Mister Mussolini che piaceva all'America

di Mario Avagliano

 Quando nell’ottobre del 1936 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt intrattenne per due giorni il cardinale Eugenio Pacelli (il futuro papa Pio XII), in visita privata negli Stati Uniti, l’alto prelato, parlando della Grande Depressione, disse preoccupato al suo interlocutore: “Secondo me il pericolo più grave è che l’America divenga comunista”. Roosevelt di rimando gli rispose: “No, il pericolo più grave è che l’America divenga fascista”.

Lo scambio di opinioni è illuminante. Il timore del presidente statunitense, protagonista del New Deal, era reale. All’epoca i comunisti americani non avevano un grande seguito (né per la verità lo ebbero mai). Viceversa i fascisti e Benito Mussolini, godevano di buona reputazione nella classe dirigente a stelle e strisce. Di più, molti americani erano addirittura infatuati dalla politica del duce. È il tema del bel libro “Quando l’America si innamorò di Mussolini” (Editori Internazionali Riuniti) del giornalista Ennio Caretto, che conosce bene gli Stati Uniti e i suoi archivi storici, essendo stato per 35 anni corrispondente oltreoceano per La Stampa, Repubblica e il Corriere della Sera. In America, il duce fu il capo di Stato o di governo straniero più popolare del suo tempo. Più che in ogni altra nazione occidentale, Gran Bretagna inclusa. Osannato soprattutto dall’industria, dalla finanza e dai conservatori, che lo ammiravano come “l’uomo nuovo” che trascendeva il liberalismo e debellava il comunismo. L’innamoramento durò almeno tre lustri, fino alle guerre d’Etiopia del 1935 e di Spagna del 1936.

Nell’epoca delle dittature, la maggioranza degli americani vide nel regime fascista – salvo poi pentirsene - un presentabile “autoritarismo democratico”, ritenendolo moderato e lontano dalle spietate tirannie sovietica e nazista di Stalin e Hitler. Lo dicono decine di migliaia di pagine di carteggi dei leader politici, culturali e religiosi americani, di documenti top-secret, di studi condotti da varie istituzioni, di giornali, di libri. Il fascino di Mussolini non riguardò solo i repubblicani. I media americani, inclusi quelli che oggi giudicheremmo di sinistra, applaudirono in prevalenza alla Marcia su Roma e all’ascesa del fascismo. Nell’ottobre del 1922, subito dopo la Marcia, il New York Tribune, di cui Karl Marx era stato il corrispondente europeo da Londra mezzo secolo prima, paragonò Mussolini a Garibaldi e a Giulio Cesare, e a novembre il New York Times elogiò “la forza” del duce, un leader che si collocava “tra Napoleone e un pugilista”. All’inizio perfino Ernest Hemingway (ma poi cambierà radicalmente idea) ne scrisse entusiasta: “Mussolini è una grossa sorpresa. Non è il mostro che hanno dipinto. Ha un volto intellettuale ed e soprattutto un patriota”. Contemporaneamente, si schierarono per il fascismo istituzioni finanziarie e patriottiche come la Camera di Commercio e la Legione Americana. Anziché isolarlo, quattro presidenti, da Warren Harding a Franklin Roosevelt (i primi tre repubblicani) collaborarono con lui considerandolo un baluardo contro il “contagio bolscevico” in Europa e un potenziale partner nel Mediterraneo. Al funerale di Harding il feretro fu scortato, tra altri, dalle Camicie Nere di Mussolini. E per un certo lasso di tempo Roosevelt espresse interesse e simpatia per “l’esperimento” del fascismo e intrecciò con lui normali rapporti, sperando fino al 1940 di riuscire a tenerlo fuori dal conflitto. Anche gli ambasciatori statunitensi a Roma si dimostrarono per lo più favorevoli al duce. Il più agiografico di essi, Richard Washburn Child, scrisse un’introduzione all’autobiografia di Mussolini pubblicata in America nel 1928 che rasentava il culto della personalità: “Mussolini è un super-statista umano e giusto”. Non che mancassero i critici di Mussolini, ma vennero neutralizzati. L’America voleva che l’Europa, il suo mercato naturale e più ricco, che doveva ripagarle l’enorme debito bellico della Grande Guerra, si ricostruisse in fretta. Chiunque ne garantisse la pace sociale e il liberismo economico, come il duce, era considerato un partner affidabile. Anche dopo la guerra di Spagna, nonostante l’opposizione americana al fascismo e al nazismo raccogliesse sempre maggiori consensi negli Stati Uniti, nell’establishment economico e politico restavano numerosi gli ammiratori del duce e del Fuhrer. Uno di loro era il miliardario e neoambasciatore americano a Londra Joseph Kennedy, padre del futuro presidente John F. Kennedy. E lo stesso giovane John, nel 1937, appena ventenne, esprimeva ancora ammirazione per i due dittatori. Lo rivelano le sue lettere e i suoi diari di viaggio, scritti in vacanza in Italia e in Germania, e pubblicati di recente dall’editrice tedesca Aufbau a cura dello storico tedesco Oliver Lubrich. “Sono giunto alla conclusione che il fascismo sia giusto per l’Italia − scriveva Kennedy − come che il nazionalsocialismo sia giusto per la Germania (…). Che cosa è mai il fascismo in confronto al comunismo? (…) Questi regimi fanno del bene ai loro paesi”. Di più: “Quanto al signor Adolf Hitler, sono persuaso che abbia la stoffa di chi entra nella leggenda”.

