Nemici o alleati, comunque prigionieri

I militari italiani catturati da americani e inglesi furono 600mila: un capitolo poco noto che ora riemerge

  di Mario Avagliano

  Tra il 1940 e il 1946 quasi ogni famiglia italiana aveva un congiunto o parente prigioniero di guerra all’estero. Oltre un milione e duecentomila nostri militari furono catturati in Europa, in Africa o nel Mediterraneo. Di questo rilevante numero, circa 600 mila finirono nelle mani degli Alleati: 408 mila detenuti dagli inglesi, 125 mila dagli americani, 37 mila dai francesi e 20 mila quelli ufficialmente dichiarati dall’Unione Sovietica.

Nel dopoguerra per lungo tempo la questione dei prigionieri di guerra italiani è stata pressoché rimossa dalla memoria collettiva e la storiografia vi ha prestato scarsa attenzione. L’interesse per il tema si è ridestato negli ultimi trent’anni, con la pubblicazione di numerosi saggi, riguardanti soprattutto la prigionia in Germania e in Russia. Sulla vicenda dei prigionieri italiani degli Alleati, non erano stati prodotti studi esaurienti.
A colmare questo gap storiografico, sono intervenuti questa estate due interessanti libri di Flavio Giovanni Conti, I prigionieri italiani negli Stati Uniti (Il Mulino, pp. 576, euro 28), e di Isabella Insolvibile, Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 358, euro 38), entrambi basati in larga parte su documentazione inedita, tratta da archivi italiani, inglesi e statunitensi.
Non tutte le prigionie furono uguali, ed è nota la dura sorte dei 650 mila internati militari italiani in Germania e dei prigionieri in Unione Sovietica. Gli inglesi trattarono i nostri connazionali in modo piuttosto rigido ma nel complesso rispettoso delle norme della Convenzione di Ginevra del 1929, mentre gli Usa garantirono loro condizioni di vita nettamente migliori.
Dei 125 mila prigionieri italiani in mano agli americani, 51 mila furono trasferiti negli Stati Uniti. La loro storia viene ricostruita da Flavio Giovanni Conti: dall’arrivo dei primi contingenti nel dicembre 1942 al ritorno in Italia a scaglioni, fino al febbraio 1946. Nei campi gli italiani furono trattati molto bene e trovarono una grande varietà di generi alimentari: carne, birra, Coca-Cola, caffè, gelati, biscotti, frutti esotici e perfino ostriche. «Da quando sono rivato in America non ho piu soferto», mandò a dire a casa un nostro militare.
Il positivo atteggiamento nei confronti dei prigionieri italiani è più facilmente comprensibile se considerato alla luce della politica di «indottrinamento» perseguita dalle autorità americane, in collaborazione con la Chiesa cattolica: l’acquisizione di idee democratiche e filo-Usa era considerata funzionale alla collocazione dell’Italia nel blocco occidentale.
Anche le popolose comunità italoamericane si mobilitarono in favore dei prigionieri. Esse fecero sentire il loro peso, condizionando l’opinione pubblica statunitense che, dopo le rivelazioni sulle atrocità nei lager tedeschi, espresse critiche nei confronti dell’atteggiamento troppo benevolo (si parlò di coddling, «coccolamento») verso gli italiani.
Gli eventi successivi all’8 settembre 1943 e alla cobelligeranza provocarono contrasti e divisioni tra i prigionieri: la grande maggioranza aderì alla cooperazione con gli americani, lavorando per la vittoria degli Alleati, ma ci furono anche coloro che si rifiutarono.
Tali scelte determinarono la collocazione di cooperatori e non cooperatori in distinti campi, con una certa diversità nel trattamento, che in alcuni casi ebbe una connotazione quasi punitiva, come a Camp Hereford, in Texas, dove venne rinchiuso tra gli altri lo scrittore Giuseppe Berto. Solo ai militari italiani cooperatori fu consentito di andare a visitare città, recarsi in chiesa, al cinema, a feste da ballo, avere relazioni con donne. Ciò giustifica il diverso giudizio sull’esperienza americana, in generale positivo, fatta eccezione per alcuni reduci di sentimenti fascisti.
La storia misconosciuta dei prigionieri di guerra italiani in Gran Bretagna è raccontata invece da Isabella Insolvibile nel saggio Wops, termine che veniva utilizzato nei paesi anglosassoni per designare in senso spregiativo gli “italiani” (deriva dal napoletano “guappo” ed è traducibile con il nostro “terrone”), ma anche anagramma di P.o.Ws., forma abbreviata di Prisoners of War.
Tra il 1941 e il 1944 almeno 155.000 italiani furono trasferiti dagli inglesi nella madrepatria britannica, prelevati direttamente dai fronti africani o dai territori in cui erano stati detenuti in un primo momento, come l’India, il Kenya, il Sudafrica.  
Il motivo che spinse gli inglesi a “importare” gli italiani in Gran Bretagna fu prettamente economico: la maggior parte degli uomini abili erano impiegati sotto le armi e, di conseguenza, le fabbriche, le officine e i campi erano sforniti di manodopera. Gli italiani, ritenuti - diversamente dai tedeschi - non pericolosi per la sicurezza nazionale e considerati buona manovalanza, divennero fin dal 1941 una presenza costante nelle campagne britanniche. Alloggiati in campi ben attrezzati, furono tutelati dalle convenzioni internazionali relative ai prigionieri di guerra, assistiti dalla Croce Rossa Internazionale, nutriti con razioni abbondanti.
Tuttavia la condizione psicologica degli italiani fu caratterizzata da una costante malinconia e da un crescente malcontento, causati dalle condizioni di una prigionia che fu lunghissima da un punto di vista temporale, immutata dal punto di vista dello status giuridico – nonostante il variare della posizione dell’Italia nei confronti degli Alleati –, e prorogata a ben dopo la fine della guerra per le esigenze economiche degli inglesi.
Una storia di prigionia ma anche di discriminazione. I P.o.Ws. italiani, anche quando giunse la pace, rimasero immutabilmente dei Wops, gente considerata bellicamente, politicamente, culturalmente e anche razzialmente inferiore, disprezzata dalla popolazione britannica, abbandonata al proprio destino dalle autorità nostrane. I nostri soldati tornarono uomini liberi solo dopo l’ennesimo raccolto di barbabietole da zucchero in Gran Bretagna, a partire dall’inizio del 1946.
Qualcuno rimase nel Regno Unito o vi ritornò tempo dopo, come emigrante e soprattutto in qualità di “sposo di guerra”: infatti, nonostante il no fraternisation, molti prigionieri avevano nel tempo instaurato relazioni con giovani donne britanniche, e la conseguenza più evidente di queste storie d’amore proibite, come scrisse Elena Albertini Carandini, moglie dell’ambasciatore italiano a Londra, furono i tanti bambini inglesi “brunetti”.

