Intervista a Ágnes Heller: “Basta con i muri. Occorre rispetto nell’Europa divisa”


di Mario Avagliano

  “L’Europa è ammalata di bonapartismo. Ogni volta che si trova in crisi, come quella attuale dell’ondata migratoria, ricasca nella tentazione dell’uomo forte. Così si spiega il successo dei partiti populisti in molti Paesi europei”. Ágnes Heller, filosofa ungherese allieva di Lukács, pochi giorni fa a Trieste per il festival èStoria, è preoccupata. E indica la strada “americana” dell’integrazione per uscire dal tunnel e far ritrovare all’Unione Europea l’anima perduta.

Qual è l’identità dell’Europa oggi?
Un’identità europea chiara e ben delineata oggi non esiste. Nel corso dei secoli abbiamo avuto una serie di identità europee, ad esempio quella cristiana. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’Unione Europea, non l’Europa nella sua interezza, perché non si può includere in questo discorso la Russia di Putin, sta tentando di far propria la tradizione liberaldemocratica, centrata sul primato della legge e sulla divisione dei poteri. E sarebbe una cosa bella! Però sarebbe anche auspicabile che i leader europei avessero coscienza del passato storico del continente e la smettessero di far riferimento a presunti valori europei. Ogni volta che lo fanno, io mi arrabbio molto e mi domando quali siano questi valori europei, perché in realtà nel XX secolo l’Europa ha ucciso centinaia di milioni di persone con due guerre mondiali, due stati totalitari, Auschwitz e i Gulag, innumerevoli dittature.
Uno dei grandi problemi dell’Europa moderna è l’emergenza migratoria. L’arrivo di tanti migranti rischia di cambiare l’anima del Vecchio continente?
Nel Settecento in Europa si sono affermati due diritti diversi: i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino. La questione è se questi diritti siano veramente compatibili, perché sembrano non esserlo in tutti i casi: i diritti dell’uomo esigerebbero da noi per esempio di accettare tutti gli immigrati perché bisogna difendere i loro diritti in quanto uomini; il diritto dei cittadini esigerebbe viceversa di poter determinare chi lasciamo entrare in Europa e chi lasciamo fuori. Dunque ci troviamo davanti a questa condizione conflittuale che certamente sarà determinante per il futuro dell’Europa. Aggiungo che oltre a tale conflitto, dobbiamo anche considerare la reazione naturale, innata in ognuno di noi, quando ci troviamo a confrontarci con una persona che ha un’altra lingua, un’altra cultura. Il problema sorge quando un governo strumentalizza questi sentimenti per scopi più o meno nobili. Il futuro dell’Europa dipende dalla capacità dei governi europei di contemperare questi diritti.
Si torna a parlare di confini e di barriere. Un ritorno al passato?
Sono fortemente contraria a ogni tipo di recinto e di confine, però dobbiamo anche riconoscere il diritto appena menzionato del cittadino di limitare i diritti dell’uomo. A casa mia quando invito degli ospiti o anche dei parenti per qualche giorno, ci sono delle regole da rispettare: tenere pulito il bagno, non arrivare dopo mezzanotte e magari non venire accompagnati da una prostituta. I migranti dunque in Europa io li accetto volentieri, ma ci sono delle regole che anche loro devono rispettare, che sono le regole dello Stato nel quale vengono ospitati. Non c’è legge religiosa in questo mondo che possa essere superiore alle leggi dello Stato, e questo i migranti devono capirlo, altrimenti se le violano finiscono in prigione come ogni altro cittadino. Un’altra cosa difficilissima da realizzare qui in Europa, è che noi quando parliamo di integrazione spesso la confondiamo con il concetto dell’assimilazione, dunque col fatto che qualcuno diventi uguale a noi, parli la nostra stessa lingua, faccia proprie le nostre abitudini, i nostri comportamenti. Arriviamo all’estremo di esigere da loro che facciano propria la storia del paese ospitante, invece che la propria storia. Con questa confusione stiamo creando delle grandi tensioni e dei grandi conflitti. A nessuno piace assimilarsi. Un grande esempio sono di certo gli Stati Uniti, dove si parla di integrazione: tu vai a scuola e nessuno si oppone se porti lo chador o la croce, basta che studi. In Francia abbiamo invece un problema, perché lì non c’è integrazione ma assimilazione, viene insomma richiesta l’assimilazione alla cultura francese senza considerare la situazione degli immigrati. Negli Stati Uniti le cose funzionano molto meglio perché c’è vera integrazione, e non assimilazione; quando di recente Obama ha legalizzato la situazione di circa tre milioni di cittadini, questi sono scesi subito tutti nelle piazze, felici, a sventolare bandiere americane. Una cosa del genere non possiamo immaginarla in Francia, dove i musulmani francesi non lo farebbero mai perché non amano il paese che li ospita, il paese nel quale loro stessi sono cittadini, anche se discriminati.
La cultura dell’odio e dell’esclusione può vincere?