(Il Mattino del 14 marzo 2014)

Storie - I volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin

di Mario Avagliano

Pochi conoscono il contributo degli ebrei alla Guerra di Spagna del 1936-1938. Nelle Brigate Internazionali, che contarono un totale di 35-40 mila volontari, gli ebrei furono 7.760 (388 italiani, tra i quali Carlo Rosselli, Leo Valiani, Sergio Ali, Aldo Jacchia), più di ogni altro contingente nazionale, ad eccezione dei francesi, che erano 8.500 (di cui però 1.043 ebrei).

Proprio nel corso di quel conflitto si costituì, nel 1937, il primo nucleo organizzato di soli combattenti ebraici della storia del Novecento, la compagnia “Botwin” (forse anche sulla base di quel modello, qualche anno più tardi si sarebbe formata la Brigata ebraica, che si fece onore nella campagna d’Italia del 1944-1945).

A ricostruire la storia è un prezioso volumetto di Gianfranco Moscati e Gustavo Ottolenghi, “I volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin”, che propone in appendice immagini e documenti inediti della Collezione Gianfranco Moscati, conservati presso l’Imperial War Museum di Londra.

L’idea di una compagnia ebraica venne al polacco Albert Nahumi Weiz che, nel maggio 1937, ad Albacete, riuscì a radunare 15 volontari ebrei provenienti da altre formazioni, ispirandosi per l’organizzazione al gruppo fondato da Max Friedemann a Madrid nel 1935, composto solo da ebrei, costituito in difesa dell’ordinamento repubblicano spagnola minacciato dalla componente fascista alle Cortes e intitolato ad Ernst Thaelmann, primo segretario del partito comunista tedesco, ucciso dai nazisti a Monaco nel 1933.

Nel dicembre del 1937 i volontari ebrei erano saliti a 80, della più diversa nazionalità, e per iniziativa dello stesso Nahumi e di Gershom Dua-Bogen, Janek Barwinski e Stakh Matuszaczack, si costituì a Tardienta la “Compagna ebraica combattente”, che fu ufficialmente aggregata alla 2ªCompagnia del Battaglione Palafox della 13ª Brigata polacca Dombrowski, che faceva parte delle Brigate Internazionali.

La compagnia fu intitolata a Naftali Botwin, giovane polacco di 18 anni, membro di un sindacato comunista, impiccato nell’agosto 1925 a Varsavia e raccolse volontari ebrei polacchi, spagnoli, belgi, greci, tedeschi e un italiano (Elias Bendith Cohen), sino a raggiungere un organico massimo di 152 uomini, di cui solo la metà scampò alla fine della guerra. Tutti i suoi sette comandanti, tranne l’ultimo, morirono in combattimento contro i franchisti, tra il gennaio e il settembre 1938.

