Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947)

Mario Avagliano
Marco Palmieri
Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947)

«Biblioteca storica»

«Amore mio qui scoppia il dopoguerra» (Suso Cecchi d’Amico, 1945)

Il volume

I tre anni che vanno dalla fine della guerra all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana per gli italiani sono un periodo pieno di felicità e di violenza, in cui la comunità nazionale ricompone i suoi frantumi, si congeda dalla guerra civile e dal fascismo e costruisce faticosamente il suo futuro. Sono i giorni delle vendette e della resa dei conti, dei prigionieri e dei deportati che tornano a casa, delle grandi adunate politiche della rinata democrazia, ma anche di una gioiosa febbre di divertimento, di voglia di ballare, di fretta di ricostruire e costruire, con un’energia vitale che già prepara il boom degli anni a venire. Gli autori interrogano diari privati e memorie, lettere, rapporti della polizia, stampa e cinegiornali, film e canzoni, corrispondenze e conversazioni intercettate, per comporre un ricco e appassionante ritratto dal basso di come gli italiani vissero qui primi fervidi anni della repubblica.

 

Gli autori

Mario Avagliano, giornalista e storico, collabora alle pagine culturali del «Messaggero» e del «Mattino». Tra i suoi libri più recenti: Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945 (Einaudi, 2006) e Il partigiano Montezemolo (Baldini & Castoldi, 2012). Marco Palmieri, giornalista e storico, ha pubblicato L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia (Baldini & Castoldi, 2015). Insieme hanno pubblicato numerosi volumi, tra cui, con il Mulino, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte (2014), L’Italia di Salò (2016), 1948. Gli italiani nell’anno della svolta (2018, Premio Fiuggi Storia).

Libri. Hitler, ecco gli ultimi scritti del leader nazista - Così Hitler costruiva menzogne

di Mario Avagliano

  Adolf Hitler è morto da settant’anni, ma mai come oggi si registra tanto interesse attorno alla sua figura. È di pochi giorni fa la notizia, non proprio tranquillizzante, che diverse scuole italiane hanno adottato come libro di testo il suo delirante manifesto politico e ideologico, il Mein Kampf, con conseguente coda polemica da parte dell’Unione delle Comunità Ebraiche. Nel frattempo in libreria arrivano nuovi saggi su Hitler, che svelano nuovi dettagli del suo pensiero e della sua vita.
Ultima tra le pubblicazioni del Führer è la nuova edizione delle sue ultime riflessioni, pubblicata da Rizzoli col titolo Il mio testamento politico (pp. 162, euro 13), arricchita da una prefazione del politologo Giorgio Galli, il maggior studioso italiano dei rapporti tra nazionalsocialismo e cultura esoterica.
Si tratta degli appunti affidati da Hitler, in una serie di conversazioni a tavola, al suo segretario personale Martin Bormann nel bunker della Cancelleria, in una Berlino distrutta dai bombardamenti e assediata dai sovietici, tra il febbraio e l’aprile del 1945. Poche settimane dopo Hitler avrebbe nominato Bormann suo esecutore testamentario e suo successore come capo del partito. Hitler fa un bilancio della sua vita e s’interroga sui motivi della guerra e sul perché l'ha persa. Dove aveva sbagliato?
Il suo testamento, pubblicato negli anni Cinquanta e poi divenuto praticamente introvabile per decenni (in Italia venne edito solo nel '61), getta nuova luce sulle motivazioni che guidarono le scelte di Hitler. Si tratta dell’«ultima finestra che doveva aprirsi su quella buia stanza, così infetta, laida e stregata, e ciononostante così satura di autentica anche se terribile forza esplosiva, ch’era la sua mente», come scrive Trevor-Roper nell’introduzione.
Il Fũhrer afferma di essere stato «l’ultima speranza dell’Europa» contro il pericolo della Russia e contro «il veleno mortale dell’ebraismo» e sostiene che in realtà non voleva la guerra, che gli sarebbe stata imposta dagli Alleati, rifiutando le richieste della Germania, e dagli odiati ebrei che volevano dominare il mondo. Ciò non toglie che egli continuasse a paragonarsi a Napoleone, che, come lui, era stato costretto a fare la guerra anche se voleva la pace.
Quanto a Mussolini, il dittatore nazista afferma di riporre in lui personalmente «assoluta fiducia», ma di averlo tenuto all’oscuro di alcune sue iniziative militari a causa di Ciano «il quale, naturalmente, non aveva segreti per le belle donne che gli svolazzavano intorno come farfalle».