Il rafforzamento dei sentimenti nazionalisti e populisti in Europa non è causato dalla crisi migratoria di adesso, ma risale soprattutto alla crisi economica e finanziaria che ha avuto inizio nel 2007-2008. L’immigrazione non ha fatto altro che rafforzare questi fenomeni. Una causa storica che spiega in Europa il rafforzamento di tali tendenze è l’intolleranza europea nei confronti del fenomeno della frustrazione, ovvero: quando abbiamo un problema in Europa, iniziamo a gridare aiuto invece di cercare di risolverlo da soli. Purtroppo la storia testimonia che nei momenti di crisi l’Europa, invece di attenersi agli ideali liberali, è tornata ogni volta al bonapartismo.
Che cosa intende per bonapartismo?
Di fronte alle situazioni di crisi, in Europa c’è la tendenza ad invocare l’aiuto di un leader forte, scegliendo la strada della dittatura e dando vita a stati militarizzati. Questo è accaduto in Germania, in Italia, in Spagna, in Grecia, dappertutto. Bonaparte è stato solo il primo di una serie di leader provenienti dal basso, molto ambiziosi e che promettevano di salvare il popolo. Esempio storico: quando negli anni Venti è scoppiata la crisi economica in Europa e nel mondo, la crisi americana è sfociata nel New Deal, quella europea ha portato Hitler, Mussolini e altri tiranni. Dunque, ogni volta che c’è un problema noi europei cerchiamo l’aiuto di qualche tiranno, invece negli Stati Uniti cercano di riprendersi e di risolvere i problemi. Questo è ciò che io chiamo l’“intolleranza della frustrazione”, di fronte alla sofferenza, non riusciamo ad fronteggiare la frustrazione e questo porta ad un rafforzamento del populismo che gioca sempre la carta che porta voti, ed è la via più facile. La crisi dei migranti ne è un esempio. Vorrei citare a tal proposito le parole di Istvàn Bethlen, nobile politico ungherese, che ha detto: “l’odio avvelena l’anima della nazione che odia” e io condivido pienamente le sue parole.
È questo il motivo del successo dei partiti populisti o nazionalisti?
Fomentando odio, diversi leader populisti hanno raggiunto grandi consensi e sono riusciti a rafforzare la base politica. E così tutti gli immigrati di questi paesi sono identificati come terroristi e vengono proposti nuovi muri. Fatto sta che il paragone con il Muro di Berlino non regge pienamente, perché queste nuove mura non sono completamente impermeabili. Il Muro di Berlino lo era, non lo si poteva attraversare se non con il rischio di finire fucilati. I nuovi muri invece sono permeabili, ci sono categorie che possono passare: dipende soltanto dal governo di quel paese decidere quanti e quali categorie lo possono fare, sempre in base ai propri interessi. Allo stesso tempo, va riconosciuto che i leader europei si sono trovati ad affrontare le grandi masse di migranti completamente impreparati.
Finora l’America, come lei ha detto, è stata un po’ un’Arca di Noè in grado di accogliere e integrare i migranti, a vantaggio anche della sua economia. Con Donald Trump potrebbe cambiare qualcosa?
Credo che Donald Trump abbia poche chance di vincere, ma se per ipotesi diventasse presidente degli Stati Uniti, certamente non sarà un bonapartista. È impossibile che lui metta in discussione la costituzione americana e dunque il sistema del bilanciamento dei poteri; è impossibile che lui, come chiunque, metta questo in discussione perché c’è il Congresso, il Senato e al primo tentativo verrebbe cancellato con un impeachment. L’unico rischio che vedo della politica di Donald Trump è nella politica estera, dove il controllo del bilanciamento dei poteri non è così forte come nella politica interna.
Lei ha vissuto due persecuzioni, come ebrea e come anticomunista. C’è ancora una pulsione antisemita in Europa e nel mondo?
Si ho subito le persecuzioni di uno stato totalitario per la mia opposizione allo stato comunista. Per quanto riguarda l’antisemitismo, io non dispongo di analisi tali da poter affermare che l’antisemitismo stia crescendo. Credo comunque che oggi in Germania, Francia e Inghilterra il 30% della popolazione viva ancora forti sentimenti antisemiti. L’antisemitismo di oggi però lo chiamerei odio per Israele, essendo assai diverso dal tradizionale antisemitismo europeo.
C’è ancora bisogno di Unione Europea? Quali sono i passi da fare per una migliore integrazione?
L’Unione Europea può vantare una identità economica ed anche culturale, ma niente che possa essere considerato come assunto una volta per tutte dai vari popoli che la compongono. Non solo i governi infatti, ma direttamente i popoli stessi, perseguono spesso interessi nazionali, veri o presunti, ai danni della solidarietà europea. Insomma, l’Unione Europea esclude per principio il bonapartismo, ma certo può poco contro forme di sua subdola riproposizione, dal momento che non c’è ancora qualcosa come una Costituzione europea. E anzi proprio questo impedisce all’Unione di sancire come anticostituzionali determinate scelte di politica interna, come nel caso della piegatura bonapartista cui sono oggi soggetti alcuni Paesi, come ad esempio l’Ungheria. Nietzsche descriveva gli stati come bestie egoistiche, bisogna ammettere che questa regola, nonostante da tempo gli stati nazionali abbiano sostituito gli imperi, rimane ancora valida.