(In formato leggermente più ridotto su Il Mattino, 5 ottobre 2012)

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Mussolini-Churchill, carteggio fantasma

di Mario Avagliano

Davvero il primo ministro inglese Winston Churchill brigò col duce Benito Mussolini per far entrare in guerra i soldati italiani al fianco dei tedeschi e poi condizionare Adolf Hitler nelle trattative di pace? Se ne parla dall’immediato dopoguerra, favoleggiando di fantomatici viaggi di Churchill in Italia e di manovre oscure del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dei servizi segreti italiani e stranieri per distruggere le prove di questo complotto. Ma il carteggio tra i due uomini politici, divenuto il prototipo dei misteri d’Italia, sarebbe solo una “leggenda nera”, creata ad arte per rivalutare la figura di Mussolini. È la conclusione a cui giunge, sulla base di un’approfondita ricerca storica e un robusto apparato di documentazione, il saggio di Mimmo Franzinelli L’arma segreta del Duce (Rizzoli, pagine 439, euro 23).

Franzinelli non è nuovo in lavori di demolizione di tesi storiche campate in aria o di documenti falsi, come i presunti diari di Mussolini (vedi Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia, Bollati Boringhieri 2011). Questa volta a farne le spese sono le misteriose lettere tra il duce, Churchill e altri famosi personaggi (tra cui re Vittorio Emanuele III, Badoglio, De Gasperi, Grandi, Sforza, e a ecclesiastici del calibro di don Luigi Sturzo e monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI) che riguarderebbero l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 e l’accordo segreto secondo cui, in caso di sconfitta della Gran Bretagna, Mussolini avrebbe mitigato le pretese di Hitler al tavolo della pace in cambio di concessioni territoriali.
La caccia alla borsa di documenti di Mussolini si aprì già nell’aprile 1945. “Per l’Italia valgono più di una guerra vinta” aveva confidato il Duce al gerarca Alessandro Pavolini. I clamorosi documenti (custoditi da personaggi di dubbia reputazione), apparvero sulla stampa negli anni Cinquanta e divennero oggetto di negoziazioni, ricatti, speculazioni tra Italia e Svizzera, Germania e Regno Unito, alimentando numerosi servizi giornalistici e monografie. Ci cascò perfino il massimo esperto del fascismo Renzo De Felice, seguito peraltro da altri illustri storici.
Franzinelli, nel suo saggio, osserva che tutti i personaggi coinvolti nell’intrigo internazionale  “vengono presentati con una connotazione negativa, come egoisti e doppiogiochisti. Gli unici documenti che sprizzano idealismo e amor patrio sono quelli a firma di Mussolini”. Quanto a Churchill, dopo aver concordato col Duce l’ingresso italiano in guerra, avrebbe violato le intese riservate.
Esaminando un’ingente mole di fonti diplomatiche, epistolari, testi di memorialistica e storiografia, Franzinelli boccia l’attendibilità di tale tesi. E spiega che nella primavera del 1940, Churchill, in qualità di Primo Lord dell’Ammiragliato ovvero ministro della Marina militare, dirigeva la guerra in Norvegia e aveva ben altre urgenze piuttosto che trattare col Duce. Sino alla sua investitura a premier, il 10 maggio 1940, non poteva offrire alcunché a Mussolini, né tantomeno rivolgerglisi in qualità di portavoce del Regno Unito.
Questo non significa che i due uomini politici ebbero fino a un certo momento storico buoni rapporti, in quanto Churchill apprezzava il Mussolini «antibolscevico» e nella seconda metà degli anni Trenta ambiva a scongiurare il rinsaldarsi dell’alleanza italo-germanica. Nel mese intercorso tra l’ingresso a Downing Street e la dichiarazione di guerra italiana, il 10 giugno 1940, Churchill scrisse effettivamente una lettera al duce, augurandosi che l’Italia rimanesse fuori dal conflitto, ma Mussolini con la sua risposta sprezzante pose fine ad ogni speranza sul protrarsi della non belligeranza dell’Italia.
La campagna di disinformazione sul carteggio iniziò già sotto Salò e continuò nel dopoguerra con quattro obiettivi indicati da Franzinelli: in primo luogo, strappare a grandi editori italiani e stranieri cospicui diritti di pubblicazione; poi, negoziare col governo la consegna di materiale apocrifo, per trarne vantaggi politici e per legittimare il Carteggio; non ultimo, modificare il senso comune su Mussolini e sui suoi oppositori, sollevando il Duce dalla responsabilità di una guerra disastrosa e addossando la disfatta agli antifascisti; e infine riprendere le ostilità contro la «perfida Albione» e denigrare Churchill, colpevole di aver vinto l’Italia fascista.

