Storie – Il 4 giugno del 1944 e la liberazione di Roma

di Mario Avagliano

Anniversari da ricordare. Il 4 giugno del 1944 Roma viene liberata dagli Alleati. “Si grida nella strada e si applaude al loro passaggio: Roma è libera e i tedeschi se ne sono andati”, è l’esplosione di gioia di Mario Tagliacozzo nel suo diario (Metà della vita, Baldini e Castoldi). “Non so più scrivere, non so più dire le mie impressioni: 9 mesi di lotte, di prigionia, di incubi, ed ora in un minuto tutto è finito. Roma è libera… anche noi siamo liberi… (…) La città echeggia di grida. Siamo tutti eccitati, siamo dei ragazzi scatenati e ci abbandoniamo alla nostra gioia, alla nostra emozione. Ho le lacrime in pelle; vorrei correre, vorrei uscire, vorrei parlare con tutti, vorrei poter gridare a tutti la mia gioia piena, sconfinata”.

In quelle ore, nelle menti e nei cuori degli ebrei romani rimbomba ancora l’eco della maxi-retata del 16 ottobre 1943 e della caccia all’uomo scatenata da nazisti e fascisti. E così la mattina dopo Tagliacozzo annota: “Troppe sono state le emozioni di ieri sera e ci sembra a tutti di sognare. Tutta la nera cappa di preoccupazioni e di terrori è caduta di colpo ed ora siamo liberi, possiamo respirare a pieni polmoni, gridare a piena voce, ridere e gioire. Se dovremo ancora soffrire, soffriremo come gli altri, ma non saremo più diversi dagli altri italiani e, senza temere, potremo gridare alto il nostro nome”.
E’ la fine di un incubo. Ma non la fine del dolore per la comunità romana: per i tanti, troppi parenti e amici scomparsi nella “notte e nebbia” del Reich. “Una nota di tristezza è in noi a velare la nostra gioia: mancano ancora Elena, Vito e Paolo; quando torneranno tra noi?”

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 4 giugno 2013)

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Storie – I 100 anni di Priebke e le falsità su via Rasella

di Mario Avagliano

C’è un filo nero che lega gli annunciati imminenti festeggiamenti per i 100 anni di Erich Priebke, uno dei boia delle Fosse Ardeatine, e le polemiche su via Rasella sollevate da Pippo Baudo in una trasmissione Rai di prima serata.
Da un lato il criminale di guerra nazista, al quale Herbert Kappler assegnò il compito di controllare le liste dei condannati a morte dell’eccidio delle Ardeatine (che alla fine furono 335, cinque in più del già assurdo rapporto di 1/10 ordinato a Berlino), che non si è mai pentito di quello che ha fatto e ora gode in Italia di un regime di semilibertà, passeggia impunemente per le vie di Roma e viene considerato un’icona dai suoi fan, che lo chiamano Il Capitano.
Dall’altro la tv pubblica, che sposa, senza alcun contraddittorio, le tesi di “atto terroristico” riguardo all’azione di via Rasella, dando voce al falso storico della richiesta di consegnarsi che sarebbe stata rivolta ai partigiani gappisti autori dell’azione.
Sui festeggiamenti di Priebke che, secondo quanto scrive il Corriere della Sera, sarebbero in via di organizzazione, in gran segreto, il giorno 29 luglio da parte del suo avvocato Paolo Giachini, si sono registrate le dure reazioni di esponenti della Comunità Ebraica di Roma, dell’Anpi, dell’Aned e dell’Anfim. “C’è poco da festeggiare”, ha giustamente scritto il vicepresidente Eugenio Iafrate sul profilo di Facebook dell’Aned. E se la festa si farà, in molti sono pronti a mobilitarsi.

