Intervista a Sabino Cassese

di Mario Avagliano
 
Il massimo esperto dello Stato e della burocrazia italiana è un salernitano, il professor Sabino Cassese, figlio dello storico Leopoldo. Già ministro per la Funzione Pubblica nel governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, Cassese conduce da almeno trent’anni una coraggiosa battaglia per la riforma della pubblica amministrazione. Da Roma, dove vive e insegna (è titolare della cattedra di Diritto Amministrativo nella facoltà di giurisprudenza dell'Università "La Sapienza"), parla con “poco rimpianto” della Salerno degli anni 40-50 e loda invece la città di oggi: “E’ rifiorita”.
 
Lei è salernitano, però all’anagrafe risulta nato ad Atripalda.
Mio padre Leopoldo era irpino, originario di Atripalda, e io sono nato lì, ma quando avevo appena un mese di vita ci siamo trasferiti a Salerno.
Come mai?
Mio padre lavorava già da tempo a Salerno, era Direttore dell’Archivio e poi diventò anche professore di archivistica.
Che ricordi ha di Salerno negli anni della sua infanzia?
Beh, ricordo soprattutto la guerra, la città sventrata dai bombardamenti, lo sbarco degli Alleati. Ovviamente tutti questi avvenimenti erano visti da me con gli occhi di un ragazzo di sette anni. Voglio dire che per me erano avvenimenti paurosi ma anche avventurosi, anzi il lato dell’avventura spesso prevaleva, anche se talvolta nei volti degli adulti leggevo un timore vero. 
Per esempio quando?
Una volta, durante i primi bombardamenti dal mare, eravamo nel rifugio della Prefettura. Le bombe caddero proprio accanto a noi. Il giorno dopo scoprimmo che il rifugio parallelo al nostro era stato distrutto e tutti gli occupanti erano morti.
Nel dopoguerra Salerno tornò a nuova vita. Com’era la città di allora?
Era una città piccola e anche molto provinciale. Tutta la vita mondana era concentrata nella passeggiata di via dei Mercanti. Il lungomare fu completato solo più tardi. Non c’erano grandi fermenti culturali. Mi è rimasto impresso che quando andavo alla Biblioteca provinciale, era complicatissimo  prendere in prestito qualche libro.
Qualche anno dopo lei si ritrovava sui banchi del Liceo Tasso.
Ero nella sezione A. Ebbi la fortuna di avere grandi professori: Guercio, che insegnava italiano e latino, la signora Amendola faceva matematica e Coppola mi iniziò al greco. Coppola era un vero personaggio, era allievo di Perrotta ed estimatore di Gentili.
Chi erano i suoi amici?
Tanti nomi li ho dimenticati. Si dice che chi ha avuto un’infanzia felice, ricorda poco di quel periodo. Comunque mi vengono in mente Enzo Barba, Enrico Vignes, i figli del preside Di Palo del Liceo Scientifico.
Prima di andare via da Salerno lei partecipò all’esperienza del “giornale parlato”, alla Libreria Macchiaroli di Piazza Malta.
Fu un’iniziativa interessante. Mi ci portò mio fratello Antonio, poi docente di diritto internazionale all’Università di Firenze e presidente del Tribunale internazionale sui crimini di guerra in Jugoslavia. Ma allora la vivacità culturale di Salerno era limitata a poche persone.
Nel ’52, a diciassette anni, lei s’iscrisse alla Normale di Pisa.
Era il primo anno che veniva bandito un concorso per il settore giuridico. Vinsi il concorso e così feci le valige per la Toscana.
Un bel salto per un adolescente.
Pisa era molto chiusa come città, solo che allora a Salerno c’era solo la città, a Pisa c’era la città e c’era la Normale.
E com’era l’ambiente della Normale?
Un ambiente vivacissimo sia dal punto di vista culturale che da quello politico. Nel 1953 fu approvata quella che poi fu definita la legge elettorale “truffa”. L’atmosfera era molto eccitata.
Salerno le mancava?
Allora il trasferimento in un'altra regione d’Italia era molto più difficile di adesso. La differenza di accento pesava, anche perché la tv non c’era ancora e non aveva contribuito, come ha detto De Mauro, a creare un linguaggio omogeneo nel Paese. Io però mi sono integrato bene. Appartengo alla categoria dei meridionali “traditori”, quelli che bruciano le tende e guardano avanti al futuro. Salerno è una città che apprezzo e che amo, ma mi sento un cittadino d’Italia.
Dopo la laurea e l’inizio della carriera come docente universitario, è diventato quasi subito uno dei protagonisti della battaglia per la riforma dello Stato. A trent’anni dalle sue prime riflessioni su questo tema, che cosa è cambiato?
Il fumo è stato tanto, l’arrosto è stato meno del fumo. 
Partiamo dall’arrosto.
Per certi versi ci siamo messi al passo con l’Europa. Il numero dei ministeri, che era intorno a 25, è stato ridotto della metà. L’amministrazione è meno pesante e costosa, grazie al contenimento della crescita dei dipendenti. Il rapporto di lavoro, che era dominato dallo statuto pubblicistico, ora è privatizzato. Funzionari di tutti i ministeri partecipano quotidianamente alle riunioni che si tengono a Bruxelles.
E il fumo?
I ministeri sono diminuiti ma sono rimasti dei complessi mastodontici. Le strutture interne dei ministeri si sono moltiplicate, invece di ridursi. Molte semplificazioni sono rimaste sulla carta, o hanno ulteriormente complicato il lavoro amministrativo. 
