Salò, Ritratto di una scelta

di Letizia Magnani

Sui “ragazzi di Salò” in tanti hanno scritto, da Indro Montanelli a Giorgio Bocca. Molti hanno parlato di quella scelta “sbagliata”, che però a 17 anni aveva il sapore dell’estremo. Fra costoro ci sono visi noti dello spettacolo, testimoni del ‘900, da Dario Fo, a Giorgio Albertazzi e Raimondo Vianello. Sono stati “ragazzi di Salò”: uomini di una certa destra, ad eccezione di Dario Fo, ma, da più adulti certamente non fascisti, i quali, però, in quei venti mesi, fra il 12 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 videro in Salò chi una soluzione eroica, chi perfino rivoluzionaria, chi infine una via di salvezza.

E’ quanto raccontano, facendo parlare voci fino ad ora rimaste silenti, Mario Avagliano e Marco Palmieri nel volume, pubblicato dal Mulino, “L’Italia di Salò”. Avagliano e Palmieri non sono primi ad opere storiche di grande intelligenza e capaci, con fonti di prima mano, di raccontare storie già note, con un punto di vista nuovo. In questo caso a parlare sono le lettere, i diari, le testimonianze scritte di quell’Italia malconcia, ardita, “sbagliata” e sconfitta. Forse sconfitta perché “sbagliata”. Da qui le citazioni dello storico Roberto Vivarelli e dello scrittore Carlo Mazzantini, che, nel romanzo “A cercar la bella morte”, racconta la Repubblica Sociale Italiana, quella Salò che Mussolini fonda sotto il protettorato del tedesco.

E se il duce sul Garda stava per lo più a Villa Feltrinelli, a Gargnano, non c’è dubbio che la vera capitale della RSI sia stata Salò “Perché lì c’era la Stefani – spiega oggi Avagliano – e quindi i dispacci della RSI uscivano datati Salò”. La propaganda era fondamentale.

A Salò si ritrovarono “Gli entusiasti, che erano fedeli al duce e al fascismo, chi era più tiepido e vedeva in Salò un’occasione. Fra costoro inseriamo gli opportunisti, i cinici, chi non vide altra strada per sé. Poi c’erano i recalcitranti, che aderirono perché costretti dalla paura dei tedeschi, della pena di morte, dalla costrizione. Infine ci sono gli oppositori e i disertori, ma anche un mondo variegato fatto di banditi, violenti, nazisti”. “Colpisce – prosegue Avagliano – il fatto che vi aderiscano mediamente persone già grandi d’età, o giovanissimi, fra cui molte donne, che in pratica erano nati durante il ventennio”. Per molti, insomma è una sorta di ritorno alle origini, alla Marcia su Roma, alle idealità del fascismo della prima ora, violenza compresa.

Solo così si capisce l’esaltazione della morte come simbolo. C’era certo l’eco del nazismo, ma per i due autori si tratta di qualcosa di più profondo: “Fortissima è la simbologia della morte, in collegamento con l’iconografia del movimento squadrista originario, ma anche a dimostrazione del clima crepuscolare, privo di reali speranze”.

Dalla simbologia ai dati, Avagliano e Palmieri non tralasciano niente, ricordando che sono stati 550 mila i giovani, le donne e gli anziani che aderirono a Salò, in tre fasi distinte: “la prima è quella del rifiuto dell’armistizio immediatamente dopo il suo annuncio, a cui segue l’esodo verso il nord per seguire Mussolini subito dopo il suo rientro in Italia. Infine c’è la riorganizzazione e il reclutamento delle forze armate della Rsi nella forma dell’Esercito nazionale repubblicano, formalmente apolitico, della milizia di partito e delle formazioni autonome al servizio dei tedeschi”.

Il libro insomma ribalta l’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi e va invece in profondità, raccontando lati inediti, come il grande seguito di Salò nei giovani del Sud Italia: “L’ambizione per i più era quella di far rinascere il fascismo delle origini, questo anche il motivo per il quale in non pochi aderirono a Salò nel Mezzogiorno, e pur non essendo costretti dall’occupazione, lo fecero convintamente”. Un fenomeno, questo, di cui poco si è parlato e che il libro invece illumina con fonti inedite.

 

(Il Giorno-La Nazione e Il Resto del Carlino, 25 marzo 2017)

«L’Italia di Salò», 20 mesi di guerra civile vista dal basso

di Roberto Chiarini

Avagliano e Palmieri la rileggono a partire da scelte e motivazioni dei giovani aderenti  

Per molti, decisivi furono il «tradimento» di Badoglio e la voglia di dire che gli italiani non erano vigliacchi

In nessuna nazione europea come in Italia l’eredità del fascismo e, marcatamente, del fascismo repubblicano sorto sulle sponde del lago di Garda ha segnato i caratteri della politica e della stessa democrazia. Le ragioni dell’inossidabile persistenza della sua eredità nella vita della Repubblica sono molteplici. Ha pesato innanzitutto la durata ventennale del regime instaurato da Mussolini. Non di meno, ha costituito un pesantissimo lascito la guerra fratricida che si combatté nei Seicento giorni di Salò. È comprensibile che quel nodo politico e morale resti perciò tuttora il più visitato dalla storiografia. Negli ultimi tempi i riflettori si sono accesi in particolare su quella delle due parti in lotta che è stata a lungo più trascurata o negletta. Parliamo di coloro che andarono a cercare «la bella morte».