L’altro saggio da poco arrivato in libreria è Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf (Rizzoli, pp. 356, euro 22), opera del giornalista e storico tedesco Sven Felix Kellerhoff, che ha ricostruito la genesi dell'opera di Hitler, vera e propria bibbia del nazismo, il suo percorso editoriale e la fortuna che ebbe da parte dei lettori (ne furono stampate 12 milioni di copie), fino al divieto di pubblicazione nel dopoguerra da parte della Baviera, caduto solo di recente, con il via libera a un’edizione ufficiale commentata.
Hitler concepisce la sua opera nel 1924, mentre è rinchiuso nel carcere di Landsberg, per alto tradimento dopo il putsch fallito. In cella sente l’esigenza di mettere nero su bianco la sua visione del mondo e della Germania.
La ricerca di Kellerhoff stabilisce sulla base di documenti (5 pagine originali del volume e ben 18 scalette ritrovate nel 2006 e provenienti dalla macchina da scrivere personale del futuro dittatore) che il libro sarebbe stato scritto integralmente da Hitler e anzi in gran parte da lui battuto direttamente a macchina, su una Meteor da viaggio. Rudolf Hess collaborò solo alla correzione delle bozze, con la collaborazione della futura moglie Ilse Pröhl.
Interessante anche la ricostruzione delle fonti del Mein Kampf, raramente citate da Hitler: dall'Ebreo internazionale di Henry Ford ai saggi dell'esperto di eugenetica svedese Herman Lundborg e del teorico razzista tedesco Hans F.K. Günther. Anche la teoria dello «spazio vitale» non fu opera del futuro Fũhrer che la copiò dalle idee di uno dei professori di Rudolf Hess: Karl Haushofer.
Non mancano le bugie costruite ad arte da Hitler. Ad esempio le informazioni autobiografiche non sono affidabili: il padre non era un oppositore della monarchia austroungarica, ma un funzionario doganale ripetutamente promosso per i suoi servigi e la sua lealtà.

Quanto all'antisemitismo di Hitler, che rappresenta il fulcro della Weltanschauung nazista, questi nel suo libro lo fa risalire già alla sua giovinezza a Vienna. Una tesi che, rileva Kellerhoff, contrasta con la sua vicenda biografica e con i suoi buoni rapporti con famiglie ebree del luogo, come gli Jahonda. Anzi, probabilmente fu il suo tenente ebreo Hugo Gutmann ad adoperarsi per fargli assegnare la Croce di ferro di prima classe il 4 agosto del 1918. Secondo lo storico tedesco la conversione ideologica di Hitler sarebbe avvenuta dopo la guerra. Un’altra bugia del futuro Führer del Terzo Reich.

(Il Messaggero, 29 dicembre 2016)

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Storie – La difficile giustizia sui crimini di guerra

 di Mario Avagliano

   Al termine del secondo conflitto mondiale, l’individuazione dei responsabili dei gravi crimini commessi durante l’occupazione tedesca in Italia contro le popolazioni civili rimase circoscritta a pochi casi eclatanti. Anche per ragioni di politica internazionale (l’incipiente guerra fredda e la necessità di “tutelare” l’avamposto della Germania dell’Ovest dall’espansione sovietica), ben presto gli Alleati abbandonarono il progetto di fare giustizia delle stragi compiute dai tedeschi durante la campagna d’Italia, e gli italiani, a parte poche condanne (Kappler per le Fosse Ardeatine, Reder per Marzabotto e altri eccidi), ben presto posero fine a quella stagione processuale.

La caccia ai criminali nazisti -  come racconta l’interessante  libro “La difficile di giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013” (Viella editore), scritto a quattro mani da uno dei protagonisti della nuova stagione, il procuratore Marco De Paolis, pubblico ministero nei processi per le stragi di Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Monte Sole-Marzabotto e per l’eccidio di Cefalonia, e  dallo storico Paolo Pezzino - riprese il suo corso solo molti anni dopo, nel 1994,  a seguito della scoperta del cosiddetto “armadio della vergogna”, come fu definito da Franco Giustolisi. Si trattava di una stanza murata a Palazzo Cesi, a Roma, sede della Procura generale militare, in cui erano conservati centinaia di fascicoli giudiziari sui crimini di guerra commessi sulla popolazione italiana tra il 1943 e il 1945, illegalmente archiviati dal procuratore generale militare nel 1960.