(Il Messaggero, 17 agosto 2015)

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Storie – Qui solo di passaggio

di Mario Avagliano

Quando nel giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra, il regime fascista inasprì le misure persecutorie nei confronti degli ebrei. Tra i primi provvedimenti adottati, vi fu l’arresto e l’internamento in appositi campi o luoghi di confino di oltre 6 mila ebrei stranieri o apolidi residenti in Italia e di centinaia di ebrei italiani considerati “pericolosi”.
Nell’ultimo ventennio, a livello locale, si è cercato di ricostruire tramite ricerche d’archivio e interviste ai protagonisti dell’epoca le vicende individuali degli internati, molti dei quali poi finiti nel tunnel della morte dei lager nazisti.

L’ultima pubblicazione al riguardo, intitolata “…Siamo qui solo di passaggio”, è quella dell’Associazione il Fiume-Stienta, a cura di Maria Chiara Fabian e Alberta Bezzan, che hanno raccontato la storia degli ebrei internati in 20 comuni del Polesine, in provincia di Rovigo, per i tipi della casa editrice Panozzo di Rimini.
Il titolo riprende la frase dell’ultimo biglietto scritto da Werner Schlòss, giovane ebreo viennese internato a Fiesso Umbertiano con i genitori, prima di essere caricato sul treno piombato per Auschwitz. Lo scriveva agli amici Aldo e Mario Bombonati, che lo avevano accolto nella loro casa di campagna, profugo e fuggiasco dalla furia nazista, dal campo di Fossoli. Werner e i genitori vennero deportati e furono tra le vittime della Shoah italiana.
Il libro si avvale della grande mole di dati raccolta meritoriamente a livello locale da Luciano Bombarda e da altri appassionati. Un modo per contribuire a non perdere la memoria di quei giorni tristi e tragici.

(L’Unione Informa e Moked.it dell’1 settembre 2015)

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Premio Acqui Storia, “Vincere e vinceremo!” tra i finalisti

di Federica Balza

Arrivano i magnifici sei dell'Acqui Storia, premio che, ancora una volta, propone una rosa vasta e interessante fra cui sarà scelto il vincitore. La Giuria della Sezione scientifica ha scelto i seguenti finalisti: Mario Avagliano - Marco Palmieri, «Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943», ed. Il Mulino; Riccardo Calimani, «Storia degli ebrei italiani. Nel XIX e nel XX secolo», ed. Mondadori; Antonio De Rossi, «La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914)», Donzelli editore; Marcello Flores, «Traditori. Una storia politica e culturale», ed. Il Mulino; Mario Arturo Iannaccone, «Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e Guerra Civile (1931-1939)», ed. Lindau.

Ma c'è di più. La Giuria della Sezione divulgativa ha indicato come maggiormente significativi i seguenti volumi: Franco Cardini, «L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia», ed. Mondadori; Simona Colarizi, «Novecento d'Europa. L'illusione, l'odio, la speranza, l'incertezza», Editori Latenza; Roberto Floreani, «I Futuristi e La Grande Guerra», Campanotto Editore. E POI Paolo Isotta, «La virtù dell'elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro», Marsilio Editori; Angelo Ventrone, «Grande guerra e Novecento. La storia che ha cambiato il mondo», Donzelli Editore.
La Giuria della Sezione Romanzo Storico ha designato come finalisti: Licia Giaquinto, «La briganta e lo sparviero», Marsilio Editori; Ketty Magni, «Arcimboldo, gustose passioni», Cairo Editore; Marina Plasmati, «Il viaggio dolce. Il soggiorno di Leopardi a Villa Ferrigni», ed. La Lepre; Davide Rondoni, «E se brucia anche il cielo. Il romanzo di Francesco Baracca. L'amore, la guerra», ed. Frassinelli; Paolo Rumiz, «Come cavalli che dormono in piedi», ed. Feltrinelli.
I vincitori saranno premiati sabato 17 ottobre ad Acqui Terme al Teatro Ariston. L'attuale edizione del Premio Acqui Storia ha registrato una grande partecipazione con 167 volumi in concorso a fronte di una media di circa 30 delle prime 40 edizioni, confermandosi, anno dopo anno, un ambito riconoscimento da parte di autori ed editori, grazie anche alla preziosa regia del responsabile esecutivo del premio Carlo Sburlati.

