Intervista a Nello Mascia, attore
di Mario Avagliano
Uno dei grandi interpreti a livello mondiale del teatro napoletano classico di Viviani, di Scarpetta e dei De Filippo, è l’attore salernitano Nello Mascia, classe 1946, originario di Sala Consilina. Allievo di Eduardo, fondatore con Tato Russo della "Cooperativa Teatrale Italiana del Mezzogiorno Gli Ipocriti", ha lavorato con Giorgio Strehler e Mario Missiroli. In questi giorni è in scena al Teatro Eliseo di Roma, in "Miseria e Nobiltà", con Carlo Giuffrè. Mascia vive al Vomero, si definisce “mite ma passionale” e dice di essere supertifoso del Napoli calcio (“nessuno è perfetto!”, spiega). Poi annuncia che presto riporterà in teatro Fango, il toccante monologo sul disastro dell’alluvione di Sarno che, rivela, “è anche una creatura del presidente della Provincia di Salerno Andria”.
Ci parli delle sue origini salernitane.
Negli anni della guerra la famiglia di mio padre si era trasferita a Sala Consilina, dove si viveva più sicuri che a Napoli e soprattutto si trovava più cibo. Fu proprio lì, in un paese a due passi da Sala, a Monte San Giacomo, che mio padre conobbe mia madre, Anita Buono, che apparteneva a una famiglia del luogo. Si piacquero, si amarono e si sposarono. Prima nacque mia sorella e poi, nel dicembre del ’46, toccò a me.
Che ricordo ha di quegli anni?
Mio padre Roberto era un poeta. Un latinista e un grecista, amante di cose belle, di pittura, di letteratura, di teatro. Ricordo che all'età di tre anni sapevo già leggere e scrivere perfettamente e recitavo a memoria alcune poesie di Pascoli, di Gozzano, di Carducci, anche se il mio cavallo di battaglia era "Il prode Anselmo" di Giovanni Visconti Venosta. Avevo già il mio piccolo repertorio. E lo sciorinavo nel corso della mia quotidiana “tournée”, quando con mia madre, nel fare la spesa a Sala Consilina, si sostava ora dal macellaio ("Oh Valentino vestito di nuovo…), ora dal fruttivendolo ("Signorina Felicita, a quest'ora, scende la sera…"), ora dal giornalaio ("Pollicino morta mamma, non sa più di che mangiare…").
Lei andò via da Sala Consilina piuttosto presto?
Sì, avevo quasi 4 anni. Mio padre aveva avuto un incarico presso una scuola di Castellamare di Stabia, e così ci trasferimmo tutti a Gragnano.
Dove continuò la sua fama di enfant prodige…
Le maestre letteralmente mi contendevano per avermi nelle loro classi a recitare poesie, ad una platea di compagni di scuola entusiasti - se non altro - di evitare così un'interrogazione. Fino a quando, all'età di sette anni, il parroco mi diede l'incarico di imparare una lunga orrenda poesiola scritta da lui, da recitare nella piazza principale, in occasione della Festa della Madonna del Carmine. C’era tutto il paese. Ma una volta che fui salito sul palco, fui colto dal panico. Scappai via, a più non posso, come un forsennato. Giù per le scale del palco. Via! Giù, lungo la discesa. Col fiato in gola. Via! Dopo quell'episodio la mia vita cambiò. Mai più recite improvvisate. Mai più poesie. Più nulla.
Poi però è diventato un attore. Quando è scattata la scintilla della recitazione?
A tredici anni mio padre volle portarmi a Napoli, al Mercadante. Si dava una commedia di cui non ricordo il nome. Eravamo cinque spettatori. Compresi io e mio padre. Ci sistemammo in poltrona. Si fece buio. E dal sipario chiuso uscì fuori un vecchietto molto simpatico e dal fare molto autorevole. Era Sergio Tofano. Disse più o meno così: "Questa sera, secondo una consuetudine teatrale, essendo gli spettatori in sala inferiori per numero agli attori in palcoscenico, potremmo non fare lo spettacolo, e potremmo restituirvi il costo del biglietto. Ma non lo faremo. Noi questa sera faremo un'altra cosa. Faremo per voi il più bello spettacolo della nostra vita.". Ecco. Se qualcuno mi chiedesse quando ho deciso di fare l'attore, credo che risponderei: in quella magica affascinante memorabile sera del Mercadante.