Un saggio ricco di dati e di informazioni, che fa il punto e il bilancio sui risultati dei nuovi processi sulle stragi nazifasciste, svoltisi tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Processi che, come scrive De Paolis, anche se tardivi e a volte parziali, “si presentano a noi come una specie di ‘porta della verità’, attraverso la quale, anche mediante la ricostruzione e l’accertamento dei fatti nella loro materialità e nell’individualità delle singole condotte, si afferma l’ingiustizia del fatto, la sua illiceità e la responsabilità penale di chi quel crimine ha commesso; e così si giunge alla verità”. Da ciò discende l’attualità dei processi e “l’importanza di continuare ad adempiere al proprio dovere giudiziario, che è quello di perseguire e punire questi crimini finché sia in vita anche solo uno dei criminali che ne sono stati responsabili”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 22 novembre 2016) 

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Storie – Carabinieri per la libertà

di Mario Avagliano

   Non solo Salvo D’Acquisto. Seimila carabinieri furono deportati nei lager nazisti e 2700 morirono dopo l’otto settembre 1943 per opporsi al nazifascismo e aiutare ex prigionieri alleati, renitenti alla leva, ebrei. Sono le vicende di cui parla il libro “Carabinieri per la libertà. L’Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata” (Mondadori, pp. 168), del giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli.
I carabinieri furono protagonisti delle quattro giornate di Napoli in occasione delle quali perfino i colleghi già pensionati si rimisero l’uniforme.
Per la difesa di Roma dopo l’armistizio si mobilitarono anche gli allievi della Scuola dei Carabinieri, comandati dal capitano Orlando De Tommaso, che morì combattendo alla Magliana il 9 settembre 1943.
Ancora nella Capitale, la rete clandestina del generale Filippo Caruso, collegata al Fronte Militari guidato dal colonnello Giuseppe Montezemolo, riuscì a condurre un’opera di resistenza e sabotaggio che si snodò in tutta l’Italia centrale.
Tra i più coraggiosi, c’erano il tenente colonnello Giovanni Frignani e il capitano Raffaele Aversa, protagonisti il 25 luglio dell’arresto di Mussolini, e poi arrestati e uccisi alle Fosse Ardeatine.
Tra le Marche e l’Abruzzo, il capitano Ettore Bianco e il tenente Carlo Canger organizzarono bande armate reclutando volontari di ogni estrazione.
A Milano era attiva la “banda Gerolamo”, dal nome di battaglia del maggiore Ettore Giovannini.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Uomini come il carabiniere Martino Giovanni Manzo, che il 12 settembre 1943 a Napoli resisté fino all’ultimo proiettile e rimasto inerme, catturato, fu poi ucciso con ben tredici commilitoni a Teverola. Di lui Galli scrive, citando i ricordi di una nipote: «Prima di entrare nell’Arma era stato contadino. Aveva un unico codice di comportamento: lavorare duro perché altrimenti sarebbe morto di fame. L’impegno che mise nei campi fu lo stesso con cui indossò la divisa da carabiniere. Non voleva cambiare il mondo, soltanto fare il proprio dovere».
 
(L’Unione Informa e Moked.it del 13 dicembre 2016)

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Farmaci militarmente preziosi così si drogava la Germania nazista

di Mario Avagliano 

  Guerra e droga sono un binomio antico. I vichinghi andavano all’assalto dei nemici sotto l’effetto di funghetti, i guerrieri incas masticando le foglie di coca, i soldati della guerra civile americana dopati con la morfina, mentre durante la Grande Guerra i nostri soldati si davano coraggio bevendo la grappa, per non parlare del conflitto in Vietnam. Un best seller mondiale, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, dello scrittore Norman Ohler, già tradotto in 18 lingue e appena uscito in Italia (Rizzoli pp. 383, euro 22), ricostruisce in modo documentato l’uso e l’abuso di metilanfetamine tra i soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale, in particolare il Pervitin, assunto anche dal generale Rommel e dallo stesso Adolf Hitler.
Il Pervitin venne sviluppato dallo scienziato Fritz Hauschild, che era rimasto strabiliato dagli effetti delle benzedrine sugli atleti americani in gara alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Brevettato dagli stabilimenti Temmler nel 1937, divenne in breve tempo di moda nella Germania nazista, che febbrilmente inseguiva il sogno di conquistare il mondo, perché bastava ingurgitare alcune pasticche «rivitalizzanti» per rimanere svegli ed euforici per ore e ore.
Il capo dei medici del Reich, Otto Ranke, lo considerava «un farmaco militarmente prezioso!», poiché consentiva ai soldati di tirare avanti per oltre due giorni senza provare stanchezza e sonno e aveva effetti anche sul sistema inibitorio. E così quando la Germania invase la Polonia, fu lo stesso quartier generale della Wehrmacht a distribuirne dosi massicce ai soldati tedeschi, assieme al rancio quotidiano.
Le pilloline miracolose si rivelarono particolarmente utili nel maggio del 1940, in occasione della conquista del Belgio e del blitzkrieg in Francia, in quanto assumendo una pasticca al giorno e due di notte i panzer nazisti poterono procedere a tutta velocità attraverso le Ardenne, non fermandosi mai per quattro giorni di filato, macinando centinaia di chilometri. Un’impresa che lasciò esterrefatti i francesi e contribuì in modo determinante alla loro disfatta.