Ora, del vasto e variegato mondo di «vinti» disponiamo di uno studio - Mario Avagliano e Marco Palmieri, «L’Italia di Salò 1943-1945» (Il Mulino, 489 pagine, 28u) - che affronta sistematicamente l’argomento. Avvalendosi di una base documentaria particolarmente ricca, gli autori hanno riletto quei venti mesi di guerra civile «dal basso», partendo dalle motivazioni, dalle scelte, dai comportamenti adottati dai giovani (più di mezzo milione) che scelsero o subirono l’atroce destino di combattere o semplicemente schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Avagliano e Palmieri ci conducono per mano ad esaminare l’avventura, umana e politica, vissuta dai «figli di stronza»: dai primi che impugnarono le armi contro gli Alleati senza aspettare la chiamata di Mussolini a quanti dopo l’armistizio restarono fedeli all’alleato tedesco o, internati in Germania, decisero in un secondo tempo di arruolarsi nell’esercito di Graziani, passando per i prigionieri degli Alleati non cooperatori per finire con quanti si arruolarono nell’Esercito Nazionale Repubblicano o nelle varie formazioni «nere»: dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla XMas alle Brigate Nere allo stesso reparto femminile delle Saf, per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, responsabili delle più barbare atrocità.

A correre a Salò furono innanzitutto ex avanguardisti ed ex balilla. Li spinse la delusione sofferta a seguito della destituzione del duce, ma ciò che li fece davvero ribellare fu «il tradimento» perpetrato da Badoglio e dal re con la firma dell’armistizio. «Mi arruolai- protesta uno di essi, Gianfranco Finaldi - per dimostrare che noi italiani non eravamo fatti tutti della stessa pasta, non eravamo un popolo di vigliacchi». Più del fervore per la causa del fascismo, mosse i ragazzi di Salò la morale del «soldato fascista» alla quale erano stati educati a scuola e spesso anche in famiglia. Non tutti idealisti. Non furono tutti idealisti, peraltro, i giovani che scelsero o si adattarono a servire il nuovo regime fascista. Nelle loro file numerosi furono - l’ha ammesso lo stesso federale di Milano, Vincenzo Costa - autentici sciacalli che decisero di vestire la divisa solo per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Del resto, un’Italia educata a «libro e moschetto», sprofondata da ultimo in una guerra civile, era difficile che non desse spazio alla sua «peggiore gioventù» e non incoraggiasse le imprese più disumane. Per il resto dei militi di Salò - la gran maggioranza - scattarono vuoi un malinteso amor di patria, vuoi il riflesso condizionato dell’obbedienza all’autorità costituita inculcato dal regime.

(Il Giornale di Brescia, 28 marzo 2017)

Il lato nascosto di Salò: la "resistenza nera" al Sud

di Roberto Chiarini

Dai «figli di stronza» di Elio Vittorini ai «quindicenni sbranati dalla primavera» di Francesco De Gregori, passando per i «non uomini» segnati dal «marchio di Caino» per finire con gli «esuli in patria» figli di nessuno: il destino di chi ha aderito alla Repubblica sociale è stato di reprobi sul piano morale e di feroci persecutori dei partigiani su quello politico.

 
 

Insomma, ha oscillato a lungo tra il «disconoscimento totale» della loro umanità e la taccia di essere «gregari» di un «regime fantoccio» al servizio dello straniero occupante, fautore di una causa aberrante che riservava un futuro di schiavitù e di oppressione ai popoli dell'intera Europa. Risultato: non solo nel dibattito politico ma anche nella considerazione storiografica, sui «ragazzi di Salò» ha gravato un pesante cono d'ombra fatto di silenzio e di disprezzo. Esattamente quel che si meritano dei sanguinari che non si sono fermati di fronte al baratro di una guerra fratricida in cui avrebbero cacciato il proprio Paese pur di soddisfare la loro sete di violenza.

Ci sono voluti, prima le possenti spallate inferte da Renzo De Felice al pregiudizio che riduceva il fascismo a regime dittatoriale imposto di forza a un popolo di democratici, poi il coraggioso cambio di passo impresso agli studi sul Ventennio da Claudio Pavone con lo sdoganamento della categoria storiografica di guerra civile per liberare la considerazione dei «Balilla che andarono a Salò» dal vizio della loro demonizzazione. Stiamo parlando praticamente dell'intera generazione dei nati nel 1924 e '25. Se infatti si sommano ai volontari i giovani chiamati alla leva che o per un'atavica sudditanza all'autorità costituita o per un malinteso spirito di servizio o per un più elementare, comprensibile desiderio di sfuggire alla pena di morte riservata ai renitenti, si raggiunge la somma di più di 500mila ragazzi che alla fine misero comunque in gioco la loro vita per una causa che, bene o male, sapevano persa in partenza.

Al confino morale e politico comminato loro dai vincitori si è paradossalmente sommato il cieco spirito di rivalsa dei «vinti» e dei loro epigoni, cui il rancore ha fatto velo a un'auspicabile rielaborazione critica della «scelta sbagliata» da loro compiuta.

Ora di questo vasto e variegato mondo di vinti disponiamo di un'opera sistematica. Sulla scorta di un'accurata investigazione di fonti archivistiche edite e inedite nonché della cospicua letteratura accumulatasi nel frattempo in materia, Mario Avagliano e Marco Palmieri con il saggio L'Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pagg. 490, euro 28) ci mettono in condizione di articolare un giudizio sull'argomento a ragion veduta. La loro è una «storia dal basso», condotta cioè seguendo passo dopo passo il percorso compiuto da quegli italiani che, a diverso titolo e con diverse talora opposte - motivazioni, scelsero o subirono l'atroce destino di combattere o semplicemente di schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Già il federale di Milano Vincenzo Costa aveva riconosciuto che, accanto agli idealisti, si nascondevano anche degli autentici sciacalli che vestirono la divisa per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Entrando più nel dettaglio, Mario Cervi ha introdotto la distinzione tra i «fanatici, gli entusiasti, i rassegnati, i dubbiosi, i riluttanti», mentre Giorgio Bocca li ha suddivisi in «politici, romantici, onesti, illusi, profittatori scaltri, imprevedibili». Insomma, non si trattò solo di giovani invasati, di sanguinari, di accecati dall'odio ideologico. Corse a Salò, bene o male, tutta una generazione di giovanissimi nati, allevati e cresciuti a «libretto e moschetto», quindi «naturalmente» fascisti. Questo non impedì a molti di loro di maturare, alla luce della barbarie scatenata, di procedere poi a una sofferta revisione critica delle proprie originarie convinzioni fino ad aderire alla causa della libertà.