Sul caso di via Rasella, l’Anpi ha criticato aspramente Baudo e i dirigenti di Viale Mazzini, ricordando le sentenze della Corte di Cassazione e di altri Tribunali che hanno stabilito che si trattò di “un legittimo atto di guerra” e la deposizione di Albert Kesserling al processo Kappler, nella quale il feldmaresciallo tedesco ammetteva che non fu rivolto alcun appello alla popolazione romana o ai responsabili dell'attentato prima di ordinare la rappresaglia
Ora forse ci sarà una trasmissione riparatrice. Ecco il post pubblicato sul profilo FB dell’Anpi nazionale: "Caso Pippo Baudo-Via Rasella: la RAI prospetta la possibilità di chiarire la vicenda in uno spazio apposito nella rubrica del mattino, (“Agorà”), che va in onda dalle 8 alle 10. Ovviamente, abbiamo rifiutato, perché il pubblico di quello spazio è molto diverso da quello serale e stiamo insistendo per una vera rettifica e non ci acquieteremo fino a quando non sarà stata ristabilita la verità".
Ma quanti danni sono già stati fatti alla memoria storica del nostro Paese, con tanti italiani che considerano Priebke “un soldato che ha fatto il proprio dovere” (parola di Mario Merlino, uno dei suoi fan, conosciuto come “Il professore nero”) e i partigiani come dei violenti terroristi?

(L'Unione Informa e il portale Moked.it del 23 luglio 2013)

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Le falsità della trasmissione di Baudo su via Rasella: la rettifica del Tg3

Ieri sera, martedì 30 luglio, nel corso del Tg3 delle 19 (edizione nazionale) è stato letto il comunicato di rettifica delle falsità sui fatti di via Rasella pronunciate durante la puntata dell'8 luglio de "Il viaggio". Il direttore Bianca Berlinguer ha letto la seguente precisazione: "Nella puntata di lunedì 8 luglio de “Il viaggio”, su RAI 3, condotto da Pippo Baudo, sono state fatte delle affermazioni imprecise e non corrispondenti a verità sull'eccidio delle Fosse Ardeatine e sui fatti di Via Rasella. Non fu offerta, infatti, alcuna possibilità ai partigiani dei Gap (gruppi di azione patriottica e non di azione proletaria come si è detto nella trasmissione) di offrirsi per salvare le vittime destinate alla fucilazione nelle Fosse Ardeatine: il Comando tedesco rese pubblica la notizia dell’eccidio solo dopo il suo compimento come riconosciuto dallo stesso maresciallo Kesserling nel corso di un processo. Ben due sentenze, poi, della Corte di Cassazione hanno qualificato l’azione diVia Rasella come “legittimo atto di guerra”. Il ricordo dei martiri delle Fosse Ardeatine, cui va sempre il nostro commosso pensiero, deve essere sempre improntato alla verità storica e mai strumentalizzato. La direzione RAI 3 prende doverosamente atto del comunicato dell’ANPI nazionale, rammaricandosi di quanto accaduto".

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Via Tasso: la storia non deve chiudere. Il museo della Liberazione di Roma in via Tasso è a rischio chiusura