(versione più sintetica pubblicata su Il Messaggero, 27 maggio 2016)

Uno 007 per depistare Hitler

di Mario Avagliano

   La seconda guerra mondiale non fu combattuta solo dagli eserciti, con le armi convenzionali e quelle di distruzione di massa, ma anche dagli apparati di intelligence, attraverso giochi artificiosi di depistaggio e l’attività di agenti segreti modello 007 o di spie infiltrate dietro le linee nemiche.

Di recente il film The Imitation Game ha fatto conoscere al grande pubblico la brillante operazione condotta sotto copertura dal team del matematico Alan Turing per decrittare il codice Enigma, ideato dai nazisti per comunicare le loro operazioni militari in forma segreta. Meno nota è la battaglia di spionaggio ingaggiata nel 1944 dagli Alleati e dai tedeschi attorno al luogo dello sbarco angloamericano sul suolo europeo, che poi avrebbe deciso le sorti del conflitto nel Vecchio Continente.
È il tema di Overlord (Mondadori, pp. 368), il nuovo avvincente romanzo di Carlo Nordio, magistrato prestato alla narrativa, che dopo la storia di una spia nazista in Operazione Grifone, in questo nuovo libro, attraverso un misurato dosaggio di realtà documentata e di fiction, racconta i retroscena dello sbarco in Normandia, iniziato il 6 giugno 1944, il D-Day, appena quarantotto ore dopo la liberazione di Roma.
Il romanzo parte all’una di notte del 28 aprile, quando al chiaro di luna dieci navi da trasporto della Marina Usa, cariche di uomini e appesantite da decine di carri armati e di altri mezzi, attraversano il canale della Manica per simulare uno sbarco sulle coste del Devonshire, nell’Inghilterra sudoccidentale, su una serie di spiagge simili per conformazione a quelle della Normandia, da cui dovrebbe partire l'Operazione Overlord, il piano per stabilire una testa di ponte sulla terraferma allo scopo di liberare la Francia.
Un messaggio radio della flottiglia alleata viene intercettato dai tedeschi. All’istante alcune torpediniere germaniche partono verso le navi alleate e ne affondano due. Il bilancio è durissimo, seicento morti e altri dispersi, tra cui dieci ufficiali "Bigot", tra i pochi depositari del luogo segreto dello sbarco.
Alla notizia il premier inglese Winston Churchill trema. Sa bene che il rischio è enorme. L’effetto sorpresa è fondamentale. Se i tedeschi scoprissero dove le truppe angloamericani hanno intenzione di sbarcare, gli basterebbe trasferire un paio di divisioni corazzate lungo la costa della Normandia per far fallire l’operazione. Proprio per questo gli alleati hanno già messo in atto dei diversivi, facendo circolare piani falsi per lo sbarco in Norvegia o a Calais e costituendo armate fantasma nel Sudest dell’Inghilterra.
Grande è il sollievo di Churchill e di Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa, quando scoprono che nessuno dei dieci Bigot è caduto in mano ai nazisti. È vero, un ufficiale americano ha parlato ed è trapelato il nome di uno di loro, il colonnello Clarence Collins, ora ricercato dai tedeschi. Per fortuna però Collins si è salvato e si trova al sicuro in un ospedale inglese.