Avagliano e Palmieri hanno il merito di esaminare nel dettaglio tutti i capitoli della vicenda, umana e politica, vissuta dei «figli di stronza», arricchendoli peraltro di una ricca documentazione: dai giovani che non aspettarono la nascita dello Stato fascista per impugnare le armi contro gli Alleati ai soldati che all'indomani dell'8 settembre o solidarizzarono con i tedeschi o che, una volta internati in Germania, decisero di rivestire la divisa della Rsi nonché ai prigionieri non cooperatori fino a quanti si arruolarono nelle varie formazioni «nere» (dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla X Mas alle Brigate Nere, allo stesso reparto femminile delle Saf per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, resesi responsabili delle più barbare atrocità) o nell'Esercito nazionale repubblicano. Sono pagine di storia non del tutto sconosciute. Molte sono già state messe in chiaro dalla nutrita serie di memoriali e diari redatti dai reduci, oltre che da numerosi studi condotti dagli storici sull'argomento.

Forse la meno nota al largo pubblico è la pagina scritta dalla cosiddetta resistenza nera, ossia dal fascismo clandestino che si organizzò nell'Italia liberata. Una forma di insorgenza fascista si manifestò soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. L'elenco delle organizzazioni animatrici della lotta agli Alleati, solo abbozzate o semplicemente ostentate, sarebbe lungo. Si va dal Movimento giovanile di rinascita nazionale di Catania alla Lega Italica di Caltanisetta, al gruppo Onore di Roma, al Movimento dei giovani italiani repubblicani di Firenze, soprattutto alla Guardia ai labari, formazione costituitasi ancor prima della caduta di Mussolini per espressa volontà del duce su mandato del segretario Scorza. Solo a partire dal 1944, comunque, il fascismo clandestino diede concreti segni di vita, sviluppando una qualche forma di propaganda, persino azzardando conati rivoltosi. Nel complesso, però, l'impatto della sua azione fu assai modesto. Non riuscì né a stabilire un saldo coordinamento tra le varie realtà operanti né a dotarsi di una leadership riconosciuta. Il suo stesso esponente di maggior rilievo e visibilità, il bizzarro principe Valerio Pignatelli della Cerchiaia, finì col rimanere invischiato nella ragnatela da lui costruita senza riuscire a far compiere un salto di qualità al movimento clandestino. È vero che il mandato delle varie organizzazioni non era di serrare le file del popolo fascista ormai in disarmo. Era, più modestamente, di non lasciare nulla di intentato per contrastare l'invasione del nemico facendo leva sull'acuta sofferenza sociale della popolazione. A Palermo nell'ottobre del '44 la pessima situazione alimentare fece scattare una vivissima protesta nei confronti delle autorità occupanti. La repressione che ne seguì provocò numerose vittime, tanto che si parlò apertamente di una «strage del pane». Ancor più grave fu la rivolta suscitata dalla chiamata alle armi dei nati da parte del Regno del Sud tra il 1914 e il 1924. Il moto, avviatosi a Catania si estese poi a molti altri centri. Non fu, comunque, in grado di far rialzare la testa a un fascismo agonizzante.

(Il Giornale, 27 marzo 2017)

 

 

L'Italia di Salò, la recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

Ragazzi di Salò anche in Sicilia

Un saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri sulla Rsi. Alla repubblica fascista aderirono molti futuri attori: Walter Chiari, Raimondo Vianello, Giorgio Albertazzi

di Paolo Mieli

La repubblica fascista che Benito Mussolini guidò, per volontà di Adolf Hitler, negli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale è stata ben analizzata in molti volumi tra i quali sono da menzionare la prima Storia della Repubblica di Salò di William Deakin (Einaudi), L’amministrazione tedesca nell’Italia occupata di Enzo Collotti (Lerici), La guerra civile, ultimo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (Einaudi), La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori), L’occupazione tedesca in Italia di Lutz Klinkhammer (Bollati Boringhieri ), La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti), Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri), L’ultimo fascismo di Roberto Chiarini (Marsilio). Oltre a quelli assai ben scritti di Indro Montanelli e Mario Cervi, Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Silvio Bertoldi e, sul versante reducistico, Giorgio Pisanò. Eppure ci sono ancora infiniti aspetti che meritano di essere approfonditi, tante questioni apparentemente marginali su cui è utile entrare nel merito, come dimostra un documentatissimo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, L’Italia di Salò 1943-1945, che sta per essere pubblicato dal Mulino.

Roberto Chiarini ha scritto che la riduzione dell’ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della «barbarie consumata da un manipolo di sanguinari», prima ancora di essere una forzatura intellettuale, è stata a lungo un «artificio retorico» che doveva servire alla autoassoluzione in blocco degli italiani e all’occultamento delle responsabilità collettive per quel che accadde davvero ai tempi Salò. Ed è sottile l’analisi di Avagliano e Palmieri delle due memorie contrapposte in merito a quel che si verificò nel Nord Italia tra il 1943 e il 1945, là dove vengono identificati i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata» (cosa che del resto durante la guerra civile avevano fatto gli stessi fascisti con i partigiani, chiamandoli «banditi, fuorilegge, animali»). Ciò che Luigi Ganapini ha definito il «disconoscimento totale e reciproco, non solo politico, dell’umanità dell’avversario». Per non parlare della memoria degli ex repubblichini fortemente condizionata — persino nei testi meno autoindulgenti come quelli di Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini — dall’umiliazione della sconfitta.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmieri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime», nella speranza, condivisa anche da diversi squadristi della prima ora, che la Repubblica recuperasse le parole d’ordine del fascismo delle origini e segnasse una «pagina nuova». Ma attenzione: «L’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi tutto sommato in buona fede, non è stata solo frutto di una distorsione dovuta alle propensioni giustificative della memoria a posteriori; è servita piuttosto a relegare un tema arduo e scomodo in una zona d’ombra dove non fosse più di tanto necessario e richiesto fare i conti con una pagina importante del proprio passato e della propria storia nazionale».