di Stefania Miccolis

Il museo storico della Liberazione in via Tasso a Roma é in serie difficoltà economiche «Se non riusciamo ad approvare il bilancio preventivo del 2013 - dice il presidente Antonio Parisella - il museo verrà commissariato». Nella legge istitutiva che risale al 1957, è scritto che il Museo deve rappresentare la lotta di liberazione a Roma dall'8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, «ma si occupa di totalitarismi, di lotte di Resistenza, di antifascismo; nella nostra biblioteca, nell'archivio, nella mediateca c'è materiale a tutto campo su tali argomenti, e comprende anche documentazione di paesi esteri: vi sono diari della campagna in Russia, fotografie sul fronte greco. Ha il compito di fornire, raccogliere e conservare materiale su tutta l'esperienza di antifascismo».
Numeroso è il pubblico che ogni anno lo visita, dalle 13mila alle 15mila persone, e sempre più crescente è quello straniero. Le scuole vengono in visita con le loro classi gratuitamente. Gli studenti universitari fanno ricerche per le loro tesi e studiosi italiani e stranieri usufruiscono della biblioteca e degli archivi. Per citare solo due casi: Mario Avagliano ne ha tratto il libro Il partigiano Montezemolo (Dalai editore, 2012) e Robert Katz vi scrisse Roma città aperta: Settembre 1943 - Giugno 1944 (II Saggiatore) presentato in anteprima al Museo in segno di gratitudine.
«Ma tutto questo e i progetti ancora da realizzare verrebbero vanificati se ci fosse il commissariamento - prosegue Parisella -. Un commissario non può contare su quelle solidarietà che sono legate al nostro modo di essere: noi abbiamo relazioni di vertice e di base, non solo a Roma; abbiamo contatti con decine di gruppi, di associazioni di quartieri, centri sociali, centri per anziani, scuole, e collaborazioni con tutte le regioni italiane. E un commissario, per quanto bravo, non ci riuscirebbe: questa rete non si improvvisa! Anche il gruppo di volontari che lavora con noi di fronte a una situazione commissariale si troverebbe a disagio».
Diciotto sono i volontari di alta qualificazione, insegnanti in pensione, persone che si dedicano con grande passione, e ogni anno il gruppo si aggiorna anche con giovani. Poche le cifre simboliche date per incarichi di amministrazione, per l'archivio e la biblioteca; le risorse servono o per investimenti di ricerca o per il funzionamento della struttura. «Due anni fa la Regione cou una legge si impegnò con 25mila euro e il Comune con 12mila euro. Questi soldi erano stati messi in bilancio per il 2013, ma non sono stati erogati e le attuali amministrazioni, per le note vicende finanziarie, non sono in grado di fare fronte alle necessità entro il 31 dicembre».
II Museo deve trovare 37mila euro in poco più di un mese. Nel loro sito vi è una sottoscrizione aperta «e i nostri amici in Italia sono molti e si mobilitano sempre; ma se facessero una sottoscrizione fra i parlamentari e i consiglieri regionali del Lazio, il contributo sarebbe consistente, anche dal punto di vista morale: sarebbe un esempio». Il presidente Parisella sa benissimo che in questo momento gli istituti non possono soccorrersi l'un l'altro con il poco che viene dato loro. Inoltre è difficile coinvolgere qualsiasi ufficio ministeriale o dell'amministrazione locale con i grossi problemi finanziari e politici che hanno. Spera che il governo rifaccia una legge di rifinanziamento del Museo per ottenere l'autonomia economica: «Abbiamo inviato una richiesta al Ministro della cultura per sistemare la situazione futura del Museo e per fare una legge che permetta almeno di stare tranquilli. Ma bisognerà aspettare». Hanno un importante progetto da realizzare nel 2014 per conto della Presidenza del consiglio dei ministri: si chiama «Museo diffuso della Resistenza italiana» e si tratta di «un coordinamento, tramite un portale, degli oltre 160 musei della Resistenza che esistono in Italia. Si realizzeranno collegamenti, percorsi, un modo di comunicare in Italia e all'estero». Hanno poi progetti di pubblicazioni: un album con testi e fotografie della mostra di donne resistenti, perché venga usato nelle scuole; e un volume con il diario della campagna in Russia e i documenti autobiografici sulla Resistenza, lasciati dall'ex direttore del Museo Arrigo Paladini. «Le risorse per il 2014 ci sono, ma non quelle per quest'anno». Il Museo storico della Liberazione di Roma va salvato; Calderoli lo aveva barbaramente inserito nell'elenco degli enti inutili, ma è una preziosa fonte di storia, e non va né persa, né dimenticata.

Pubblicato su L'Unità del 5 novembre 2013

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Storie - Un amore alle Ardeatine

di Mario Avagliano

 L’amore vince anche l’orrore. È la straordinaria storia di Franca Limentani e Marco Pavoncello, conosciutisi un giorno di primavera del 1949 al mausoleo delle Fosse Ardeatine, raccontata ieri con sensibilità e commozione da Flavia Amabile sul quotidiano “La Stampa”.

La diciottenne Franca era lì per piangere il padre David, tenente espulso dall’esercito dopo le infami leggi razziste, sfuggito alla retata del 16 ottobre ma catturato per strada a seguito di una spiata il 16 marzo del 1944, condotto a Regina Coeli e “selezionato” per la strage nelle cave di pozzolana sulla via Ardeatina. Il ventiseienne Pavoncello era lì per consolare i tanti amici che avevano perduto parenti in quella terribile rappresaglia.