(“Acqui Storia, i finalisti”, Il Giorno, 8 luglio 2015)

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Storie – Quel treno che arriva dall’inferno dell’Europa del 1942

di Mario Avagliano

Giugno 1942. Un treno carico di militari dell’Armir, il corpo di spedizione italiano in Russia, partito da Bologna e diretto a Stalino, in Ucraina, incrocia alcuni convogli di civili che viaggiano in senso opposto. Il sottotenente genovese Enrico Chierici, della Sezione fotografi dell’Ottava Armata, filma la scena con la sua cinepresa personale, formato 9,5. Il filmato, della durata di 20 minuti, restaurato da Home Movies, l’archivio nazionale del film di famiglia, con la collaborazione dell’Istituto Parri, è stato presentato nel capoluogo emiliano il 12 gennaio.

Le immagini inedite arrivano dal cuore dell’Europa durante il secondo conflitto mondiale. A Bobruisk, in Bielorussia, il treno è piantonato da soldati tedeschi. Sui vagoni e sul marciapiede s’intravedono diverse famiglie: uomini, donne, ragazzi. Si tratta di ebrei? O di deportati civili? La mancanza della stella gialla sugli abiti e il fatto che i carri non siano piombati, ha dichiarato Marcello Pezzetti a Paolo Brogi sul “Corriere della Sera”, porterebbe ad escludere la prima ipotesi.
Comunque sia, questo filmato che spunta dal lontano passato è l’occasione per aprire una questione storiografica interessante. Nei territori dell’ex Unione Sovietica i nostri militari vennero per la prima volta a contatto con il dramma della Shoah e con la violenza dei tedeschi nei confronti degli ebrei. E quando tornarono a casa, rivelarono ai familiari e ai commilitoni quello che avevano visto: fucilazioni, deportazioni, stragi.
Le informative degli agenti dell’Ovra, gli spioni del regime, testimoniano abbondantemente le parole dei soldati italiani al loro rientro in patria. Anche attraverso questa fonte diretta (oltre che dalle relazioni di alcuni diplomatici), il regime di Mussolini conosceva la sorte degli ebrei che finivano nelle mani dei nazisti.
E a quanto pare l’archivio del fotografo Chierici, scomparso nel 2001, contiene nuovo materiale ancora da esaminare. Altre storie da quegli anni terribili, altri volti, altre immagini dell’Europa funestata dalla guerra, dalla crudeltà e dall’antisemitismo.

(L'Unione Informa, 15 gennaio 2013)

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Da Teano alla tv, luci e ombre dei Savoia

di Mario Avagliano

Dall’incontro di Vittorio Emanuele II a Teano con il generalissimo Giuseppe Garibaldi per celebrare l’unità d’Italia, a quello di Emanuele Filiberto a Sanremo col sempreverde Pupo per il Festival dei fiori e delle canzonette. Come rilevò beffardo Roberto Benigni nella sua patriottica performance del 17 febbraio 2011 (che aprì di fatto il centocinquantenario), l’ascesa e il declino della più antica dinastia europea, come recita il sottotitolo del saggio «Casa Savoia» di Enrico Mannucci (Dalai editore, pp. 510, euro 18,50), si può racchiudere in questa immagine.