Un dato interessante è la grande quantità di futuri personaggi dello spettacolo (oltre a Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che erano già molto famosi ed ebbero un ruolo attivo nella lotta ai partigiani) che tra il 1943 e il 1945 in un modo o nell’altro militarono dalla parte di Mussolini e dei tedeschi: Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, Dario Fo, Mario Castellacci, Leonardo Valente, Ugo Tognazzi, Mario Carotenuto, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Marco Ferreri, Fede Arnaud Pocek (più moltissimi altri che ebbero ruoli marginali). Tra le giustificazioni addotte — molti anni dopo la fine della guerra — è prevalsa la presa di distanza da questa giovanile adesione alla repubblica di Mussolini. Disse Dario Fo: «Aderii alla Rsi per ragioni pratiche, cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle». E Giorgio Albertazzi: «Non sono mai stato fascista; la mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale». Forse la spiegazione più articolata fu quella di Raimondo Vianello, che raccontò di aver deciso d’impulso di andare volontario nella Rsi «per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: “Vianello, si salvi chi può!”». I giovani che «andarono a Salò», proseguì Vianello, «erano spinti dall’idea di non abbandonare la battaglia». Pur se consapevoli d’essere «destinati a perdere». Per cui, concluse l’attore, «condannare in toto questo capitolo storico non mi sembra giusto».

Il libro dedica pagine particolarmente interessanti al «primo fascismo clandestino» dei giorni successivi al 25 luglio del 1943; alla «resa dei conti» interna al fascismo; ai prigionieri degli Alleati «non cooperanti», in particolare quelli del campo texano di Hereford; ai «tormenti e ai cambi di fronte» nella Repubblica sociale; al confronto generazionale tra coloro che aderirono alla Rsi; ai loro ultimi scritti e «testamenti ideologici»; al difficile rapporto con i «camerati tedeschi»; al razzismo e all’odio contro gli Alleati; all’illusione finale di un «colpo di coda» mussoliniano. Ricco di particolari inediti è il capitolo dedicato al fascismo clandestino nell’Italia liberata. Si trattò di una consistente «rete dietro le linee nemiche», che si appoggiò a movimenti spontanei ai quali presero parte soprattutto giovani che non accettavano il cambio di alleanze del governo Badoglio. Movimenti spontanei che hanno inizio in Sicilia, nel luglio del 1943, subito dopo lo sbarco e le prime vittorie dell’esercito alleato. Prima cioè della notte del Gran Consiglio in cui il Duce fu messo in minoranza o comunque a ridosso della caduta di Mussolini (25 luglio). La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo - Movimento per l’italianità della Sicilia» fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante il 27 luglio, appena quattro giorni dopo l’ingresso in città delle truppe angloamericane. Pochi mesi dopo il gruppo viene scoperto, arrestato e processato da una corte alleata: tra i giovanissimi portati alla sbarra, Maria D’Alì, figlia dell’ultimo vicefederale di Trapani che i giornali di Salò definiscono «la Giovanna d’Arco della Sicilia». Qualcuno li considera, più che dei nostalgici, come ragazzi che reagiscono contro il fenomeno non marginale dei loro concittadini (tra breve connazionali) che si mettono in fila per salire sul carro del vincitore. Non sopportavamo, racconterà Salvatore Claudio Ruta, leader del gruppo dei giovani fascisti di Messina, «che l’italiano fosse additato come il tipico voltagabbana, mandolinista e mangia spaghetti». «Si è trovato un gruppo di fascisti in Sicilia — esulta il 20 dicembre 1943 nel suo diario Giuseppe Prezzolini — meritano un monumento! Un fascista che ha tenuto a dichiarare la sua fede è grande quanto un democratico che non cambiò bandiera sotto il fascismo». Tra i loro avvocati difensori, notano Avagliano e Palmieri, «spicca il nome di Bernardo Mattarella». Il processo, a Palermo, si concluderà con pene severissime e addirittura una condanna a morte: per Bramante, accusato di «sabotaggio» (ma il generale Alexander commuterà immediatamente la pena a vent’anni di carcere).

In concomitanza con questo processo nasce a Palermo il «gruppo Costarini» (dal nome di uno dei primi caduti della Rsi) — fondato da Angelo Nicosia, Lorenzo Purpari, Aristide Metler e Nicola Denaro — che pubblica il giornale ciclostilato «A noi!». Copie di «A noi!» vengono gettate, nel gennaio 1944, dal loggione del teatro Biondo nel corso di una proiezione del Grande dittatore, il film satirico su Hitler (e Mussolini) di Charlie Chaplin, che più volte e in più parti dell’Italia liberata verrà interrotto da questo genere di manifestazioni. A Cisternino, in provincia di Brindisi, quando in un cinegiornale vengono proiettate le immagini della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, un militare dice ad alta voce: «Sì è un po’ sciupato ma è sempre lui! Battiamogli le mani». Molti spettatori si alzano, applaudono e intonano Giovinezza. A Milazzo vengono lanciati manifestini che promettono il ritorno in Sicilia di Mussolini con i tedeschi i quali «faranno vendetta»: «Ci sarà il Vespro Siciliano!», annunciano. A Ficarra fa proseliti l’ex segretario federale fascista Giuseppe Catalano. A Caltanissetta viene fondata la «Lega Italica» alla quale aderiranno Faustino La Ferla e Francesco Paolo Ayala (padre del magistrato Giuseppe). In sostanza la prima regione italiana ad essere liberata, la Sicilia, sarà anche quella in cui si verrà a creare la più forte, motivata e duratura, componente neofascista.

