascismo repubblichino, che fin dall’assemblea di Verona del novembre 1943 si propose di «avvicinare cordialmente i sacerdoti», per «indurli a esprimersi pubblicamente con le parole e con la stampa» in favore della Rsi. Sacerdoti risposero positivamente, come don Vittorio Genta che all’inizio del 1944 invia una circolare ai parroci della diocesi di Asti affinché si attivino nel portare sulla «buona strada renitenti e disertori». E che non fu solo una storia di diverse convenienze lo dimostra il racconto minuzioso, in gran parte inedito, delle tante adesioni nelle regioni dal Sud. Sud già liberato dagli Alleati, dove il re aveva cercato riparo e dove il fascismo era da tempo un lontano ricordo.

(Avvenire, 26 maggio 2017 - pag. 13)

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