Ottolenghi ci ricorda che la compagnia partecipò ad alcune delle battaglie più importanti della guerra civile spagnola. Tra le imprese più importanti, si possono citare la distruzione del ponte sul Guadalquivir (che poi avrebbe ispirato Ernst Hemingway per il protagonista del romanzo “Per chi suona la campana”), l’occupazione di Cordoba, il deragliamento del treno di Los Rosales, la liberazione di prigionieri a Motril e la cattura di un intero stato maggiore franchista a Tremp. I fotografi ebrei Robert Capa e Gera Taro (caduta a Gualajara) ritrassero numerose azioni della compagnia per i loro reportage di guerra.

Gli ebrei che morirono in guerra in Spagna nelle Brigate Internazionali furono 265, di cui 86 italiani e 66 della compagnia “Botwin”. Atri 43 ebrei italiani parteciparono al conflitto militando nelle divisioni italo-spagnole di Mussolini e di Franco e di essi 7 caddero in combattimento.

Un cippo a ricordo dei combattenti della “Botwin” caduti sul campo si trova oggi in un parco di Barcellona e fu inaugurato nel 1990 alla presenza dell’allora presidente di Israele Chiam Herzog.

 (L'Unione Informa e Moked.it del 29 aprile 2014)

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Storie - Il razzista Almirante

di Mario Avagliano

Piccolo ripasso di storia su Giorgio Almirante. Quando nell’agosto del 1938 il siciliano Telesio Interlandi, campione dell’antisemitismo fascista, viene nominato da Mussolini direttore dell’ignobile rivista «La Difesa della razza», chiama alla segreteria di redazione il suo giovane collaboratore al «Tevere» Almirante, nato a Salsomaggiore Terme, rampollo di una nobile famiglia molisana, che poi nel dopoguerra sarebbe diventato segretario del Msi.
Almirante si mette subito in luce. In un articolo sul numero 6 della rivista di quello stesso anno, intitolato Né con 98 né con 998, esplicita così la sua convinzione razzista: «il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato. Chi teme ancor oggi che si tratti di un'imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo».
Sul numero 3, sotto il titolo Roma antica e i giudei, Almirante aveva già fatto risalire le origini del razzismo fascista al tempo dei romani, sostenendo che in fatto di antigiudaismo gli italiani «non hanno avuto né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia». Polemizzando con Julius Evola, ancora nel ’42, sul numero 13, in un articolo dal titolo “…Ché la diritta via era smarrita… Contro le ‘pecorelle’ dello pseudo-razzismo antibiologico”, sottolineerà che «Il razzismo nostro deve essere quello del sangue […]. Altrimenti, finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei».

Forse sarebbe bene ricordare questi fatti (e quelli successivi di Almirante brigatista nero nella Repubblica di Salò) a chi oggi lo loda e a chi torna a chiedere di intitolargli strade a Roma e altrove.

(L'Unione Informa e Moked.it dell'8 luglio 2014)

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Da Orbetello a Chicago per ricordare la trasvolata di Balbo

di Mario Avagliano

Ci fu un’epoca in cui l’Arma azzurra, l’aviazione italiana, era ai vertici mondiali, con recordman dell’aria come Francesco De Pinedo e Arturo Ferrarin. La più grande impresa della storia dell'aviazione civile mondiale di tutti i tempi, e cioè la trasvolata atlantica che partendo da Orbetello il 1° luglio del 1933 portò 24 idrovolanti italiani S55 Savoia Marchetti a percorrere per la prima volta la rotta artica oggi utilizzata da tutti gli aerei di linea tra l’Europa e gli Stati Uniti, fu compiuta da una squadra di 107 piloti italiani (due morirono durante il viaggio) guidata da Italo Balbo detto “pizzo di ferro”.
Quell’impresa mitica, durata 43 giornate, rivive ottanta anni dopo in una mostra inaugurata a Orbetello il 26 luglio scorso e in un libro in due lingue, italiano e inglese, intitolato "Mari e cieli di Balbo" (Edizioni del Girasole, pp. 256, euro 20), a cura di Ivan Simonini, con prose letterarie del giornalista e scrittore Alberto Guarnieri, che propone una preziosa sezione di 350 documenti del periodo (immagini, grafici, comunicati, telegrammi, telefonate, radio intercettazioni), in parte inediti e in parte a colori, ed è arricchito da quindici litografie in tecnica mista realizzate per l’occasione dal pittore emiliano Nani Tedeschi e da un ampio apparato storico-critico (con postfazione di Paolo Mieli).