Sempre in Sicilia, nella fase finale della guerra si sviluppa una protesta contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Strane alleanze destinate a ripresentarsi nella storia siciliana. Ci si batteva — con lo slogan «Non si parte» — per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi, negli ultimi, decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sacrestano Giovanni Criscione. Nel dopoguerra, la Occhipinti sarà eletta deputata del Pci. A Comiso i neofascisti del «Non si parte» creano addirittura una «Repubblica indipendente» (per ottenere lo sgombero gli Alleati minacceranno un bombardamento aereo). A Vittoria occupano le caserme dei carabinieri e della guardia di finanza, così come avevano già fatto, guidati da Vittorio Dell’Agli, a Giarratana, dove erano state date alle fiamme le carte dell’ufficio di leva. A Modica il municipio viene dato alle fiamme.

Qualcosa si muoverà anche in Sardegna. Il 3 dicembre 1943 viene fermato al largo dell’arcipelago della Maddalena un motoscafo partito da Olbia e diretto a Orbetello. Alcuni carabinieri infiltrati nell’equipaggio arrestano su quel natante l’ex console generale della Milizia Giovanni Martini, che porta con sé il verbale della costituzione del Partito fascista repubblicano sardo, che si propone di staccare l’isola dalla madrepatria per sottometterla al regime di Salò. Nel marzo del 1944 ad Olbia vengono tratti in arresto i componenti del gruppo che fa capo ad Antonio Pigliaru, Gavino Pinna, Giuseppe Cardi Giua e al sottotenente Ugo Mattone, che riuscirà a fuggire. Il Tribunale militare territoriale di guerra — pubblico ministero è Francesco Coco (il giudice che nel 1976 sarà ucciso a Genova dalle Brigate rosse) — li farà condannare tutti e la pena più alta, undici anni, sarà per il latitante Mattone. Che però cambierà nome, diventerà un apprezzato sceneggiatore e da quel momento in poi simpatizzerà per il Pci: da questo momento si chiamerà Ugo Pirro e il primo film al quale darà il proprio apporto sarà (nel 1951) Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani dedicato all’epopea della lotta partigiana.

In Calabria e a Napoli sarà assai attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, comandante degli arditi nella Grande guerra, rivoluzionario in Messico, capo di una formazione di russi bianchi impegnati a combattere i bolscevichi, presente nella guerra di Etiopia e in quella civile spagnola. Tra i suoi progetti, il rapimento a Sorrento di Benedetto Croce che avrebbe dovuto essere portato a Genova da un sommergibile tedesco, per essere poi trasferito a Milano dove sarebbe stato costretto a commemorare Giovanni Gentile ucciso dai partigiani. In seguito Croce avrebbe dovuto assumere la presidenza dell’Accademia d’Italia. Ma il 27 aprile del 1944 Pignatelli, dopo che sua moglie aveva attraversato le linee per parlare direttamente con Mussolini e il feldmaresciallo Kesserling, viene arrestato. Sarà Bartolo Gallitto a raccogliere la sua eredità operativa. Ma del progetto di sequestro del filosofo non si parlerà più.

A Roma, poco dopo la liberazione, il 10 giugno 1944 comincia a trasmettere Radio Tevere, che in realtà ha sede al Nord. Direttore è Mario Ferretti, futuro radiocronista sportivo, collaborano attivamente Gorni Kramer e il Quartetto Cetra. Sigla di apertura è l’Inno a Roma di Puccini, in chiusura la canzone Tornerai, con un’evidente allusione/invocazione a Mussolini. A fine 1944 nasce il giornale clandestino «Onore», al quale fa capo un gruppo di cui fanno parte anche commercianti, operai e persino contadini. Non sono moltissimi, ma è una rete clandestina assai insidiosa, che viene sgominata grazie ad un giovane tenente che riesce ad inserire un infiltrato: Carlo Alberto dalla Chiesa. Il quale sperimentò contro i neofascisti di «Onore» tecniche che avrebbe riproposto, alcuni decenni dopo, per sgominare terroristi rossi che si proclamavano eredi dei partigiani.

(Corriere della Sera, 7 marzo 2017)

 

La nuova tappa di un itinerario nelle tragedie del Novecento

Esce in libreria il 16 marzo L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino, pagine 496, e 28). Si tratta di una nuova tappa del viaggio che i due autori hanno intrapreso nella storia italiana con diversi volumi: Gli internati militari italiani (Einaudi, 2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 2011); Voci dal lager (Einaudi, 2012); Di pura razza italiana (Baldini & Castoldi, 2013), Vincere e vinceremo! (il Mulino, 2014). A Salò sono stati dedicati molti libri, come La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti, 1999) e La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori, 1999). Tratta della Rsi l’ultimo volume, incompiuto, della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, La guerra civile (Einaudi, 1997), Se ne occupava anche Claudio Pavone nel suo libro sulla Resistenza Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991).

 

Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia. In rete la memoria delle stragi

di Mario Avagliano

   Boves, Caiazzo, Marzabotto, Mascalucia, Roma, S. Anna di Stazzema… L’elenco di borghi, città, località italiane che nel tragico periodo che va dall’estate del 1943 all’aprile del 1945 furono insanguinati dal terrore nazifascista è un lungo interminabile rosario. 5.428 stragi, con un bilancio di oltre 23 mila vittime, secondo il censimento realizzato in due anni di lavoro collettivo da 120 ricercatori e 60 istituti storici, nell’ambito del primo Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, presentato ieri alla Farnesina dal direttore generale per l'Ue del ministero degli Esteri, Giuseppe Buccino Grimaldi, insieme all'ambasciatore tedesco in Italia, Susanne Marianne Wasum-Rainer.