Ciò nonostante Hitler ha ordinato di trasferire parte delle truppe della Wehrmacht da Calais verso la Normandia e la Bretagna. Come depistare i tedeschi? Tocca a Sir Stewart Menzies, rampollo di una ricca famiglia, amica del re Edoardo VII, nonché capo dei Servizi Segreti inglesi, e a Colin Gubbins del SOE, l'organizzazione britannica creata per operazioni di sabotaggio sul suolo europeo, elaborare un piano audace, approvato da Churchill e Eisenhower. Inviare una spia inglese in Francia, che assuma l’identità di Collins e si faccia catturare dalla Gestapo, portando fuori pista i nazisti circa il luogo dello sbarco.
Viene scelto il maggiore Jim Wallace, il migliore agente del SOE, 32 anni, istruttore di lotta, esperto di tiro, traduttore di francese, consulente della polizia federale, laureato in letteratura moderna. Ci riuscirà? L’esito è scontato, ma non la trama del romanzo di Nordio, che è ricca di colpi di scena e di suspense, con l’intervento di spie tedesche e di partigiani francesi, tra cui l’affascinante Marie, e si sviluppa con l’andamento e le tonalità di un giallo, ma sul filo di una vicenda storica tra le più appassionanti dell’era moderna.

 
(Il Messaggero, 25 aprile 2016)

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Storie – Il passato nazista della Lufthansa

di Mario Avagliano 

  Anche la Lufthansa, la compagnia aerea tedesca, fu complice del nazismo. Nel 1932 la Deutsche Luft Hansa, dalle cui ceneri nel 1955 nacque la Lufthansa, mise a disposizione di Adolf Hitler un velivolo per la sua campagna elettorale. Erhard Milch, dirigente della compagnia, divenne segretario di Stato del potente ministro dell’aviazione Hermann Göring. E durante la Seconda guerra mondiale la Deutsche Luft Hansa sfruttò 10 mila lavoratori forzati, bambini compresi, costringendoli a lavorare in condizioni disumane in stabilimenti dove si costruivano o si riparavano ali, motori e componenti meccaniche.
  È quanto rivela uno studio dello storico tedesco Lutz Budrass, commissionato nel 1999 dalla stessa compagnia aerea, e a lungo tenuto nel cassetto, i cui risultati sono stati anticipati dalla Lufthansa, con un fascicolo allegato a un libro fotografico sulla storia della società, uscito poco prima dell’arrivo in libreria, lo scorso 14 marzo, del saggio, pubblicato da una casa editrice di Monaco.
Il passato scomodo della compagnia tedesca non è una novità in senso assoluto. La storiografia tedesca si era occupata dell’argomento e nel 2012 un team di ricercatori delle Freie Universität, coordinati dal professore Reinhard Bernbeck, aveva riportato alla luce le mura di una vecchia baracca dei prigionieri a Tempelhof, ritrovando poi migliaia di reperti dell’epoca.
  Dalla ricerca di Budrass, di 700 pagine, intitolata significativamente “Aquila e gru” (il simbolo della Germania nazista e il logo della compagnia aerea), emergono però vari dettagli inediti, come ad esempio il fatto che tra i lavoratori forzati vi fossero molti ebrei, impegnati nelle riparazioni all’aeroporto di Tempelhof, e che la compagnia nel 1942, a differenza di quanto fecero altre imprese tedesche, non si oppose in alcun modo al loro prelevamento e alla loro deportazione nei campi di sterminio.