Dopo la preghiera per i martiri sulle tombe nella cripta, scatta la scintilla. «E’ stato tutto molto semplice - racconta Franca, che oggi ha 82 anni - uno sguardo, a quei tempi non si poteva fare di più». Due anni dopo si sono sposati. Poi sono arrivati i figli, nell’Italia in bianco e nero della ricostruzione e del boom economico, dove la fame non era più un nemico quotidiano e gli ebrei vivevano alla luce del sole e non dovevano più nascondersi. Una storia d’amore sbocciata in un luogo di lutto e di disperazione come le Fosse Ardeatine. «Vedi? – le dirà un giorno Marco - Pure lì ti ha aiutata tuo padre!». Anche nel luogo in cui era stato fucilato. Concludiamo con le tenere parole di Flavia Amabile: «Franca Limentani pensandoci si illumina, e fa in modo che almeno per una volta si possa pensare alle Fosse Ardeatine con un sorriso deciso e delicato come i fiori capaci di crescere tra le rocce, come quelli disegnati da una storia che, tutto sommato, è a lieto fine». 


(L'Unione Informa e Moked.it del 25 marzo 2014)

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Storie – Il Visconti ritrovato sulla Resistenza e le Fosse Ardeatine

di Mario Avagliano

In questi giorni si è molto parlato del documentario di Luchino Visconti e di Marcello Pagliero intitolato “Giorni di gloria”, che racconta alcuni momenti della Resistenza Italiana e della guerra di liberazione e, tra l’altro, anche il dramma delle Fosse Ardeatine. Una pellicola che era già conosciuta ma di cui da tempo si cercava la versione integrale che, come ha scritto per primo il quotidiano la Repubblica, è stata scovata e acquistata per pochi dollari negli Stati Uniti da Luciano Martini, 87 anni, endocrinologo, già docente dell’Università di Milano, appassionato di musica, cinema e storia.

Si tratta di un’opera cinematografica in realtà collettiva, coordinata da Giuseppe De Santis e montata da Mario Serandrei (che ne fu anche l´ideatore), prodotta da Fulvio Ricci per conto della Titanus e dell´Associazione Nazionale Partigiani d´Italia, che si avvalse di immagini girate dai partigiani e dagli Alleati, oltre che da Visconti e Pagliero.

Il documentario è stato presentato l’8 maggio a Palazzo Corsini, attuale sede dell'Accademia dei Lincei. Un luogo simbolico, in quanto proprio in quelle sale nel 1944 si svolse il processo contro l'ex questore di Roma Pietro Caruso, che venne ripreso da Visconti su incarico dell'esercito anglo-americano, così come la fucilazione che ne seguì dello stesso Caruso, del delegato Scarpato e di Pietro Koch. Quest'ultimo era stato anche il carceriere dello stesso Visconti, che militava nella Resistenza e, arrestato, venne rinchiuso per un breve periodo nella Pensione Jaccarino.

 “Giorni di gloria” non fu il debutto cinematografico di Visconti, come qualcuno ha scritto. In realtà il grande regista aveva già firmato uno dei suoi capolavori, “Ossessione”, nel 1943. Ma certo fu il suo primo film-documentario, girato tra il 1944 e il 1945, a guerra ancora in corso e quindi testimonianza eccezionale di quel periodo. E’ facilmente reperibile sul sito di Repubblica o su youtube e vi invito a vederlo. Ci si rende conto delle condizioni disastrose delle città italiane, delle difficoltà della guerra di liberazione, del coraggio dei resistenti, della crudezza dell’occupazione nazifascista, fino al momento agognato della liberazione nell’aprile del 1945.

Le immagini più toccanti o sconvolgenti sono quelle sulle Fosse Ardeatine (girate da Visconti, De Santis e Pagliero), con lo spettacolo macabro delle salme decomposte, il tragico riconoscimento dei cadaveri e le successive tristi celebrazioni, con le foto dei martiri sui muri delle cave e il dolore composto dei parenti.