A cambiare lo Stato ci ha provato anche lei, da ministro del governo Ciampi. Che cosa ricorda di quell’esperienza?
E’ stato un periodo difficile e felice. Difficile perché il nostro Stato  attraversava il momento di maggiore crisi, Tangentopoli, il Parlamento degli inquisiti, il governo tecnico… Felice perché si è potuto lavorare come in pochi altri momenti della storia italiana, con una certa indipendenza dagli interessi di partito e di fazione e con la guida di una personalità come Ciampi, di qualità superiore, capace di fissare un disegno e di lavorare insieme agli altri per realizzarlo. Abbiamo varato tante riforme, ma molte sono state disfatte dai governi successivi.
Ora al suo posto c’è un altro salernitano, il ministro Mazzella. Qual è il suo giudizio sul suo operato?
Troppo presto per giudicare. Il primo bilancio però mi sembra positivo, ha fatto due o tre scelte ottime, come fare un passo indietro sullo spoil-system e provare a dare una sistemazione al problema delle autorità indipendenti.
Qual è l’elemento che frena la riforma della pubblica amministrazione?
Io credo che molto vada imputato a quel fenomeno che avevo già descritto nel 1971 nel mio libro Questione amministrativa e questione meridionale, e che peraltro era stato studiato da Salvemini. Mi riferisco alla meridionalizzazione dello Stato, che è il risultato e il simbolo della debolezza della pubblica amministrazione italiana. 
Cioè?
Il risultato perché nel Mezzogiorno non ci sono imprese e quindi il lavoro nello Stato è lo sbocco naturale della gran parte dei meridionali. Il simbolo perché i meridionali sono persone nelle cui vene non è mai entrato il sangue di coloro che si svegliavano con le sirene delle fabbriche.
E che c’è di negativo in questo?
Lo Stato italiano è stato impregnato della cultura meridionale, che è una cultura contadina, crociana, hegeliana, di matrice idealista. La conseguenza è che nei gangli della pubblica amministrazione non è penetrata la cultura delle fabbriche, della razionalità tayloriana, quel tipo di cultura che sa valutare i tempi e i costi. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, ma ancora troppo poco.
Lei ha toccato il tema della questione meridionale. Esiste ancora una questione del Mezzogiorno e come si fa, secondo lei, a superare il gap atavico tra Sud e Nord?
Il Sud può rinascere solo se smette di lamentarsi. Prenda la questione delle banche, sembra di sentire in queste settimane le parole di Nitti che accusava il Nord di “spolpare” il Mezzogiorno. Basta con queste lamentele. Il Sud deve cominciare a fare con le sue mani.
Una visione che lascia poco spazio alla speranza.
No, niente affatto. Una parte del Sud ce l’ha già fatta: la Puglia, la Basilicata. E’ soprattutto la nostra Campania ad annaspare. L’entroterra di Napoli è in condizione penose.
A proposito di Campania, che giudizio da’ della Salerno di oggi?
Senza voler sembrare esagerato, direi che in scala ha avuto la stessa evoluzione di una città come Washington. Ricordo che Washington negli anni Sessanta era una piccola città di provincia. Adesso è la capitale di un Impero. Anche Salerno è cambiata profondamente. Ora è piena di vita, è ricca di iniziative culturali, di conferenze…
La trovata cambiata anche fisicamente?
Salerno è rifiorita, ha ritrovato quella dimensione che aveva perduto. Le ultime volte che sono andato a Salerno sono rimasto impressionato dalla rinascita fisica dei luoghi. In Italia non si da’ grande rilevanza a questo aspetto, lavoriamo in città sporche, in università fatiscenti, invece i luoghi sono importanti, determinano gli uomini.
Una volta tanto c’è un’amministrazione pubblica meridionale che funziona?
Salerno è una splendida eccezione. Ma quando una città rifiorisce, non è merito solo della pubblica amministrazione, è anche la società che si è rimboccata le maniche.
 
(La Città di Salerno, 18 maggio 2003)
 
Scheda biografica
 
Sabino Cassese è nato ad Atripalda (Avellino) il 20 ottobre del 1935, ma ha trascorso la sua infanzia e adolescenza a Salerno. Ha frequentato il Liceo Tasso e poi si è laureato in giurisprudenza all’Università di Pisa dove è stato allievo del collegio giuridico della Scuola Normale Superiore. Titolare della Cattedra di Diritto Amministrativo nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Roma "La Sapienza", è dottore "honoris causa" delle Università di Aix-en-Provence, Cordoba (Argentina), Toledo, Macerata, Atene e Parigi. Già Ministro per la Funzione Pubblica nel governo Ciampi (1993-1994), dirige il "Giornale di diritto amministrativo” e la "Rivista trimestrale di diritto pubblico" ed ha curato il Trattato di diritto amministrativo (2000). Tra le sue opere recenti: Maggioranza e minoranza - Il problema della democrazia in Italia (1995), Lo Stato introvabile (1998), La nuova costituzione economica (2000), Casi e materiali di diritto amministrativo (2001), Manuale di diritto pubblico (2001), La crisi dello Stato (2002), Lo spazio giuridico globale (2003). 

 

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