(L’Unione Informa e Moked.it del 29 marzo 2016)

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Storie – In Germania si lavora all’edizione critica del Mein Kampf

di Mario Avagliano

   Settant’anni dopo siamo pronti a leggere il Mein Kampf? Se lo chiede lo storico Umberto Gentiloni sulle colonne de la Stampa di Torino. In Germania gli studiosi del prestigioso Istituto Storico di Monaco di Baviera stanno lavorando da tre anni ad un'edizione critica di duemila pagine, con 3.700 note. L’obiettivo è quello di distruggere il mito di Adolf Hitler e le sue tracce, “rafforzando le ragioni della storia quindi la sfida e gli strumenti per una consapevole comprensione del passato”, scrive Gentiloni. Sarà davvero possibile? Una sfida da seguire con attenzione.

(L’Unione Informa e Moked.it del 22 dicembre 2015)

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I 139 prigionieri famosi che Hitler voleva scambiare per salvarsi

di Mario Avagliano
 
   Sono le nove del 28 aprile 1945. È una livida mattinata di primavera, il giorno prima al Nord ha nevicato. Mentre Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci sono nelle mani dei partigiani, nel Comasco, e stanno per andare incontro al loro tragico destino, a poche centinaia di chilometri, in Sudtirolo, un convoglio speciale di cinque autobus giunge nel villaggio di Villabassa, a circa trenta chilometri da Cortina d’Ampezzo.
Sotto una pioggerellina gelida, emerge dalla fitta nebbia un gruppo di 139 persone, scortato dalle SS naziste. Uomini, donne, persino una bambina bionda, provenienti da diciassette diversi Paesi. Alcuni vestiti con la divisa a strisce dei lager, altri con giubbe militari prive di spalline e di mostrine, altri ancora con giacche sformate con appiccicato il triangolo rosso dei deportati politici.
Sembrano fantasmi, ma tra di loro vi sono alcuni dei più noti protagonisti della storia d'Europa. Si tratta dei cosiddetti "prigionieri d'onore", personalità eccellenti che in quegli anni di guerra sono stati detenuti in maniera segretissima in vari lager del Reich, da Dachau a Flossenbürg. Heinrich Himmler, il potente ministro dell'Interno della Germania nazista, in vista della sconfitta vorrebbe utilizzarli nelle trattative di pace con gli Alleati.
A raccontare la storia di questo convoglio e le vicende intrecciate dei prigionieri speciali del Fuhrer, con un incalzante stile narrativo accompagnato dal consueto rigore storico, è il bel libro “Gli invisibili” di Mirella Serri (Longanesi, pp. 232).
I personaggi ritratti sono di primo piano. L'ex cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, incarcerato dopo l'annessione dell'Austria, raggiunto volontariamente nel lager dalla moglie Vera; l'ex vice cancelliere austriaco e sindaco di Vienna, Richard Schmitz; il generale Alexandros Papagos, ministro greco della guerra che aveva fermato e respinto l’invasione italiana; l'ex presidente della banca centrale tedesca, Hjalmar Schacht; l'ex primo ministro francese del Fronte Popolare, l’ebreo Léon Blum; il famoso industriale Fritz Thyssen.
Ci sono anche parenti illustri: Vassilij Kokorin nipote del ministro degli Esteri sovietico Molotov; il consigliere diplomatico Mario Badoglio, figlio di Pietro; il generale Sante Garibaldi, nipote dell'eroe dei due mondi. E ancora: l’ex capo della polizia di Salò Tullio Tamburini (arrestato il 21 febbraio 1945 insieme al suo vice Eugenio Apollonio, con l’accusa di "doppiogiochismo"), diversi figli e parenti dei congiurati dell'attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, e il principe Filippo d'Assia, marito della principessa Mafalda di Savoia e genero del re d'Italia. Oltre ad agenti segreti britannici, contesse, giornalisti, teologi, cabarettiste e professori.
Molti di questi prigionieri speciali sono stati rinchiusi nei lager sotto falsa identità e in isolamento. Il loro vero nome era conosciuto solo dai comandanti dei campi. È il caso ad esempio di Léon Blum, che solo nel 1944 vide per la prima volta altri deportati, “il volto segnato da lunghe cicatrici, piedi nudi negli zoccoli, attaccati come bestie a una carretta”.
Tra le vicende raccontate da Mirella Serri, spicca quella dell’aristocratica coppia composta da Mafalda di Savoia e Filippo d’Assia.
Un dossier dell’Ovra, la polizia segreta di Mussolini, ha fatto luce sulla doppia vita di Filippo, che intrattiene rapporti omosessuali ed è stato colto sul fatto al cinema Cola di Rienzo mentre molesta un giovanotto. Nonostante questi “peccati”, il principe viene utilizzato da Hitler come mediatore presso Mussolini e si presta a far esportare capolavori dell’arte dall’Italia alla Germania, come la “Leda e il cigno” di Tintoretto. Poi, nominato governatore dell’Assia, consente agli esperimenti nazisti di eutanasia e al programma Aktion T4 contro i disabili. Finché, dopo l’8 settembre, viene arrestato in quanto genero del re traditore e tenuto prigioniero nel campo di Flossenbürg.
Una sorte ancora peggiore subisce la moglie, la fragile e avvenente principessa Mafalda. Rapita con un sotterfugio da Herbert Kappler a Roma, viene deportata a Buchenwald. Ferita durante un bombardamento anglo-americano a fine agosto del ‘44, viene sottoposta ad una lunga operazione chirurgica, allo scopo deliberato di provocarne la morte per dissanguamento.
I prigionieri invisibili sono destinati alla Fortezza Alpina, il ridotto prescelto dai gerarchi nazisti per l’ultima resistenza contro i dilaganti eserciti nemici. Ma il criminale piano fallisce miseramente. I 139 vengono liberati e la loro storia un po’ scomoda viene dimenticata. Fino a questo libro.

