Intervista a Giancappetti, ceramista

di Mario Avagliano
 
 
E’ stato definito “il gentiluomo della ceramica”. A quasi 78 anni di età, il maestro Giovanni Cappetti, meglio noto come Giancappetti, è uno dei ceramisti più apprezzati e conosciuti al mondo. E’ possibile trovare le sue pannellature in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, negli Stati Arabi, in Russia, in Giappone. “Artista-artigiano”, per usare una felice espressione di Irene Kowaliska, le sue riggiole inseguono le suggestioni dei capolavori del Settecento napoletano, a partire dal Chiostro maiolicato di Santa Chiara. Ma nel suo repertorio artistico figura anche il piccolo mondo antico della Salerno e della Costiera Amalfitana degli anni Trenta e Quaranta, intriso di romanticismo e di poesia: il faro di Capo d’Orso, il Castello di Arechi, il fiordo di Furore, le cianciale di Cetara, il borgo di Erchie. “Un modo per cancellare le brutture del presente - spiega lui -. Oggi non c’è più il gusto dell’architettura, e soprattutto a Salerno, i palazzi sono orribili e le strade sono sporche, disordinate e trafficate”. 
 
Maestro, lei è un salernitano doc?
Sì, sono nato nel centro storico di Salerno, in via Gaetano Esposito n. 1, nell’appartamento sopra la cantina del vino di D’Acunto, nel quartiere delle Fornelle, che forse si chiama così per la presenza di forni per la cottura delle ceramiche, che gli antichi abitanti, provenienti in gran parte dalla vicina Vietri sul Mare, avevano impiantato nella zona.
Nostalgia di quegli anni?
Negli anni Trenta e Quaranta, Salerno era una città perbene, in cui si passeggiava tranquillamente, in cui non si poteva sporcare per terra, in cui si rispettava l’autorità costituita.  La parte più bella di Salerno è stata edificata allora, dal Municipio al Palazzo della Prefettura, dal Tribunale alla sede delle Poste. Il mare era dentro la città e la spiaggia dove ora sorge il porto, era il salotto di Salerno, con i suoi lidi eleganti. Mio padre mi raccontava che era una città appetita dai funzionari statali, che sognavano di stabilirsi a Salerno nel periodo della pensione. Via dei Mercanti era un po’ la Via dei Condotti salernitana, con le sue gioiellerie, i suoi negozi di scarpe, le sue vetrine scintillanti. Venivano a fare acquisti da tutta la provincia e perfino dalla Lucania. Insomma, era tutta un’altra cosa rispetto ad adesso.
Un giudizio duro.
Non mi ritrovo più in questa città così sporca e disordinata. Anche il lungomare è diventato una pena, con tutti quei venditori ambulanti. Senza parlare del traffico, dei cumuli di rifiuti, della delinquenza. Nel confronto, i miei ricordi danno molta malinconia, tristezza, delusione… Molta… Ultimamente mi hanno fermato due giovani per strada, in pieno giorno, chiedendo di accendere. Io ho tirato fuori l’accendino. “Questo ce lo teniamo noi”, hanno detto, e se ne sono andati. 
Nella sua infanzia c’è anche la Costiera Amalfitana.
Da bambino per alcuni anni ho vissuto ad Erchie. Mio padre Nicola era il guardiano del faro di Capo d’Orso e mia madre, Maria Montesanto, era originaria di lì. Anche quando ci trasferimmo a Salerno, le estati le passavo ad Erchie, tra i gozzi dei pescatori e i tramonti sul mare.
Quando entra l’arte nella sua vita?
C’è sempre stata. Ricordo che in quinta elementare, all’Istituto Barra, vinsi un premio con una testa del duce in bassorilievo. Era un’opera molto ingenua, però denotava il mio interesse per l’arte, che poi coltivai negli anni. Allora, nelle scuole, i ragazzi dotati di talento artistico o artigianale, venivano seguiti. C’erano corsi serali gratuiti di falegnameria, di disegno, di intarsio, di meccanica. Oggi non c’è più attenzione per le arti e i mestieri. Tutto è in funzione dell’Università. La ricchezza e l’importanza dell’artigianato non vengono prese in considerazione.