Il saggio di Ohler, pubblicato in Germania con il titolo “Der totale Rausch”, ovvero “La totale euforia”, e basato su documenti degli archivi tedeschi e americani, dimostra che gli psicofarmaci furono uno dei fattori di costruzione del mito della macchina da guerra del Terzo Reich, accanto all’ideologia nazista e alla disciplina del popolo tedesco. Il Pervitin era largamente diffuso tra i tedeschi, nonostante che, ufficialmente, le droghe fossero state bandite dal nazismo. Lo prendevano sportivi, cantanti, studenti sotto esame e massaie e venne sperimentato anche da scrittori del calibro di Heinrich Böll, Gottfried Benn, Klaus Mann e Walter Benjamin.
Ogni giorno in Germania si producevano 833 mila compresse e nel 1944, quando le sorti della guerra erano segnate, la Wehrmacht ne ordinò quattro milioni di confezioni.  Altre droghe furono sviluppate dai medici nazisti, che le sperimentarono sui prigionieri dei lager, come in quello di Sachsenhausen.
Il primo a farne uso era il «paziente A» Adolf Hitler che, come emerge dalla lettura delle carte del suo medico personale Theodor Morell, da quasi vegetariano e non fumatore, col tempo divenne sempre più dipendente dalle metilanfetamine e, non contento, passò poi al consumo dell’Eukodal, un derivato dell’oppio più potente dell’eroina (nel periodo di Salò, Morell somministrò psicofarmaci anche a Mussolini, definito il «paziente D»).  
Ohler calcola che tra il 1941 e il 1945, Hitler fece almeno 800 iniezioni di sostanze chimiche, inghiottendo più di 1.100 farmaci in forma di pillola.
Grazie all’Eukodal, il Führer appariva sempre fresco e allegro, trasmettendo fiducia ai suoi uomini. Morrell rivelò che gliene iniettò una dose anche il giorno del famoso convegno di Feltre del 19 luglio 1943, quando il Führer invasato e sovraeccitato parlò per tre ore di fila e mise verbalmente kappaò Mussolini che voleva sfilarsi dalla guerra.
Dopo il fallito attentato del luglio 1944 che gli provocò danni permanenti al timpano, Hitler iniziò anche a sniffare cocaina e nella primavera del 1945, rinchiuso nel bunker di Berlino, finì la sua vita come un tossico, con la bava alla bocca e il tremore alle mani, soffrendo di allucinazioni e con le vene rovinate dai buchi.

(Il Messaggero, 29 novembre 2016)

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Chiude il museo, all'asta i mezzi dello sbarco in Normandia

di Mario Avagliano 

   Tra i danni collaterali del terrorismo dell'Isis non c'è solo la distruzione di siti archeologici di inestimabile valore come quello di Palmira in Siria ma anche la memoria della seconda guerra mondiale. E infatti, proprio a causa del calo di visitatori e di turisti indotto dai recenti attentati in Francia, il prossimo 18 settembre chiuderà i battenti il «Museo dei Carri Armati» in Normandia, nato per ricordare il glorioso sbarco degli Alleati sulle spiagge francesi il 6 giugno del 1944, passato alla storia come il D-Day. La collezione dei carri armati utilizzati quel giorno, ma anche le jeep, le moto, le armi, le uniformi dei combattenti che liberarono l'Europa da nazisti e fascisti, in tutto 130 lotti, saranno battuti all'asta curata dalla casa parigina Artcurial.