ll protagonista del racconto di Guarnieri è il generale Balbo, classe 1896. Un personaggio controverso. Originario di Ferrara, repubblicano, interventista nella Grande Guerra e decorato per meriti bellici, esponente di spicco dello squadrismo agrario e quadrumviro della marcia su Roma, guidò le squadracce fasciste contro gli arditi del popolo comunisti a Ferrara, Ravenna e Parma. Ma quale sottosegretario per l’Aeronautica, a partire dal novembre 1926, fu il vero fondatore dell’Arma azzurra, dandole un’anima ed esaltando la tecnologia made in Italy.
L’avventura di Balbo al centro del libro è la trasvolata oceanica, la cosiddetta crociera del decennale della marcia su Roma. Per ironia della sorte, proprio nel 1922 il Commissariato dell’Aeronautica aveva bocciato il primo esemplare degli S55. Fu Balbo a trasformare gli idrovolanti da brutti anatroccoli in celesti metallici cigni e scegliere come motori gli Isotta Fraschini, nonostante le proteste della Fiat.
L’aereo di Balbo si chiamava I-Balb e la formazione a punta di lancia utilizzata per la trasvolata ancora oggi è denominata “un balbo”.
Quando la “centuria alata” ammarò a Montreal, in Canada, poi a Chicago dove era in corso l’Esposizione Universale e infine a New York, Balbo e i piloti italiani furono accolti da festeggiamenti colossali, con ali di folla ad applaudirli e organizzazioni di parate. A Chicago li portarono in un stadio, a New York sfilarono sulla 5° Strada e al Madison Square Garden c’erano 400 mila persone ad ascoltare il discorso del gerarca. Suscitando l’irritazione e la gelosia di Benito Mussolini, Balbo fu ricevuto a Washington, con onori da capo di stato, dal presidente americano Roosevelt.
Il giorno dopo il ritorno degli eroi del volo a Ostia Lido, il 13 agosto del 1933 il duce riservò ai Balbo-boys il passaggio sotto l’Arco di Costantino. Ma la popolarità di Balbo in Italia e all’estero faceva ombra a Mussolini e così appena qualche mese dopo egli fu inviato in esilio dorato in Africa, con l’incarico di governatore della Libia. Dopo di lui l’aviazione italiana perse il contatto con l’evoluzione tecnologica ed iniziò una lunga fase di declino. Il gerarca-aviatore morì in volo su Tobruk, il 28 giugno 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, colpito in circostanze oscure dalla nostra contraerea.
La mostra "Mari e cieli di Balbo" volerà oltreoceano il 10 agosto a Montreal e il 14 agosto a Chicago, punto di arrivo degli “aeronauti”, dove ancora c’è una strada a lui intitolata, Balbo Avenue. La trasferta è stata organizzata in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura delle due città, in occasione della Settimana Italiana di Montreal e della Festa Italiana di Chicago. Sarà l’occasione per il sindaco di Orbetello, Monica Paffetti, di lanciare la proposta di un concorso di idee internazionale per recuperare l'idroscalo della città, da cui partì l’impresa, per farne magari un museo della trasvolata.