L’Atlante è disponibile da oggi online all’indirizzo www.straginazifasciste.it e costituisce una sorta di «grande memoriale virtuale», in continuo aggiornamento, che, come affermato daldirettore generale dell'Insmli Claudio Silingardi, trasforma le vittime in «uomini, donne, bambini», dando loro un nome e una carta d’identità.
La ricerca è stata finanziata dal ministero degli Esteri della Repubblica Federale tedesca, nell'ambito delle raccomandazioni suggerite dalla Commissione storica italo-tedesca, ed è stata realizzata dell’Anpi e dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.
«Un censimento della violenza», come ha detto la storica Isabella Insolvibile, che ci fornisce una vera e propria guida storica e anche geografica di tutti i crimini di guerra verso i civili accaduti in Italia sotto l’occupazione nazifascista. L’Atlante è composto da una banca dati georeferenziata, da schede monografiche su ogni episodio e da testi contenenti la ricostruzione storica dei fatti, corredati da materiale fotografico.
La ricerca consente di fare ulteriore luce sulla pagina nera dell’occupazione nazifascista, dopo che colpevolmente i governi italiani del dopoguerra, per motivi di realpolitik e di salvaguardia del ruolo della Germania dell’Ovest come avamposto dell’Occidente, avevano fatto calare il silenzio sulle stragi, addirittura murando i relativi fascicoli nel cosiddetto «armadio della vergogna», scoperto nel 1994.
Per la prima volta, infatti, è stato definito il numero delle stragi a livello nazionale, 5.428, avvenute non solo nel Centro-Nord ma anche in Meridione, dalla Sicilia alla Campania. Dalla ricerca emerge un notevole aumento del numero delle vittime, che passa dalle 10-15 mila finora ipotizzate a 23.461 accertate, escludendo i caduti in combattimento e comprendendo quindi solo i civili inermi, catturati e uccisi a seguito di rastrellamenti, di rappresaglie o di stragi “eliminazioniste” o dirette contro specifiche tipologie di persone (ebrei, antifascisti, religiosi etc.).
L’Atlante, spiega Toni Rovatti, propone, ove possibile, anche i nomi degli esecutori: non solo membri delle famigerate SS naziste, ma anche militari della Wehrmacht e diversi italiani fascisti del regime di Salò il cui ruolo, come sottolinea Paolo Pezzino, è autonomo e determinante nel ben 19% delle stragi. A testimonianza che la Rsi «portò avanti in modo autonomo una propria politica della violenza».
Frutto della «stretta collaborazione» tra Italia e Germania, l'iniziativa punta alla «creazione di una comune cultura della memoria», ha sottolineato l'ambasciatore tedesco. Un «progetto scientifico molto impegnativo» per registrare tutti gli atti di violenza compiuti da nazisti e fascisti in Italia, «assicurando così alle vittime una degna memoria».
Di «passo avanti per la memoria comune» ha parlato anche il presidente dell'Anpi, Carlo Smuraglia, anche se resta ancora sospesa la questione della giustizia di transizione, ovvero delle sentenze relative a condanne all’ergastolo nei confronti di criminali tedeschi e austriaci, emesse da corti italiane ma non rese esecutive da quelle tedesche. Un “disaccordo” giudiziario che costituisce una ferita ancora aperta e che – come evidenzia la storica Isabella Insolvibile – «nessun investimento nella ricerca e nella memoria può autonomamente risolvere».

(Il Messaggero e Il Mattino del 7 aprile 2016)

Storie - La Memoria degli internati militari

di Mario Avagliano

  La legge istitutiva della Giornata della Memoria del 2000 riguarda, oltre che la Shoah e la persecuzione degli ebrei, anche i deportati politici e gli internati militari. All'indomani dell'8 settembre 1943, infatti, le truppe naziste nell'occupare l'Italia, scatenarono una caccia all'uomo nei confronti degli ebrei, con la complicità del redivivo fascismo di Salò, ma anche una feroce repressione dell'opposizione politica e sociale, con la deportazione di antifascisti, resistenti civili, partigiani, operai scioperanti. Inoltre l'esercito tedesco catturò e disarmò in Italia e sui vari fronti di guerra (dalla Francia ai Balcani alle isole greche) circa 1 milione di ufficiali e soldati italiani, spesso con l'inganno e non di rado con la collaborazione di nostri connazionali immediatamente schieratisi con la Germania a seguito dell'armistizio.
Di questo milione di soldati, circa 100 mila aderirono subito alle Ss tedesche o alla Rsi e altri 190 mila riuscirono a fuggire o vennero rilasciati.
In 710 mila vennero internati nei campi del Reich e posti di fronte all’alternativa se entrare nell’esercito della Repubblica Sociale, guidata da Benito Mussolini, oppure restare in prigionia, soffrendo la fame e sopportando gli stancanti e snervanti turni di lavoro. La maggior parte di loro, circa 600-630 mila, disse di “no” all’adesione, in nome della fedeltà all’Italia, al re e all’ideale di libertà, anche se una quota non irrilevante (oltre 100 mila) optò per la Rsi.

Diverse migliaia di internati morirono nei campi, per le pessime condizioni di vita e di lavoro o anche perché picchiati e fucilati. Anche la loro storia va ricordata.

(L’Unione Informa e moked.it del 26 gennaio 2016)

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L'Italia che esce dalla palude nel romanzo di Pennacchi

di Mario Avagliano

   La saga della famiglia Peruzzi, la ruspante e intraprendente famiglia di contadini originaria della bassa Pianura Padana, trasferitasi sotto il fascismo dal Veneto all’Agro Pontino, con il miraggio della bonifica, continua nell’Italia della guerra civile e della ricostruzione. È arrivato in libreria “Canale Mussolini parte seconda” (Mondadori, 425 pagine, 22 euro), l’atteso seguito del fortunato romanzo di Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega nel 2010.