Tra gli oggetti più pregiati in vendita c'è il carro armato M4 “Sherman” del 1944, valutato tra i 250 mila e i 450 mila euro, il cingolato americano forse più famoso della Seconda Guerra mondiale, di cui al mondo esistono pochissimi esemplari.  Per una Jeep Willys MB, una 4x4 che era in grado di tagliare il filo spinato delle trincee tedesche bastano invece 15-25mila euro, come per la moto Harley Davidson WLA del 1943, mentre il bulldozer Caterpillar D-8 costa tra i 4-6mila euro. Decisamente più economici i manichini dei carristi e piloti della marina americana, con indosso le uniformi originali, valutati 200 euro. 

Il museo era stato aperto appena tre anni fa a Catz, un paesino di poco più di cento anime vicino alla spiaggia di Utah, in occasione del settantesimo anniversario dello sbarco, grazie all’iniziativa di Patrick Nerrant e dei figli Stephane e Olivier, che dagli anni ‘80 cominciarono a collezionare veicoli della Seconda Guerra Mondiale insieme a migliaia di oggetti, restaurando una ventina di carri armati dell'epoca.

Negli ultimi mesi però il "Normandy Tank Museum” ha registrato un calo del 30% dei visitatori, imputato dal fondatore agli attacchi terroristici che negli ultimi due anni hanno colpito la Francia. Impossibile andare avanti, anche perché i costi di gestione e di manutenzione sono elevatissimi. Si tratta infatti di una struttura di 3000 metri quadrati con quaranta tra carri armati, camion, moto e aerei, migliaia di oggetti militari, manichini con uniformi, con pista di decollo, officina per le riparazioni e cinque ettari di terreno per dimostrazioni dinamiche. Fra le attività proposte anche tour sui cingolati e sorvoli delle spiagge del D-Day. Restano ancora pochi giorni per visitarlo. Un'ultima occasione per immergersi nella memoria di quella battaglia decisiva per la libertà del Vecchio Continente.

(Il Messaggero del 27 agosto 2016)

 

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Uno 007 per depistare Hitler

di Mario Avagliano

   La seconda guerra mondiale non fu combattuta solo dagli eserciti, con le armi convenzionali e quelle di distruzione di massa, ma anche dagli apparati di intelligence, attraverso giochi artificiosi di depistaggio e l’attività di agenti segreti modello 007 o di spie infiltrate dietro le linee nemiche.

Di recente il film The Imitation Game ha fatto conoscere al grande pubblico la brillante operazione condotta sotto copertura dal team del matematico Alan Turing per decrittare il codice Enigma, ideato dai nazisti per comunicare le loro operazioni militari in forma segreta. Meno nota è la battaglia di spionaggio ingaggiata nel 1944 dagli Alleati e dai tedeschi attorno al luogo dello sbarco angloamericano sul suolo europeo, che poi avrebbe deciso le sorti del conflitto nel Vecchio Continente.
È il tema di Overlord (Mondadori, pp. 368), il nuovo avvincente romanzo di Carlo Nordio, magistrato prestato alla narrativa, che dopo la storia di una spia nazista in Operazione Grifone, in questo nuovo libro, attraverso un misurato dosaggio di realtà documentata e di fiction, racconta i retroscena dello sbarco in Normandia, iniziato il 6 giugno 1944, il D-Day, appena quarantotto ore dopo la liberazione di Roma.
Il romanzo parte all’una di notte del 28 aprile, quando al chiaro di luna dieci navi da trasporto della Marina Usa, cariche di uomini e appesantite da decine di carri armati e di altri mezzi, attraversano il canale della Manica per simulare uno sbarco sulle coste del Devonshire, nell’Inghilterra sudoccidentale, su una serie di spiagge simili per conformazione a quelle della Normandia, da cui dovrebbe partire l'Operazione Overlord, il piano per stabilire una testa di ponte sulla terraferma allo scopo di liberare la Francia.
Un messaggio radio della flottiglia alleata viene intercettato dai tedeschi. All’istante alcune torpediniere germaniche partono verso le navi alleate e ne affondano due. Il bilancio è durissimo, seicento morti e altri dispersi, tra cui dieci ufficiali "Bigot", tra i pochi depositari del luogo segreto dello sbarco.
Alla notizia il premier inglese Winston Churchill trema. Sa bene che il rischio è enorme. L’effetto sorpresa è fondamentale. Se i tedeschi scoprissero dove le truppe angloamericani hanno intenzione di sbarcare, gli basterebbe trasferire un paio di divisioni corazzate lungo la costa della Normandia per far fallire l’operazione. Proprio per questo gli alleati hanno già messo in atto dei diversivi, facendo circolare piani falsi per lo sbarco in Norvegia o a Calais e costituendo armate fantasma nel Sudest dell’Inghilterra.
Grande è il sollievo di Churchill e di Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa, quando scoprono che nessuno dei dieci Bigot è caduto in mano ai nazisti. È vero, un ufficiale americano ha parlato ed è trapelato il nome di uno di loro, il colonnello Clarence Collins, ora ricercato dai tedeschi. Per fortuna però Collins si è salvato e si trova al sicuro in un ospedale inglese.
Ciò nonostante Hitler ha ordinato di trasferire parte delle truppe della Wehrmacht da Calais verso la Normandia e la Bretagna. Come depistare i tedeschi? Tocca a Sir Stewart Menzies, rampollo di una ricca famiglia, amica del re Edoardo VII, nonché capo dei Servizi Segreti inglesi, e a Colin Gubbins del SOE, l'organizzazione britannica creata per operazioni di sabotaggio sul suolo europeo, elaborare un piano audace, approvato da Churchill e Eisenhower. Inviare una spia inglese in Francia, che assuma l’identità di Collins e si faccia catturare dalla Gestapo, portando fuori pista i nazisti circa il luogo dello sbarco.
Viene scelto il maggiore Jim Wallace, il migliore agente del SOE, 32 anni, istruttore di lotta, esperto di tiro, traduttore di francese, consulente della polizia federale, laureato in letteratura moderna. Ci riuscirà? L’esito è scontato, ma non la trama del romanzo di Nordio, che è ricca di colpi di scena e di suspense, con l’intervento di spie tedesche e di partigiani francesi, tra cui l’affascinante Marie, e si sviluppa con l’andamento e le tonalità di un giallo, ma sul filo di una vicenda storica tra le più appassionanti dell’era moderna.