Chi sono stati i suoi maestri?
Sono stato allievo di Mario Avallone, fratello di Pasquale, che mi ha insegnato i rudimenti della pittura; del professor Brancaccio, che mi ha iniziato al disegno; e di Peppe Pierro per la scultura. Pierro è uno scultore salernitano quasi dimenticato, eppure è stato lui a realizzare gli altari barocchi delle Chiese di Salerno. 
E per la ceramica? 
Nel palazzo Barra, aveva sede anche l’Istituto tecnico Trani. In una delle aule, il maestro Renato Rossi teneva dei corsi pomeridiani di ceramica. All’uscita della scuola, io mi fermavo incantato a vedere come dipingevano le terracotte. Una volta il maestro Rossi mi notò e mi invitò ad entrare dentro. Avevo 9-10 anni, e da quel giorno non mi abbandonò più, mi seguì fino al diploma di ceramica.
Che ricordo ha del maestro Renato Rossi?
Rossi fondò la Scuola di Ceramica nel 1931 e ne fece un effettivo strumento di formazione professionale. A Vietri, in quegli anni, erano presenti diverse attività al limite tra manifattura ed industria, come la vetreria, l’opificio tessile, la lavorazione di metalli, ma nel dopoguerra solo la ceramica rinacque e conquistò il mercato italiano ed estero. Ciò poté accadere anche grazie all’opera preziosa di Rossi, che nella sua scuola formò i dipendenti delle fabbriche di ceramica vietresi, la Ernestine, la D’Agostino, la Pinto. Sarebbe stato giusto dedicargli l’Istituto di Ceramica… E’ stato lui il vero fondatore della scuola.
Dopo il diploma all’Istituto Magistrale, lei per alcuni anni ha insegnato nelle scuole elementari.
Fino al 1954, quando ho avuto il coraggio di lasciare il posto sicuro di maestro elementare e di dedicarmi all’attività di ceramista.
Prendendo sede a Molina di Vietri.
Sono rimasto a Vietri fino al 1981. Dopo il terremoto, fui costretto ad andarmene, perché il piano regolatore di Vietri non prevedeva insediamenti artigianali superiori ai cinquecento metri quadri, così mi sono spostato a Montecorvino Pugliano. Io ho bisogno di spazi grandi per poter lavorare ai miei pavimenti e ai miei pannelli. 
Come nasce il nome Giancappetti?
Tra il 1958 e il 1959 ho lavorato nello studio del grande pubblicitario Mario Grosso, a Torino, come bozzettista pubblicista. E’ lì che mi è venuta l’idea di adottare uno pseudonimo più accattivante, che unisce il nome Gianni e il cognome Cappetti. 
E’ vero che lei preferisce la definizione di artigiano a quella di artista?
Io faccio oggetti di uso comune, come i pavimenti decorati. Ho vissuto di questo mestiere tutta la mia vita e perciò mi considero un artigiano che per accidens, ogni tanto, fa un pezzo d’arte. E infatti la sera, per riposarmi, per fuggire dalla realtà ed esprimere un sentimento di nostalgia per la Salerno che fu, mi dedico ai pezzi unici. Per esempio, disegno il Duomo o il Castello di Arechi, con il cielo blu e il verde brillante. Oppure rifaccio la cupola della Chiesa dell’Annunziata, che una volta era in maiolica giallo-verde e blu, e oggi invece ha un colore rame sporco che ha tolto molta bellezza al paesaggio di Monte San Liberatore visto da Piazza Amendola. E così dimentico il degrado attuale della mia città...
Quali sono le opere di cui va più fiero?