Indietro Savoia! Quasi assenti nelle celebrazioni del 150°, anche i manuali scolastici dedicano poche righe ai re d’Italia. Guardando a testi più autorevoli, invano si cercherebbe un Lytton Strachey nazionale che abbia dedicato una biografia di successo a un rampollo della casa sabauda. Figure trascurate pure dalla cinematografia.
Eppure la casata dei Savoia è antica di quasi mille anni ed è stata protagonista delle guerre d’indipendenza. Per circa metà del Novecento il nostro Paese è stato una monarchia. Nel secolo "breve" sul trono d’Italia sono passati tre re e la galleria di personaggi della corte reale ha annoverato figure come la bionda regina Margherita, famosa in tutta Europa per il suo stile, o l’avvenente (e antifascista) principessa belga Maria José.
Nell’Italietta della seconda metà dell’Ottocento l’identificazione della popolazione con la monarchia è stata macchinosa e incerta. E i Savoia ci hanno messo del loro, alimentando le chiacchiere, come ci racconta Mannucci, con un ritmo narrativo piacevole, ricco di aneddoti. La monarchia italiana non ha mai goduto di un’aura sacrale come altre case regnanti europee.
Il tempo di Umberto I, il re col cilindro, gli enormi baffoni e i sigari puzzolenti, amante delle donne e della caccia, fu turbolento, affannoso e bruscamente interrotto da un assassinio all’alba del Novecento. Le gazzette del tempo lo sbeffeggiavano per i suoi amori clandestini (celebre quello con la duchessa Litta).
Vittorio Emanuele III, principe di Napoli (tra i suoi cinque nomi c’è anche Gennaro), nato nella reggia di Capodimonte, passava per il «re soldato» in omaggio al suo impegno contro gli austro-ungarici nella Grande Guerra, ma anche come «re sciaboletta» per la statura (era alto appena 1 metro e 53 centimetri). Quando si sposò con la gigantesca principessa montenegrina Elena, Edoardo Scarfoglio sul «Mattino», in un articolo dal titolo Le nozze coi fichi secchi, lo definì un «tenentino» con il «pentolino in capo».
Nessun Savoia fu davvero re a lungo. Vittorio Emanuele III subì presto la diarchia con Mussolini, e il gaudente Umberto II (al quale vennero attribuite liasion con l’attore Jean Marais, il pugile Primo Carnera e Luchino Visconti) è stato il «re di maggio». Gioca a loro sfavore, poi, un’irrefrenabile inclinazione al cambio di campo, manifestata all’ingresso nella prima guerra mondiale col repentino ribaltamento di alleanze. Che ha oscurato il fatto che l’armistizio del 1943 fu una scelta obbligata per riscattare il Paese dal ventennio dittatoriale.
Per ironia della sorte, la dinastia sabauda è balzata agli onori della cronaca (rosa e nera) di più dopo l'esilio, con gli ultimi eredi che hanno occupato per decenni le pagine dei settimanali popolari, compresi i periodici più colti, come «L’Europeo» degli anni Cinquanta.
Né la voga si è esaurita con gli anni, rinfocolata da episodi scabrosi, procedimenti giudiziari (come quello che vide coinvolto Vittorio Emanuele, con l’accusa di omicidio volontario da cui fu prosciolto), scandalose avventure sentimentali con attori del cinema (note le storie di Maria Gabriella con Walter Chiari e di Maria Beatrice con Maurizio Arena). Fino alle imprese cine-televisive del più giovane rappresentante di casa Savoia, Emanuele Filiberto, star di trasmissioni Rai come Ballando con le stelle, cantante al Festival e perfino interprete di se stesso in un cinepanettone.
Tanto oblio è meritato? Di "peccati" i Savoia ne hanno diversi da farsi perdonare: dalla truculenta repressione dei moti sociali di fine secolo (leggi Bava Beccaris) alla pavida resa alla marcia su Roma delle camicie nere di Mussolini, fino all'improvvida firma sulle vergognose leggi razziali del 1938 e alla fuga precipitosa a Brindisi dopo l'armistizio.
Ma vi sono anche dei meriti: le guerre d'indipendenza e il Risorgimento, l'unificazione del Paese, l'apertura dei ghetti e l'emancipazione degli ebrei, la laicità dello Stato (poi messa in naftalina dall'ex mangiapreti Mussolini), un certo rigore piemontese nei costi della corte reale (oggi si direbbe della politica), la partecipazione in prima persona ai drammi nazionali, dal terremoto di Messina del 1908 a Caporetto.
È giusto, quindi, come fa Mannucci, proporre un ritratto in chiaroscuro di questa dinastia, che nel bene e nel male, citando Sergio Romano, «ci appartiene, fa parte della nostra storia nazionale, è indissolubilmente legata alla nostra vicenda risorgimentale». Ai lettori, direbbe il Manzoni, l'ardua sentenza.

(Il Mattino, 21 gennaio 2013)

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Fascismo. La rimozione delle colpe

di Mario Avagliano

Disquisendo della memoria della seconda guerra mondiale, lo storico inglese Tony Judt parla di “eredità maledetta”. Per lo scontro di civiltà che incarnò quel conflitto globale e per le sue truculente appendici (la Shoah, le deportazioni, la bomba atomica). Ma anche per il racconto mitizzato di quelle vicende. Con la (comoda) attribuzione alla Germania nazista di tutte le responsabilità e la presunzione di innocenza degli altri. Compreso chi, come l’Italia, vantava la primogenitura mondiale del fascismo e aveva collaborato strettamente con Hitler e i suoi atroci crimini.

A distanza di settant’anni da quei fatti, il nostro Paese non si è ancora liberato di quell’ “eredità maledetta”. E la visione autoassolutoria, con il corollario dello stereotipo de Il cattivo tedesco e il bravo italiano, come titola il saggio di Filippo Focardi (Editori Laterza, pp. 288, euro 24), resiste nell’immaginario collettivo.Per dirla altrimenti, ampi settori dell’opinione pubblica italiana condividono il giudizio buonista su Benito Mussolini formulato da Silvio Berlusconi il 27 gennaio scorso (salvo rettifiche serali). Bastava ascoltare ieri mattina le telefonate di consenso di molti ascoltatori alle parole dell’ex premier, nel corso della trasmissione condotta da Platinette su Radio Montecarlo.