E viene fuori anche qualche dettaglio inedito o parzialmente inedito, come la lettera trovata sulla salma di uno dei martiri, nella quale si legge: “A nessuno però è balenata in mente la verità, ovverossia che io sono un italiano, sono un patriota, uno che è pronto a versare il suo sangue per la Patria, per la nostra bella Italia”.

Di forte impatto emotivo anche le immagini girate da Visconti del processo a Caruso e a Koch e delle loro fucilazioni a Forte Bravetta, e del processo a Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli, con le prime fasi del suo linciaggio da parte della folla.

Certo, trattandosi di un filmato prodotto a ridosso dei fatti, sconta qualche imprecisione. Si parla ad esempio di 320 morti alle Ardeatine, mentre – come è noto – furono 335. A tratti, poi, gli speaker (Umberto Calosso e Umberto Barbaro) eccedono in retorica, come era usuale all’epoca. Ma l’interesse storico del documento è indubitabile.

(L'Unione Informa e Moked.it del 13 maggio 2014)

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Il 4 giugno 1944 e i motivi della mancata insurrezione di Roma

di Mario Avagliano

La notte del 3 giugno 1944, alle 23.15, Radio Londra trasmise la parola in codice "elefante". Era il segnale convenuto per la liberazione della capitale. All’alba del 4 giugno - un’azzurra domenica di tarda primavera - le avanguardie americane entrarono a Roma per la via Appia Nuova e per la via Casilina, mentre i tedeschi lasciarono Ponte Milvio e la periferia settentrionale della città, quasi senza scontri con i partigiani. Tra i pochi a combattere, in quelle ore, fu Ugo Forno, dodicenne studente della scuola media “Settembrini”, che assieme ad altri partigiani impedì ai nazisti di far saltare in aria il ponte ferroviario dell’Aniene e venne colpito a morte. Il 23 aprile scorso il Quirinale gli ha assegnato la medaglia d’oro al merito civile.

Come mai la popolazione di Roma non insorse per cacciare i nazisti e i fascisti?

Oggi la tesi prevalente tra gli storici insiste sull’intervento del Vaticano. “Fu concordata un’uscita pacifica delle truppe tedesche da Roma, con l’importante mediazione del Vaticano e il consenso delle componenti moderate della Resistenza”, sostiene Davide Conti della Fondazione Basso. “Le sinistre – continua Conti - avrebbero voluto un’insurrezione prima dell’arrivo degli Alleati, ma non ne ebbero la forza. A differenza del Nord, infatti, non c’erano le bande partigiane che scendevano ‘dalle montagne’ o invadevano la Pianura Padana, come avvenne a Milano, Torino e Bologna”.

“Le trattative diplomatiche con i tedeschi, condotte da Pio XII durante il periodo dell’occupazione, miravano non solo a salvare le persone ma anche a salvare la città, evitando la battaglia su Roma. Fu l’oggetto dell’incontro a maggio tra il Papa e il generale Rainer Stahel”, afferma Anna Foa, docente di storia moderna all’Università La Sapienza.

Una chiave di lettura che convince anche Alessandro Portelli, docente universitario e autore del libro “L’ordine è già stato eseguito” sulle Fosse Ardeatine: “Le forze monarchiche e la Chiesa operarono in maniera di evitare l’insurrezione, avendo paura che ne traessero vantaggio i comunisti e le sinistre e che ci fossero danni e sofferenze per la città”. E Massimo Rendina, vicepresidente nazionale dell’Anpi, aggiunge: “L’intesa fu promossa dal Vaticano, che garantì ai tedeschi che potevano uscire dalla città senza essere attaccati. Infatti gli scontri armati furono pochissimi”. E il Cln accettò? “Io ritengo che il Cln si pronunciò a favore della non insurrezione, anche non sono state finora trovate documentazioni che lo provino”.

La questione invece è più complessa per Gabriele Ranzato, docente di storia contemporanea all'Università di Pisa, che attribuisce la mancata sollevazione popolare a una pluralità di fattori: “la scarsa predisposizione dei romani alla rivolta; la contrarietà degli Alleati, che volevano il passaggio dei poteri al generale Roberto Bencivenga, in quanto rappresentante di Badoglio; la forza militare dei tedeschi, ancora intatta a differenza dell’aprile 1945; e infine l’intervento del Vaticano”.