Iniziò a studiare teatro più tardi, o sbaglio?
Quando avevo 17 anni. La mia famiglia si era trasferita a Napoli, in via Duomo. La mia scuola era sita nel malfamato vico Zuroli, di fianco a un noto bordello. I miei compagni di classe erano i figli dei venditori di sigarette di contrabbando di Forcella. Molti di loro oggi hanno fatto “carriera”. Li vedo spesso fotografati sui giornali, nelle pagine di cronaca nera, a volte sorretti al braccio da un paio di giovanottoni in divisa. Erano i miei amici quotidiani. Parlavo il loro linguaggio colorito. Si giocava a pallone insieme. Insieme si organizzavano i mitici "balletti" del sabato pomeriggio. Mio padre ne era spaventato e inorridito. E allora, un po' per allontanarmi da quella compagnia, un po' per pulire la mia parlata che lui definiva "volgare e orribile", prese una decisione che avrebbe cambiato la mia vita: iscrivermi a una scuola di recitazione.
Quale scuola?
La scuola di recitazione del Circolo Artistico, che all’epoca era l'unica esistente a Napoli. Tutta la mia generazione l’ha frequentata, da Lina Sastri a Franco Iavarone, da Lucio Allocca a Giulio Adinolfi e Tommaso Bianco. Ero considerato tra i più bravi del corso. E così nel 1967 il regista Mico Galdieri mi scritturò. Debuttai al Teatro La Verzura in Floridiana, in "La Tabernaria" di Giovan Battista Della Porta. Il mio ruolo era quello di "Terzo Soldato Spagnolo". Il primo era Lucio Allocca, il secondo Armando Pugliese. Le musiche erano curate da un giovane semisconosciuto, a cui nessuno dava molta importanza, un certo Roberto De Simone.
De Simone?
Diventammo amici. Fu lui a proporre che cantassi nello spettacolo "Li saracine adorano lu sole", che successivamente fu incisa da Patrizio Trampetti in uno storico album della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ricordo che andavo a casa sua – viveva ancora con sua madre – per fare le prove. Allora lui fumava come un turco e poggiava le sigarette sulle tastiere del pianoforte, che erano diventate tutte nere.
Qualche anno più tardi, nel 1972, arrivò l’incontro con Eduardo De Filippo.
Fu grazie a Eduardo se ora faccio l’attore e non sono un impiegato di banca. Morto mio papà, la mia famiglia navigava in cattive acque dal punto di vista finanziario. Allora mia madre mi procurò presso parenti potenti la classica raccomandazione per un posto fisso. Mi chiamarono al Banco di Napoli. Proprio in quei giorni, però, arrivò la telefonata di Eduardo, che mi era stato presentato da Gennarino Palumbo. Dovevo scegliere. Una vita a metter timbri e a contare soldi. O il salto "conradiano" senza rete. Scelsi Eduardo. E fui attore per sempre.
Con Eduardo trascorse una stagione sola.
Recitai in "Il sindaco del rione Sanità" e nella prima assoluta mondiale de "Gli esami non finiscono mai". Fu per me un anno fondamentale. Eduardo era un grande maestro, di palcoscenico e di vita. Era un grande vecchio saggio, sapeva tutto, tutto, ed era una fonte inesauribile di insegnamenti. Lo ricordo con grandissimo affetto e devozione. Mi insegnò una cosa in particolare: il rispetto dei ruoli, in teatro come nella vita. Un principio al quale mi sono sempre ispirato.
Nel ’73 fondò con Tato Russo la "Cooperativa Teatrale Italiana del Mezzogiorno Gli Ipocriti".
Eravamo giovani. Volevamo fare da soli. Volevamo cambiare le regole. Eravamo contro il teatro vecchio, paludato, dei sipari di velluto e delle poltrone rosse. Così andai nel camerino di Eduardo e gli espressi il mio desiderio di andar via. Proprio nei giorni in cui lui aveva dato la distribuzione dei ruoli per le commedie che di lì a poco avrebbe registrato in televisione. Rimase molto sorpreso. "Non vi piacciono le parti che vi ho assegnato?". "No" - dissi con imbarazzo. - "Non si tratta di questo. Ho formato una compagnia mia. Sento l'urgenza di andare avanti con le mie gambe". "Non lo capisco. Ma vi faccio i migliori auguri. Siete un giovane che ha coraggio", fu il suo commento.