Avevamo lasciato i Peruzzi negli ultimi giorni di guerra a Littoria, schierati assieme agli altri coloni al fianco dei tedeschi e dei fascisti, a sparare fucilate contro le pattuglie alleate, nel timore di perdere la terra che tanto faticosamente avevano sottratto alle paludi pontine. E poi tornare nei poderi distrutti, prendendo atto che gli americani non erano così malvagi come li dipingeva il regime fascista e che anzi, grazie al loro insetticida “Ddt”, potevano finalmente debellare la zanzara anofele dalle campagne.
Il racconto delle vicissitudini dei coloni “cispadani” riprende proprio da lì, il 25 maggio del 1944, il giorno della liberazione, quando - profittando del caos di quelle ore - il diciottenne Diomede Peruzzi penetra con due amici più grandi nel palazzo della Banca d’Italia devastato dalle bombe, dove svolazza qualche pezzo bruciacchiato di banconote da mille, svaligiandone con carriole di legno il caveau. È da questo furto che costruisce la sua folgorante carriera imprenditoriale e che ha inizio la nuova impetuosa fase di sviluppo della città, che poi nel 1946 cambierà il nome in Latina.
La guerra a Littoria è terminata. Al Canale Mussolini, il principale canale della bonifica, che per quattro lunghi mesi si è trovato al centro del fronte bellico di Anzio e Nettuno, torna a rifluire la vita. Gli sfollati abbandonano i rifugi sui monti e ripopolano la città e le campagne. I poderi recano i segni dei bombardamenti. Ma nella popolazione c’è un ritrovato senso di fiducia e la voglia di iniziare la ricostruzione.
Nell’Italia occupata dai nazisti, però, la guerra continua. Il fronte si sposta verso nord, grazie all’avanzata degli Alleati che, con il prezioso contributo dei partigiani e del ricostituito esercito italiano, costringono alla ritirata i tedeschi e i fascisti di Salò. È una guerra di liberazione, ma – come ha evidenziato lo storico Claudio Pavone – anche una guerra civile, che attraversa le famiglie e a volte le divide e le dilania.
È il caso dei Peruzzi. Il giovane Paride, in camicia nera, ha aderito alla Rsi e mentre sogna di tornare dalla zia-amante Armida e dal figlio, partecipa alle campagne di rastrellamento contro i partigiani. Suo fratello Statilio, invece, che veste la divisa con le stellette del Regio Esercito, si scontra con i tedeschi in Corsica e poi a Cassino e sulla linea Gotica. Il cugino Demostene, del ramo della famiglia dell’“Altitalia” rimasto fedele agli ideali social-comunisti, si arruola partigiano nella Brigata Stella Rossa e combatte anche lui per liberare l’Italia.
I due cugini antagonisti, Paride e Demostene, che fino all’età di quattordici anni erano cresciuti assieme, giocando come due fratelli, bighellonando di notte d’estate e pescando nel fiume, s’incontreranno casualmente nella primavera del 1945 alle foci del Po a Goro, ma non avranno il coraggio di spararsi (“Ma come agh sparo? El xè me cusin!”), facendo prevalere le ragioni del legame familiare sull’ideologia.
Accanto ai Peruzzi in divisa ritroviamo gli altri protagonisti della “parte prima” del romanzo. Lo zio Adelchi, l’unico vigile urbano rimasto a difesa del comune quando arrivano gli inglesi a liberare una Littoria deserta e quasi ridotta in macerie; il mite zio Benassi, fissato con la Corale, e la moglie Santapace, collerica e bellissima; la passionale Armida, dai capelli biondi e dai fianchi tondi, con le sue api che rivelano il futuro, e la nonna Peruzzi, che attribuisce compiti e destini ai nuovi rampolli che vengono al mondo. E ovviamente l’indomito Diomede, figlio della Modigliana, sorella gemella di zia Bissola, e di padre incerto. Capelli rossi brillanti, lentiggini sul muso e “simpatia da vendere”, è chiamato Batocio o Big Boss per un piccolo difetto fisico. Si rivelerà il vero demiurgo della nuova città.
Le loro vicende s’intrecciano con quelle dei personaggi storici, a partire da Benito Mussolini, alla cui liasion con Claretta Petacci il libro dedica pagine intense. Dal sogno di Claretta di Ben che in una notte di luna piena la raggiunge al bivio dell’Appia a Littoria, fino alla fine tragica e ancora in parte misteriosa durante la fuga verso la Svizzera, con la successiva esposizione delle loro salme a Piazzale Loreto a Milano il 28 aprile del 1945.
E poi nel dopoguerra il leader della Dc, Alcide De Gasperi, che nella ricostruzione ironica di Pennacchi, per avere gli aiuti del Piano Marshall, è costretto in dialetto veneto dal presidente americano Truman a buttar fuori dal governo le sinistre (“Tuti i schei che ti vol! Basta ch’at mandi via i comunisti”). Non manca un “cammeo” del segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che quando il 14 luglio 1948 subisce un attentato che rischia di provocare una nuova guerra civile, prima di varcare in barella le soglie della camera operatoria, dove il grande chirurgo Pietro Valdoni lo avrebbe salvato, a Nilde Iotti accucciata premurosa su di lui, ripete: “Am racomando, Nilde, dighe de star calmi e de non far i mati, dighe da non far gninte”.
Un romanzo storico corale, dallo stile colorito e piacevole, con dialoghi vivaci, in cui il “fasciocomunista” Pennacchi ci restituisce senza un briciolo di retorica e a tratti con feroce sarcasmo il clima infuocato dell’epoca, ricco di difficoltà e di contraddizioni, che attraversavano entrambi gli schieramenti. Raccontandoci però anche la determinazione, la speranza e la voglia di ripartire dell’Italia che usciva dal buio ventennio fascista.

(pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero, 4 dicembre 2015)

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1943-1945, parole dall’Italia in lotta

di Mario Avagliano

«Si aspetta l’evolversi della situazione. I combattimenti in direzione di Salerno sono traditi dal rumore degli aerei che, in continuazione, passano sulle nostre teste. Esso è ben distinto da quello dei cannoni che tuonano ad una ventina di chilometri». Così scrive nel suo diario il 9 settembre 1943 il diciottenne Pietro Sorrentino, originario di Castellabate, commentando lo sbarco degli Alleati nel golfo di Salerno, affacciato alla finestra dell’appartamento degli zii a Pagani. Alla fine dell’estate del 1943 la guerra entra in casa degli italiani, in un Paese ridotto a luogo di macerie materiali e morali.

Nella memoria degli italiani gli eventi del pur breve periodo tra il 25 luglio, che segnò la defenestrazione di Benito Mussolini, e il successivo 8 settembre, in cui in un pugno di ore l’Italia si arrese, fu spezzata in due e occupata da soldati tedeschi e anglo-americani, hanno assunto un valore cruciale, sul quale la storiografia continua ad interrogarsi. Così come il biennio 1943-1945, funestato da stragi, fucilazioni, deportazioni, fame e bombardamenti, ma segnato anche da atti eroici, lotte per la libertà e grandi pulsioni ideali.Il variegato puzzle dei sentimenti, delle angosce, delle gioie e delle passioni che animarono gli italiani di allora, divisi tra Resistenza e Repubblica sociale, è stato ricostruito dallo storico Luigi Ganapini, con la sensibilità e il rigore che gli sono propri, nel saggio Voci dalla guerra civile (il Mulino, pp. 310, euro 23), in uscita il 20 settembre in libreria. Le fonti a cui ha attinto Ganapini sono i diari e le memorie dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, vera miniera della memoria del nostro Paese. Parlano in queste pagine le tante anime di una nazione che nell’autunno del 1943 pareva destinata a scomparire. Voci diverse fra loro: uomini e donne, settentrionali e meridionali, partigiani e aderenti a Salò, deportati e internati militari, cattolici ed ebrei.
Il racconto corale parte dal 25 luglio, giorno in cui, scrive la contadina emiliana Margherita Iannelli, residente a Marzabotto, «la gente si riversò nei paesi, tutti urlavano a più non posso. Chi gettava le immagini del Duce dalle finestre e altri le calpestavano e gli sputavano sul viso. Ma l’urlo immane fu quello che tutti dicevano: “Finalmente siamo liberi e potremo parlare”». E i fascisti? «Restarono zitti – ricorda la toscana Albertina Tonarelli –, non sapevano che fare, restarono come bastonati».
I primi 45 giorni del governo guidato da Pietro Badoglio non furono memorabili. «La guerra sembra a tutti perduta – annota il romano Mario Tutino -. Si tratta di uscirne non dico col minor danno, ma senza disonore». Le cose vanno in modo differente. «Al mattino dell’8 settembre si sparse la notizia della fuga del Re e dei suoi generali», racconta il torinese Ercolino Ercole, in servizio di leva a Marina di Massa. In poche ore i tedeschi disarmano i soldati italiani, anche per la viltà degli ufficiali, ma nella notte il giovane fugge. E quando arriva a Torino, è «pieno di rabbia, conscio di essere stato fregato dal libro “Cuore”, dal re vittorioso, da “Giovinezza”, dal “Dio, patria famiglia”, da tutto quel ciarpame».
In quei giorni centinaia di migliaia di nostri soldati vengono catturati dai tedeschi, senza sparare un colpo o dopo coraggiosi tentativi di resistenza. Per tutti gli italiani sotto il tallone nazifascista, è il momento delle scelte. «Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici», annota nel suo diario la senese Bruna Talluri, che poi entrerà nella Resistenza. Tra i soldati della divisione Emilia, di stanza in Dalmazia, si apre invece un dibattito, ricorda il riminese Aurelio Bernardi: «c’è chi vuole essere fedele al duce, chi vuole seguire le direttive di Badoglio, altri pensano solo alla pelle». Bernardi sarà uno dei 650 mila militari italiani internati in Germania che dirà «no» alle proposte tedesche di aderire all’esercito della Repubblica sociale del redivivo Mussolini, pagando la sua decisione con il campo di concentramento e trascorrendo il tempo, come fa Giorgio Cranz, «non pensando altro che a roba da mangiare».
Le memorie e i diari citati da Ganapini svelano la storia di quel biennio al di là degli stereotipi. E quindi accanto ai tedeschi violenti e cattivi, vi sono anche quelli buoni e stanchi di combattere, ai quali magari regalare un bacio, anche se sono «il mio nemico», come accade alla partigiana Cesarina Veneri. Tra gli italiani c’è chi resiste sui monti, in campagna e nelle città, rischiando la vita e le fucilazioni («altri sette li hanno presi, costretti a stendersi a terra, in piazza, tra la folla atterrita: li hanno finiti scaricando loro addosso i mitra», annota nel suo diario Irene Paolisso da Trivio di Formia), e chi invece, come la torinese Zelmira Marazio, aderisce a Salò e appunta orgogliosa il distintivo sulla camicetta, salvo notare per strada sguardi «cupi, minacciosi» e «una carica di odio» da parte della gente.
Fino alla gioia della liberazione, alle «tavolette di cioccolata nera e bianca… un vero godimento», ai balli americani col grammofono, alla riscoperta della libertà «di parlare, di scrivere» e purtroppo anche alle esecuzioni sommarie, che Maria Assunta Fonda rievoca con pena e pietà. E fino al triste rientro a casa di deportati politici e di internati militari, umiliati dalla freddezza della Patria. «Addirittura il mio nome – racconta Alessandro Roncaglio – era diventato “Mauthausen” pronunciato spesso con scherno e in tono canzonatorio. Sono addolorato nel dirlo: il tempo, gli affari, la vita quotidiana della gente stava spegnendo tutto mettendo sotto la cenere ricordi, martiri e morti».

(Il Mattino, 17 settembre 2012)

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