E infatti “il mito del bravo italiano”, analizzato da David Bidussa già nel 1994, ha viaggiato (e viaggia) di pari passo con l’idea che il fascismo sia stata una dittatura all’acqua di rose, tenera verso gli oppositori e gli ebrei, i cui unici errori furono le leggi razziali e l’ingresso in guerra, e solo per compiacere l’alleato Hitler.
Così, alla figura esecrabile del “cattivo tedesco”, barbaro, imbevuto di ideologia razzista e pronto ad eseguire gli ordini con brutalità, è stata contrapposta quella del “bravo italiano”, pacifista, non antisemita, generoso anche quando veste i panni dell’occupante, prodigandosi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Quando questa narrazione assurge ad architrave della memoria pubblica nazionale? Focardi ritiene che le sue fondamenta siano state poste già fra l’armistizio del settembre 1943 e il 1947, quale strategia condivisa di un fronte composto dai partiti antifascisti, dal re e dal governo Badoglio, che utilizzarono la differenza tra Italia e Germania (e il contributo della Resistenza alla liberazione) “ai fini di autolegittimazione politica, di mobilitazione bellica e soprattutto di salvaguardia degli interessi nazionali”, per evitare una pace punitiva nei confronti del nostro Paese.
La mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè il fallimento della prevista azione penale contro i circa 850 presunti criminali di guerra italiani individuati dalle Nazioni Unite, e l’amnistia per i reati politici (compreso il collaborazionismo con i tedeschi) concessa nel 1946 dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, con il conseguente stop al processo di epurazione, completarono l’opera di rimozione.
Questa rappresentazione dei fatti è stata alimentata nei decenni successivi a livello storiografico, attraverso i giudizi autoassolutori di Renzo De Felice (celebre l’intervista del 1987 a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, in cui affermava che “il fascismo italiano è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto”) e di altri saggisti di fama, come Indro Montanelli e Arrigo Petacco. Ma ha trovato una sponda – come ci racconta Focardi – anche “sul piano della cultura popolare e di massa legata ai rotocalchi, al cinema, alla televisione e alle canzoni”. Fino al recente film Mediterraneo di Gabriele Salvatores, premio Oscar del 1992.
Intendiamoci, il mito del bravo italiano ha un suo nucleo di verità. Ci sono stati diversi Giusti italiani, che hanno salvato centinaia di ebrei dalle deportazioni, e nelle zone di occupazione spesso (anche se non sempre) le nostre truppe hanno trattato con umanità gli ebrei perseguitati, a volte rifiutandosi di consegnarli ai tedeschi. “Ma il confronto con la malvagità tedesca – spiega Focardi – ha funzionato, volutamente o no, come un perfetto alibi, permettendo di rinviare una riflessione pubblica sulla violenza fascista nel suo complesso: le politiche razziste e antisemite, i progetti espansionistici, le occupazioni militari, le repressioni e i crimini di guerra”. A differenza, ad esempio, di quanto si è fatto in Francia.
Negli ultimi anni la storiografia ha compiuto molti passi avanti nel colmare le lacune di conoscenza sul regime fascista e le sue guerre, alzando il velo su aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. I tedeschi continuano ad essere “una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza”, come temeva Vittorio Foa. E c’è chi, come il comune di Affile, innalza addirittura mausolei a un criminale di guerra (il maresciallo Rodolfo Graziani). Nell’aprile 2002 l’ex presidente tedesco Joannes Rau si recò assieme al presidente Ciampi alle commemorazioni della strage di Marzabotto. A quando, si chiede Focardi, una visita ufficiale italiana all’isola di Raab in Croazia, sede di un famigerato campo di concentramento italiano per slavi, o a Debrà Libanòs in Etiopia, dove le nostre truppe fucilarono circa 2000 persone?

(Il Messaggero, 29 gennaio 2013)

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Paronetto, l'uomo chiave della costituzione economica dell'Italia libera

di Mario Avagliano

Consigliere ascoltato e amico di Alcide De Gasperi e di Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI); ghost-writer di Pio XII in materia economica e sociale; allievo prediletto di Donato Menichella; amico inseparabile di Ezio Vanoni e di Pasquale Saraceno; riferimento del giovane Guido Carli all’IRI e dopo; consulente economico di Giovanni Gronchi ministro dell’industria; ispiratore di numerosi futuri componenti dell’assemblea costituente, a cominciare da Giorgio La Pira; collaboratore della Resistenza e del Fronte militare clandestino di Montezemolo. Questo e altro è stato Sergio Paronetto (1911-1945), economista e manager IRI, morto a soli 34 anni, tra il 1940 e il 1945 uno dei protagonisti nell’opera di prefigurazione dell’Italia della Repubblica, esercitando una determinante influenza sui cinque grandi “ricostruttori” del Paese: Alcide De Gasperi, Giovanni Battista Montini, Ezio Vanoni, Donato Menichella, Luigi Einaudi. Alla sua figura, ancora poco conosciuta, è dedicato il libro Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione economica italiana (Rubbettino, 2012, pp. 550), a cura di Stefano Baietti e Giovanni Farese, che ha il grande merito di sottrarlo al "cono d'ombra" storiografico nel quale finora era stato oscurato.