Citerei il pannello della sala dell’aula delle lauree alla Pontificia Università "Angelicum" di Roma, che raffigura l’albero della Sapienza, e il pavimento dell’altare del Nuovo Seminario di Pontecagnano, con un motivo ispirato al barocco napoletano. Due opere artistiche importanti, che tuttavia sono passate sotto silenzio. Così come è accaduto per il pannello dell’Ospedale di Sarno, che ho realizzato di recente. Eppure credo di aver espresso tutto il dramma dei sei medici morti nella frana di Sarno, con sei figure di camici bianchi con le mani alzate, in un atmosfera rosso-sangue. 
Qual è il suo giudizio sulla ceramica vietrese? E’ ancora ai vertici nazionali?
Il discorso sulla ceramica vietrese è molto difficile. Preferisco non pronunciarmi. Dico soltanto che il meglio lo ha avuto con il periodo tedesco, che non è stato più superato. Ora hanno costituito un consorzio di produzione… E’ un termine in cui non mi riconosco. Io non produco riggiole, io faccio riggiole. C’è una bella differenza!
Nella storia della ceramica vietrese, qual è l’artista che apprezza di più?
Direi Guido Gambone e Diodoro Cossa. Pochi sanno che Gambone ha vinto per ben quattro volte il premio più importante del mondo della ceramica, il Concorso Internazionale di Faenza. Gambone aveva un carattere un po’ scorbutico ma era una persona pulita e perbene. Gran parte della sua fortuna è dovuta al suo socio Andrea D’Arienzo, che - tra i due - era l’uomo del fare. Cossa è un artista e ceramista quasi sconosciuto, anche se era l’allievo prediletto di Renato Rossi ed è l’autore del famoso pannello della storia della Repubblica di Amalfi. 
Lei lavora ancora oggi dieci ore al giorno. Qual è il segreto della sua longevità artistica?
Non c’è nessun segreto. E’ la passione per il lavoro. Pensi che la settimana scorsa mia figlia Maria Grazia è venuta “infuriata” da me e mi ha rimproverato perché alle undici e mezza di sera stavo ancora lavorando… Ecco perché i miei pavimenti si riconoscono subito: perché danno gioia di vita, perché sono costruiti come ricerca di bellezza.
A proposito di Maria Grazia, è la sua erede?
E’ il caso di dire che l’allieva ha superato il maestro. Ha una tavolozza ancora più ricca della mia. Credo che farà molto bene, andrà lontano, anche se ha un carattere un po’ troppo simile al mio…
Lei ha un brutto carattere?
No, però ho un carattere chiuso e soprattutto sono un isolato, non ho e non cerco padrini politici o artistici… Non mi piego alle mode dell’arte o alle convenienze politiche.
Che fine ha fatto il suo sogno di realizzare un grande pannello sulla costiera amalfitana?
Ecco, ha toccato un nervo scoperto. Credo che non lo farò mai, proprio perché non ho sponsor politici. Mi sarebbe in un certo senso dovuto, per la mia storia personale e per quello che penso di aver dato alla ceramica salernitana, ma non mi aspetto niente.
  
 (La Città di Salerno, 25 giugno 2006)
 
Carta d’identità
 
Il Maestro Giovanni Cappetti è nato a Salerno il 26 agosto 1928. Fa ceramica dal 1950.
Vedovo, ha cinque figli (Nicola, Paolo, Monica, Angela e Maria Grazia)
Studi: La sua formazione comprende studi alla Scuola di Arte Ceramica di Salerno e al Liceo Artistico di Napoli, ma anche gli studi di lettere, filosofia teorica ed architettura presso l’Università di Napoli. 
Hobby: pesca, ricerca funghi ed asparagi, passeggiate sulle Dolomiti e sulle Alpi, cucina, musica classica (in particolare Wagner).
Mostre: Le opere di Giancappetti sono state presentate in numerose mostre in Italia e all’estero. Tra gli eventi di maggior rilievo, va ricordata la personale allestita a New York, nel 1992, in occasione delle celebrazioni colombiane.
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