(Versione più sintetica pubblicata su Il Messaggero del 30 luglio 2014)

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Storia Stragi naziste la Germania riapre le indagini su Stazzema

di Mario Avagliano

Sarà fatta finalmente giustizia sulla strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema? Forse. Qualche spiraglio almeno si apre. A settant'anni esatti da quei tragici fatti, la Procura federale di Karlsruhe, in Germania, ha deciso la riapertura delle indagini sull'eccidio, annullando una decisione precedente della Procura generale di Stoccarda. Ma ora bisognerà attendere l’esito del processo, che non è affatto scontato, visto i precedenti. "E' una buona notizia, ma ora bisogna far presto. Siamo tutti troppo vecchi", ha commentato Enrico Pieri, uno dei superstiti della strage (nella quale vennero uccisi i suoi genitori e le sue due sorelle) e presidente dell'associazione fra i familiari dei martiri, che due anni fa ha avuto il merito di proporre testardamente ricorso alla decisione della magistratura di Stoccarda di archiviare il caso.
Quella mattina del 12 agosto del 1944, in Versilia, quattro compagnie delle SS tedesche salirono a Sant’Anna di Stazzema, accompagnati da collaborazionisti fascisti italiani, e circondarono il paese. Gli uomini si rifugiarono nei boschi, temendo di essere deportati, mentre donne, anziani e bambini rimasero nelle case. Fu un terribile massacro. In circa tre ore le SS trucidarono brutalmente 560 persone, compreso il sacerdote don Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, e gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva appena 20 giorni.
Quella strage è rimasta finora impunita. Nel 1948 sfuggì al carcere il generale Max Simon, comandante della XVI Panzergrenadierdivision SS, prima condannato a morte per fucilazione (pena commutata nell’ergastolo), e poi graziato. Il maggiore Walter Reder, nel processo celebrato nel 1951 a Bologna, per l’eccidio fu assolto per “insufficienza di prove”.
Da allora, la strage di Sant’Anna di Stazzema è caduta in una sorta di oblio della memoria. Fino a quando, nel maggio del 1994, il casuale rinvenimento di 695 fascicoli relativi alle stragi nazifasciste, conservati a Palazzo Cesi, in un armadio nei sotterranei della Procura Militare di Roma (il cosiddetto armadio della vergogna), riaccese i riflettori sull’eccidio.
Nel 1996, anche grazie alle richieste del Comune di Stazzema e del Comitato per le Onoranze ai Martiri di Sant’Anna, la Procura Militare di La Spezia riaprì le indagini. E a dare un contributo decisivo all’identificazione dei responsabili, fu la ricerca della giornalista Cristiane Kohl negli archivi militari tedeschi, in collaborazione con lo storico Carlo Gentile, pubblicata sul quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung.
Il processo ai responsabili dell’eccidio di Sant’Anna si concluse il 22 giugno 2005. Il Tribunale Militare di La Spezia dichiarò colpevoli tutti i dieci imputati, ex ufficiali delle SS, condannandoli alla pena dell’ergastolo e al risarcimento dei danni. Le sentenze furono confermate dalla Cassazione, ma mai eseguite. Il primo ottobre del 2012, infatti, la procura di Stoccarda decise di non chiedere l'imputazione degli otto ex SS all'epoca ancora in vita per l'impossibilità di provare, nonostante le indagini svolte, le loro responsabilità individuali e l'aggravante della premeditazione.
Ora sono tre gli ex ufficiali delle SS ancora in vita, ma la decisione della corte federale di Karlsruhe apre la possibilità di una incriminazione per il solo Gerhard Sommer, 93enne capo di una delle compagnie delle SS che si resero protagoniste dell'eccidio, poiché gli altri due sono stati ritenuti "incapaci di stare in giudizio". Sarà la volta buona?

(Il Messaggero, 6 agosto 2014)