Di certo, sulla mancata insurrezione pesò anche “il macroscopico errore di previsione sui tempi della liberazione commesso dagli Alleati a seguito dello sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944”, sostiene Mariano Gabriele, già presidente della Società Italiana di Storia Militare. “Dopo lo sbarco gli Alleati ordinarono al fronte militare clandestino di Montezemolo di sollevarsi. Molti militari si esposero e furono arrestati”. E un ulteriore colpo alla Resistenza “fu dato dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, che decapitò i vertici della maggior parte dei movimenti”, afferma la storica Elena Aga Rossi. Aggiungendo: “La grande occasione fu quella dell’8 settembre del 1943. Ma il re e i vertici militari non vollero salvare Roma. Si ordinò ai Granatieri di Sardegna di combattere,  avendo però già deciso di trattare con i tedeschi”.

 (Il Messaggero, 4 giugno 2014)

Storie – Colorni e il sogno europeo

di Mario Avagliano

Tra le figure meno conosciute della Resistenza e dell’antifascismo italiano c’è quella di Eugenio Colorni, filosofo brillantissimo, confinato politico, partigiano, uno dei tre coautori del Manifesto di Ventotene precursore dell’Unione Europea (gli altri due erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). A fare luce su di lui è un’accurata biografia di Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” (Editori Riuniti, pp. 205), patrocinata dalla Biblioteca della Fondazione Nenni, con prefazione di Giorgio Benvenuto, che sarà presentata venerdì 10 ottobre al Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma (via Andrea Doria 79).
Eugenio Colorni, appartenente a una famiglia della medio borghesia ebraica milanese, secondogenito di Alberto Colorni e Clara Pontecorvo, è antifascista precoce, già a sedici anni, dopo l’omicidio Matteotti, e prosegue il suo percorso politico all’università, militando nei gruppo Goliardici per la libertà e poi aderendo a GL e al Psi.
In questi anni, anche grazie alla frequentazione con i cugini Sereni (Enrico, Emilio e in particolare Enzo) nelle estati a Forte dei Marmi, aderisce con fervore al movimento sionista, entrando nel 1928 nel comitato di segreteria del terzo congresso nazionale della Federazione Sionistica Italiana e partecipando nel luglio del 1929 al Congresso Sionista Internazionale di Zurigo.
Si allontanerà dal sionismo qualche anno dopo, pur conservando sempre vivo il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, per dedicarsi alla lotta in Italia contro il fascismo.
Iscritto al casellario politico già nel 1930 quale sospetto antifascista, diventa in poco tempo dirigente del Centro Interno Socialista. Il suo arresto il 5 settembre 1938, nel pieno della campagna razzista del regime fascista, farà clamore e sarà additato come esempio dell’antifascismo congenito negli ebrei. Il Corriere della Sera titola: “La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia”.
Confinato a Ventotene, dove porterà a maturazione il suo ideale europeista a contatto con Spinelli e Rossi, e poi in Basilicata, nell’aprile 1943 si darà alla fuga, raggiungendo Roma ed iniziando un’attività politica clandestina. Nel settembre del 1943 sarà tra i promotori a Roma della Brigate partigiane Matteotti. Ferito gravemente il 28 maggio 1944 durante uno scontro a fuoco con due militi della Banda Koch a Piazza Bologna, morirà il 30 maggio all’Ospedale San Giovanni, dovendo così abbandonare la battaglia per realizzare il suo grande sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Pietro Nenni scriverà nel suo diario: “La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea”.
In tempi come questi, in cui l’Europa è latitante, smarrita com’è nelle regole ferree dell’economicismo e del rigore dei conti, la figura e il pensiero di Eugenio Colorni, che prospettava un’unione federale di tipo politico e ideale, rappresentano – come ci spiega il libro di Antonio Tedesco - dei punti fermi dai quali ripartire e ritrovare passione ed entusiasmo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 ottobre 2014)

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