 
(Il Messaggero, 25 aprile 2016)

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Storie – Le spiagge razziste dei primi anni Quaranta

di Mario Avagliano

   Nella calda estate del 1940, segnata dall’entrata in guerra dell’Italia, il regime fascista impose un nuovo giro di vite agli ebrei, vietando loro perfino di recarsi in vacanza.  «25 luglio ’40. Gli ebrei allontanati dalla spiaggia adriatica», annotava Maurizio Pincherle nel suo diario. Si riferiva a Palombina sulla costa marchigiana, dove era solito ritrovarsi con i parenti durante le vacanze. Ma il provvedimento riguardava tutte le località turistiche.

Considerati «nemici della Nazione», nonché «razza inferiore», gli ebrei oltre ad essere esclusi dalle scuole e dai posti di lavoro pubblici, non ebbero più diritto neppure a recarsi nei luoghi di villeggiatura «di lusso».
Una pagina triste della nostra storia che ci viene ricordata da Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni nel libro «Spiagge di lusso. Antisemitismo e razzismo in camicia nera nel territorio riminese» (Panozzo Editore, pp. 282). Sul litorale dell’Emilia-Romagna erano considerate località off-limits per gli ebrei Cattolica, Misano Adriatico, Riccione, Rimini, S. Mauro Pascoli, Gatteo e Cesenatico. E allargando lo sguardo al resto d’Italia, come si legge nell’elenco ministeriale approntato dalla Direzione Generale per il Turismo del Ministero della Cultura Popolare del 9 giugno 1943, tra le località vietate agli ebrei figurano, tanto per citarne alcune, Senigallia, Camaiore, Cortina d’Ampezzo, Ortisei, Sanremo, Rapallo, Forte dei Marmi, Viareggio, Abano Terme, Salsomaggiore, Venezia, Alassio, Madonna di Campiglio, Recoaro Terme…
Il libro di Maggioli e Mazzoni non si sofferma solo su questa vicenda, ma racconta - con un’attenta e documentata ricostruzione dei fatti - anche la storia di molti ebrei residenti o di passaggio nel territorio riminese, tra Bellaria e Cattolica, dal 1938 al 1944, e degli episodi di razzismo e di persecuzione e di vessazione ma anche di solidarietà che si registrarono in quella parte d’Italia. Nomi, storie, fotografie, informazioni che ci restituiscono un ritratto dell’Italia razzista di quegli anni. Un ritratto per troppo tempo dimenticato.

(L’Unione Informa e Moked.it del 19 aprile 2016)

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