Il contributo di Paronetto è riconoscibile nel processo di modernizzazione nella continuità che getta un ponte tra la ricostruzione industriale degli anni Trenta e la ricostruzione del Paese negli anni Quaranta. Da lui originano i suggerimenti più penetranti per l’interpretazione della libertà economica e della democrazia economica come essenziali per la libertà e per la democrazia e per misure quali il mantenimento della legge bancaria del 1936; la conservazione dell’IRI e del sistema dell’azionariato di Stato, che avrebbe trovato pochi anni dopo l’auspicata espansione con l’ENI di Vanoni e Boldrini (e Mattei); la programmazione economica, che ha il suo punto più alto nello Schema Vanoni; la genesi del Piano per il Mezzogiorno (con la legge del 1950 scritta da Menichella e Vanoni); la concezione redistributiva del sistema tributario, condivisa con Ezio Vanoni e oggetto della legge del 1951; il sistema di welfare totale; la definizione di un ruolo per i corpi sociali intermedi, in particolare i sindacati, condivisa con l’amico Giulio Pastore; la messa in valore nel dopoguerra dei tanti piani giacenti nei cassetti degli enti fondati o governati da Alberto Beneduce (tra cui il piano Inacasa, il piano autostradale); la costituzione economica italiana attraverso la partecipazione attiva ai documenti che a essa sono propedeutici, quali le Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e il Codice di Camaldoli.
Nel libro, mettendo al centro i fatti, le teorie, le istituzioni e gli uomini che gravitano attorno alla figura di Paronetto (Alberto Asquini, Enrico Cuccia, Alfredo De Gregorio, Francesco Giordani, Guido Gonella, Giovanni Gronchi, Raffaele Mattioli, oltre a quelli già citati), il fascio di luce sulla “stagione della politica economica” in cui prende forma la via italiana allo sviluppo e la più grande esperienza occidentale di partecipazione dello Stato al capitale delle imprese, assume una nuova riconoscibilità nel cui ambito la componente “cromatica” dell’apporto paronettiano è dominante almeno fino alla seconda metà degli anni Cinquanta.
Abbeveratosi negli anni Trenta a due fonti primarie – nella FUCI con Giovanni Battista Montini e nell’IRI con Donato Menichella –, Sergio Paronetto, è l’anima della rivista “Studium”, cui conferisce valenza e importanza enciclopedica, e dell’omonima casa editrice, e tra il 1940 e il 1945, anno della morte, dà un contributo fondamentale all’elaborazione di una forma per l’economia italiana del dopoguerra, esercitando una forte influenza, fin qui misconosciuta e dimenticata, su Alcide De Gasperi e su molti costituenti. Ben noto a Meuccio Ruini e al suo giovane capo della segreteria tecnica Federico Caffè, e da loro apprezzatissimo, Paronetto difende la necessità del piano quale strumento nel quale si indirizzano sapientemente e proficuamente le scelte di politica economica: responsabilità dello Stato, tuttavia, non passibile di essere un prodotto della burocrazia. La sua eredità in merito verrà proseguita dai fraterni amici e sodali Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni.
Non c’è solo il pensiero, ma anche l’azione (Ascetica dell’uomo d’azione è il titolo delle sue brevi memorie postume, con prefazione di Giovanni Battista Montini). Dopo l’8 settembre 1943, nominato vice direttore generale dell’IRI, collabora con il Fronte militare clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e si spende contribuendo a salvare una parte rilevante del patrimonio industriale del Paese secondo le linee del Piano Menichella-Malvezzi, di cui è il garante presso l’Ufficio di Roma dell’IRI, la cui sede è stata trasferita al Nord, e fornendo ai partigiani basi logistiche nei compendi dell’IRI. Contemporaneamente, offre rifugio in casa sua a quanti lottano contro l’occupazione tedesca, correndo gravi rischi.
Al cuore del pensiero e dell’azione di Paronetto sta l’idea che non c’è libertà senza giustizia sociale (dove c’è povertà, non c’è giustizia, non c’è libertà), e che non c’è spazio possibile per la giustizia sociale senza sapiente gestione, sotto il profilo morale e il profilo tecnico, dell’economia, anzitutto dell’economia pubblica. In ciò, pur rispettando l’autonomia di ciascuna disciplina, rompe gli argini disciplinari: economia e società; economia e diritto; economia e statistica; economia e storia.
In quel periodo il giovane economista rompe anche gli argini che separano le tante cerchie chiuse del Paese: cattolici democratici (per Paronetto passa la strada che va da De Gasperi ai Laureati Cattolici e da Montini a Vanoni), comunisti (per Paronetto passa la strada che va da Rodano a Togliatti), liberali (per Paronetto passa la strada che va da Carli a Einaudi; nonché le strade incrociate: da Mattioli a Togliatti, da De Gasperi a Menichella, da De Gasperi a Mattioli).
Si trova durante la guerra, senza averne coltivato l’ambizione, al centro della raggiera che collega la linea dei cinque grandi “ricostruttori” (De Gasperi, Einaudi, Menichella, Montini, Vanoni) e la schiera di valorosi tecnici e politici chiamati, in Italia e all’estero, come ministri e non, a dare pratico corso alla ricostruzione (Andreotti, Boldrini, Campilli, Carli, Cuccia, Fanfani, Ferrari Aggradi, Giordani, Gonella, Gronchi, La Pira, Malagodi, Mattioli, Moro, Pastore, Saraceno, Taviani, Vito).
Paronetto vivo, riceve il pressante invito di De Gasperi a non fargli mancare mai il contributo della “sua coscienza illuminata della realtà” (Andreotti testimonia come Paronetto sia stato il consigliere economico in assoluto più stimato e ascoltato da De Gasperi); Paronetto morto, riceve il tributo di Vanoni, che ne scrive chiamandolo suo “maestro”, e di Menichella, che lo definisce “il più intelligente, preparato e amato tra i miei collaboratori”.