Storie - Il censimento del 1938

di Mario Avagliano

Anche nel Novecento, in estate la burocrazia andava in vacanza. Ma in quell’agosto del 1938 il regime fascista di Benito Mussolini richiamò in servizio prefetti, uffici comunali, carabinieri, responsabili del partito e via dicendo, per affidare loro il delicato compito del censimento degli ebrei in Italia. L’operazione fu ordinata con priorità assoluta, con la richiesta ai funzionari di mantenere massima segretezza sulla procedura (nei telegrammi la parola ebreo era in cifra e corrispondeva a 24535).
«Avverto – scrisse prima di Ferragosto il Prefetto di Firenze al podestà, fotografando bene lo spirito dell’iniziativa – che il lavoro di rilevazione dovrà essere compiuto fascisticamente, con celerità ed assoluta precisione, sotto la Vostra personale direzione e responsabilità».
Il censimento doveva rispecchiare la situazione alla mezzanotte del 22 agosto. E così in quei giorni centinaia di incaricati comunali si presentarono in qualche decina di migliaia di abitazioni sparse nella penisola per consegnare il foglio di rilevazione, andando a scovare gli ebrei anche nelle case per la villeggiatura.
Un’attività che venne svolta con scrupolo. I funzionari si diedero un gran da fare per contribuire al censimento, spesso andando a controllare lo status razziale di cittadini ignari dai cognomi inusuali o esotici per indagare se per caso fossero ebrei. Né mancarono privati cittadini che collaborarono all’operazione con segnalazioni alle autorità competenti, quasi sempre anonime, come ho raccontato assieme a Marco Palmieri nel libro “Di pura razza italiana”.
Nonostante la complessità dell’operazione i dati vennero raccolti e consegnati entro i tempi previsti. Gli ebrei presenti in Italia risultarono 58.412 (aventi per lo meno un genitore ebreo o ex ebreo). Vennero classificati come «ebrei effettivi» 46.656, di cui 9.415 stranieri, pari all’1 per mille della popolazione complessiva.
Il censimento fu il primo test per misurare la tenuta della pubblica amministrazione e delle diramazioni locali del partito di fronte all’imminente persecuzione. Test fascisticamente superato. L’Italia era pronta alle leggi razziali. Anzi, razziste.

(L'Unione Informa e Moked.it del 26 agosto 2014)

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Storie – Colorni e il sogno europeo

di Mario Avagliano

Tra le figure meno conosciute della Resistenza e dell’antifascismo italiano c’è quella di Eugenio Colorni, filosofo brillantissimo, confinato politico, partigiano, uno dei tre coautori del Manifesto di Ventotene precursore dell’Unione Europea (gli altri due erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). A fare luce su di lui è un’accurata biografia di Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” (Editori Riuniti, pp. 205), patrocinata dalla Biblioteca della Fondazione Nenni, con prefazione di Giorgio Benvenuto, che sarà presentata venerdì 10 ottobre al Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma (via Andrea Doria 79).
Eugenio Colorni, appartenente a una famiglia della medio borghesia ebraica milanese, secondogenito di Alberto Colorni e Clara Pontecorvo, è antifascista precoce, già a sedici anni, dopo l’omicidio Matteotti, e prosegue il suo percorso politico all’università, militando nei gruppo Goliardici per la libertà e poi aderendo a GL e al Psi.
In questi anni, anche grazie alla frequentazione con i cugini Sereni (Enrico, Emilio e in particolare Enzo) nelle estati a Forte dei Marmi, aderisce con fervore al movimento sionista, entrando nel 1928 nel comitato di segreteria del terzo congresso nazionale della Federazione Sionistica Italiana e partecipando nel luglio del 1929 al Congresso Sionista Internazionale di Zurigo.
Si allontanerà dal sionismo qualche anno dopo, pur conservando sempre vivo il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, per dedicarsi alla lotta in Italia contro il fascismo.
Iscritto al casellario politico già nel 1930 quale sospetto antifascista, diventa in poco tempo dirigente del Centro Interno Socialista. Il suo arresto il 5 settembre 1938, nel pieno della campagna razzista del regime fascista, farà clamore e sarà additato come esempio dell’antifascismo congenito negli ebrei. Il Corriere della Sera titola: “La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia”.
Confinato a Ventotene, dove porterà a maturazione il suo ideale europeista a contatto con Spinelli e Rossi, e poi in Basilicata, nell’aprile 1943 si darà alla fuga, raggiungendo Roma ed iniziando un’attività politica clandestina. Nel settembre del 1943 sarà tra i promotori a Roma della Brigate partigiane Matteotti. Ferito gravemente il 28 maggio 1944 durante uno scontro a fuoco con due militi della Banda Koch a Piazza Bologna, morirà il 30 maggio all’Ospedale San Giovanni, dovendo così abbandonare la battaglia per realizzare il suo grande sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Pietro Nenni scriverà nel suo diario: “La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea”.
In tempi come questi, in cui l’Europa è latitante, smarrita com’è nelle regole ferree dell’economicismo e del rigore dei conti, la figura e il pensiero di Eugenio Colorni, che prospettava un’unione federale di tipo politico e ideale, rappresentano – come ci spiega il libro di Antonio Tedesco - dei punti fermi dai quali ripartire e ritrovare passione ed entusiasmo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 ottobre 2014)