Che tipo era Tato Russo?
Con Tato Russo il sodalizio non era soltanto artistico. Eravamo amici. Ci intendevamo su tutto. Passavamo giorno e notte a fare progetti. A leggere. A fare. Mettemmo su un teatrino all'Arenella, in un sottoscala di una vecchia fabbrica abusiva di scarpe. Si chiamava "Il Teatro delle Arti". Aveva appena cento posti e un palcoscenico piccolo, ma confortevole. Lo aveva concepito Bruno Buonincontri, geniale e appassionato scenografo. Costruì praticamente da solo, con le proprie mani, quel teatro. Un gioiellino.
I successi che ricorda con più orgoglio?
Sicuramente la prima di "Uscita di emergenza", di Manlio Santarelli, con Bruno Cirino. E poi la riscoperta di Raffaele Viviani, al quale decidemmo di dedicare molti anni della nostra attività. Allestendo spettacoli memorabili: "L'ultimo scugnizzo", con la regia di Ugo Gregoretti; "Fatto di Cronaca" con la regia di Maurizio Scaparro; "Guappo di Cartone" con la regia di Armando Pugliese; "Musica dei ciechi", con la regia di Antonio Calenda. E organizzando mostre e convegni itineranti ai quali per la prima volta parteciparono i più autorevoli critici e studiosi di teatro a livello nazionale. Fu il nostro impegno costante e ossessivo su questo grandissimo autore a convincere finalmente l'editore Guida a pubblicare l'opera omnia di Viviani e a divulgarlo definitivamente a livello nazionale. Anche se molti lo hanno dimenticato.
A che cosa allude?
Senza il nostro impegno, oggi di Viviani si parlerebbe molto di meno. Eppure questa pagina importante della storia del teatro napoletano è stata dimenticata da tutti. Oggi sembra che il miglior interprete di Viviani sia uno che ha fatto il cantante per tutta la vita (Nino D’Angelo, ndr). Un controsenso, anche perché Viviani era soprattutto un attore.
L’avventura con la Cooperativa Gli Ipocriti è durata fino al 1995.
E’ un’avventura che ha occupato gran parte la mia vita artistica. Al di fuori di essa, nel periodo 1975-1995, mi sono permesso solo due fughe significative. Una nel 1983 allorquando fui chiamato da Giorgio Strehler a interpretare Trinculo ne "La tempesta" di William Shakespeare per l'inaugurazione del Teatro d'Europa all'Odeon di Parigi. L'altra, nel 1993, quando fui Don Marzio il protagonista de "La Bottega del Caffè" nell'allestimento di Mario Missiroli al Teatro di Roma.
Come mai è finita quella esperienza?
Beh, l’esito non è stato molto gradevole. La ferita è ancora aperta, e mi sono riproposto di non parlare di quello che è accaduto, perché la delusione è stata forte. Posso solo dire che si è trattato del tradimento di un’amicizia, più che di un’evoluzione in campo professionale.
In questi giorni Mascia è in scena a Roma in Miseria e Nobiltà, nel ruolo di Pasquale, con il grande Carlo Giuffrè.
Giuffrè è uno degli ultimi grandi interpreti della tradizione del teatro napoletano e Misera e Nobiltà è uno dei grandi classici del teatro mondiale. Più di così! Tra l’altro questo spettacolo, che portiamo in scena con grande successo da due anni, mi ha consentito di raccogliere due nomination ai due premi più importanti che esistono nel mondo del teatro, il premio ETI e il premio UPU. Devo confessare che non me l’aspettavo.
E’ stato anche a Salerno?
Sì, e anche a Salerno è stato un successo incredibile. Il pubblico del Teatro Verdi è molto caldo.
Che impressione le ha fatto Salerno?
Io vengo abbastanza spesso a Salerno. La trovo un città bellissima, assolutamente incantevole. E poi mi piace la movida salernitana, la voglia di vivere e la vivacità dei giovani.
Com’è Nello Mascia nel privato?
E’ un uomo mite, che cerca di essere razionale, nonostante venga travolto dalle passioni. Poi è una persona che ha il gusto di mangiare sano, di godersi una bella giornata, e che ama il calcio, è supertifoso del Napoli (nessuno è perfetto!), e quando può, non disdegna la bici, magari per raggiungere – attraverso il passo di Chiunzi - quello splendido gioiello che è Amalfi.