ARGOMENTO DEL LIBRO
Il volume ospita le riflessioni di ben sette ex ministri - Piero Barucci, Sabino Cassese, Francesco Forte, Giorgio La Malfa, Adriano Ossicini, Paolo Savona, Vincenzo Scotti -, di un governatore emerito della Banca d'Italia, Antonio Fazio, di un ex Presidente del CNEL, Giuseppe De Rita, di un ex direttore generale dell'Enciclopedia Treccani, Vincenzo Cappelletti, di un ex capoazienda nel Gruppo IRI ed ex direttore del dipartimento di Diritto privato e comunitario dell’Università di Roma Sapienza, Felice Santonastaso. Completano la squadra studiosi di storia economica, anche delle nuove leve (S. Baietti, S. Bocchetta, L. D’Antone, N. De Ianni, G. Di Taranto, G. Farese, F. Felice, M. Serio, T. Torresi). Pregnante è la testimonianza di Maria Luisa Valier Paronetto, la moglie di Sergio Paronetto, autrice della unica biografia sinora pubblicata (per i tipi di Studium) sulla figura dell’economista valtellinese. La materia generale è la storia economica italiana, in specie quella bancaria, finanziaria e industriale, con saggi riguardanti i fatti, le teorie, gli istituti e gli uomini intrinseci al mondo economico del periodo compreso tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, quali Alberto Asquini, Alberto Beneduce, Guido Carli, Enrico Cuccia, Alfredo De Gregorio, Francesco Giordani, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni.
Tutto è letto attraverso la vicenda del protagonista cui è dedicata l'attenzione degli autori: Sergio Paronetto (1911-1945), economista di impresa e giovane vicedirettore generale dell'IRI, morto a soli 34 anni, uno degli estensori della legge bancaria del 1936 con Alberto Beneduce e Donato Menichella, incaricato da Giovanni Battista Montini, e anche da Alcide De Gasperi, che aveva già utilizzato l’amico valtellinese per Le Idee Ricostruttive, di pensare quello che diverrà nel 1943 il Codice di Camaldoli (riprodotto in Appendice al volume), destinato a essere la base dalla quale i costituenti trarranno in gran parte i lineamenti della costituzione economica.
Nella sua riflessione sull’economia e lo Stato non si ha traccia di una ideologia di partito o di integralismo religioso, anche se egli è stato, oltre che economista d’impresa e manager industriale, animatore della Fuci e del Movimento Laureati Cattolici, stretto amico e sodale di Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI, e di Igino Righetti e con questi co-fondatore dello stesso Movimento Laureati. Editore della rivista “Studium”, gran parte dei suoi scritti sono concentrati nelle pagine di questa testata, su “Azione fucina” e nelle relazioni ufficiali dell'IRI, di cui Sergio Paronetto era sistematicamente il primo estensore.

I CURATORI

STEFANO BAIETTI, dirigente dell'Anas, dopo esserlo stato nel Gruppo IRI e in una controllata delle Ferrovie dello Stato, ha approfondito la storia della spesa pubblica nei sistemi infrastrutturali e la storia degli enti in cui ha prestato la sua opera. Con Giovanni Farese è autore di Sergio Paronetto and the Italian Economy between the Industrial Reconstruction of the Thirties and the Reconstruction of the Country in the Forties (in "The Journal of European Economic History", 2010) e della voce biografica Sergio Paronetto (1911-1945), economista e manager industriale (in “Enciclopedia della Banca, della Borsa, della Finanza”, 2011). È promotore della giornata di studi Sergio Paronetto.

GIOVANNI FARESE insegna Storia e teoria dello sviluppo economico nella LUISS "Guido Carli". Ricercatore nell'Università Europea di Roma, è Managing Editor di "The Journal of European Economic History", rivista distribuita in circa 90 Paesi. È autore del volume L'Imi di Azzolini e il governo dell'economia negli anni Trenta (Napoli, 2009) e ha curato, per Rubbettino, la pubblicazione del diario inedito di Giovanni Malagodi, Aprire l'Italia all'aria d'Europa. Il diario europeo, 1950-1951 (2011). È Aspen Junior Fellow dell'Aspen Institute Italia, socio della Società Italiana degli Storici Economici e della Società Italiana degli Economisti. È promotore della giornata di studi Sergio Paronetto.

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