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Storie – Roma e il revisionismo della toponomastica

di Mario Avagliano

La storia non si riscrive con la toponomastica o con i premi alla memoria. Eppure a Roma, medaglia d’oro della Resistenza, c’è chi ne è testardamente convinto. Proprio questa mattina il Consiglio del Municipio Roma II, governato dal centrodestra, ha votato la proposta di risoluzione n. 52 avente per oggetto “Intitolazione strada a Giorgio Almirante” dell’attuale viale Liegi o di un viale di Villa Borghese, avanzata dal consigliere Roberto Cappiello del partito “la Destra” di Storace. La seduta è stata momentaneamente sospesa per le proteste dei partigiani dell’Anpi romana e di diversi esponenti politici (tra cui Carla Di Veroli), ma poi si è proceduto al voto della risoluzione, che fortunatamente è stata bocciata con il voto contrario dei 9 consiglieri del centrosinistra ma anche di un esponente del centrodestra e l’astensione di altri due (tra cui la presidente), mentre 8 consiglieri del centrodestra hanno votato a favore.

L’auspicio è che non venga più ripresentata né in questa né in altra sede. Giorgio Almirante fu infatti il segretario di redazione della rivista "La difesa della razza" (quindicinale che tra il 1938 e il 1943 fu il capofila del razzismo del regime fascista), caporedattore del "Tevere", distintosi per una campagna antiebraica già prima delle leggi razziali. Negli anni della Repubblica Sociale di Salò firmò un bando che imponeva la presentazione ai posti di polizia fascisti e tedeschi degli sbandati o appartenenti a bande, pena la fucilazione nella schiena per quanti non si fossero presentati.

Nei giorni scorsi ha provocato polemiche accese anche la decisione del sindaco Gianni Alemanno e del Campidoglio di concedere l’uso della prestigiosa Pietro da Cortona dei Musei Capitolini per la terza edizione del ‘premio Duelli-Gallitto’, un evento dedicato alla memoria dell’ausiliaria scelta di Raffaella Duelli e del comandante Bartolo Gallitto, entrambi della X MAS, organizzato dall’associazione X flottiglia MAS e da quelle Campo della Memoria ed Armata Silente.
Va ricordato che la X Mas di Junio Valerio Borghese, tra il 1943 e il 1945, oltre ad essere impegnata nelle azioni di repressione dei partigiani, agli ordini delle SS tedesche, macchiandosi di numerosi crimini di guerra, ebbe anche un carattere fortemente antisemita. La rivista della Decima, «L’Orizzonte», ospitò numerosi articoli contro gli ebrei, in particolare di Giovanni Preziosi, uno dei più importanti esponenti dell’antisemitismo di matrice fascista, in cui si sosteneva la teoria del complotto giudaico mondiale, in combutta con la massoneria.

L’Anpi di Roma ha promosso un sit in al Campidoglio ed ha parlato di “manifestazione inopportuna e impropria”, denunciando che queste organizzazioni sono “di chiara matrice nostalgica e revisionista, nate per celebrare la repubblica sociale italiana ed il fascismo”. E il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha dichiarato: "Dare spazio logistico e patrocinio ad una kermesse del genere è stato un errore di valutazione, che condanniamo. Questi due signori, combatterono per un'ideologia folle, che ha portato l'Italia al baratro e che ha contribuito a costruire il clima dell'odio nei confronti dei diversi, in particolare nei confronti degli ebrei - con le leggi razziali del 1938 -. Queste persone, con l'occupazione nazista collaborarono con i tedeschi nella deportazione e nello sterminio degli ebrei".

(L'Unione Informa, 26 giugno 2012)

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