Dove va il teatro italiano? Molti parlano di crisi.
E’ da vent’anni che si parla di crisi del teatro italiano. Credo che una grossa responsabilità ce l’abbia quel signore che Altan disegna con la banana (sì, parlo di Berlusconi), che ha esportato in Italia la peggiore tv demenziale americana, quella che brucia il cervello della gente. Quel modello culturale, volgare, vuoto di contenuti, ha provocato un appiattimento della società italiana che si riflette su tutta la cultura, e quindi anche sul teatro. Non è un caso che adesso gli spettacoli teatrali più visti sono i musical all’americana. Con la differenza che noi in Italia non li sappiamo fare.
E’ in crisi anche il teatro napoletano?
Napoli è una città di una vitalità incredibile, che si rigenera continuamente. Le uniche novità interessanti del teatro italiano vengono da Napoli. Penso a Moscato, che è uno degli autori contemporanei più bravi. Ma penso anche al coraggio con il quale Martone sta gestendo il Teatro Stabile di Napoli.
Programmi per il futuro?
Questa primavera ho intenzione di riprendere ''Fango'', l'oratorio civile scritto da Ernesto Dello Jacono e Mario Gelardi, che racconta le tappe delle frane che devastarono Sarno, Siano, Quindici, Bracigliano e San Felice a Cancello. Uno spettacolo di grande tensione emotiva, che indaga sulle responsabilità di una tragedia annunciata. Tra l’altro l’idea di farne uno spettacolo nacque proprio a Salerno, al Palazzo della Provincia, alla presentazione del romanzo di Ernesto Dello Jacono. Io lessi alcuni brani e dissi che sarebbe stato bello portarlo a teatro. Il presidente Andria, con la consueta sensibilità che lo contraddistingue, ci diede tutto il suo appoggio. Questo spettacolo è anche una sua creatura.
(La Città di Salerno, 11 maggio 2004)
Scheda biografica
Nello Mascia nasce a Sala Consilina (Salerno) il 28 dicembre del 1946. Studia recitazione alla scuola del Circolo Artistico di Napoli. Debutta nel 1967 al Teatro La Verzura in Floridiana, in "La Tabernaria" di Giovan Battista Della Porta, per la regia di Mico Galdieri. Nel 1973, dopo una breve ma intensa esperienza nella compagnia di Eduardo De Filippo (Il sindaco del rione sanità, Gli esami non finiscono mai), fonda insieme a Tato Russo la Coop. Teatrale Gli Ipocriti che dirige e di cui è l'animatore principale per circa venticinque anni. In questa struttura profonde ogni energia e ad essa dedica gran parte della sua attività di attore, regista e direttore artistico. Si pone all'attenzione della critica e del pubblico nel 1980 interpretando il personaggio del sagrestano Pacebbene in Uscita di emergenza di Santarelli, in coppia prima con Bruno Cirino, poi di Sergio Fantoni. Nel 1983-84 è al Piccolo Teatro dove interpreta Trinculo nell'allestimento strehleriano de La tempesta di Shakespeare che inaugura il Teatro d'Europa all'Odéon di Parigi. Dal 1986 si dedica alla divulgazione e alla valorizzazione dell'opera di Raffaele Viviani di cui presenta quattro spettacoli: L'ultimo scugnizzo, regia di Ugo Gregoretti; Fatto di cronaca, regia di Maurizio Scaparro; Guappo di cartone, regia di Armando Pugliese; La musica dei ciechi, regia di Antonio Calenda. Si ricorda anche il suo esilarante Don Marzio ne La bottega del caffè di Goldoni al Teatro di Roma, con la regia di Mario Missiroli nel 1993. In televisione nel 1979 è l'operaio Marco nello sceneggiato in quattro puntate Tre operai dal romanzo di Carlo Bernari per la regia di Francesco Maselli. Nel 1983 è protagonista del Carmagnola, libero adattamento di Ugo Gregoretti dalla tragedia di Alessandro Manzoni. Nel 1997 è il crudele Ferdinando in I conti di Montecristo, singolare versione di Ugo Gregoretti dal romanzo di Dumas. Nel cinema nel 1998 è tra i protagonisti de La cena di Ettore Scola e nel 2001 di L’uomo in più di Paolo Sorrentino.
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