(Pubblicato in una versione più sintetica su Il Messaggero, 12 novembre 2015)

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Storie – L’eclettico Walter e gli altri Benjamin

di Mario Avagliano

   Il ricordo dei Benjamin non può ridursi solo all’eclettico Walter, uno degli intellettuali più importanti del secolo scorso, suicidatosi tragicamente nel settembre 1940 a Port Bou, al confine tra Francia e Spagna, mentre fuggiva da una tetra Parigi, occupata dai nazisti. All’epoca Walter fu pianto da tutti i suoi amici, da Hannah Arendt a Bertolt Brecht. Ma la storia degli altri componenti di questa famiglia di ebrei tedeschi è altrettanto interessante, come racconta il libro “I Benjamin”, dello studioso Uwe-Karsten Heye (Sellerio, pp. 333).

Scopriamo così che il fratello Georg, medico comunista, fu deportato nel lager di Mauthausen, dove fu assassinato nel 1942, spinto dai carcerieri contro la recinzione elettrificata. La sorella Dora, apprezzata pedagogo, comunista anche lei, che scrisse testi sulla condizione dei bambini poveri che restano tuttora validi, emigrò a Parigi nel 1933, fu rinchiusa nei campi francesi ma riuscì a sfuggire alla Gestapo e a riparare in Svizzera, dove morì per un cancro nel 1946. Infine la cognata Hilde, avvocato, moglie del fratello Georg, con il figlio Michael, visse per dodici anni nel terrore. I nazisti le impedirono di esercitare la professione e il figlio venne schedato come “meticcio” e non poté frequentare le scuole.
Nel dopoguerra Hilde aderì alla Ddr, dove fu vicepresidente della Corte Suprema e poi ministro della Giustizia, in prima linea nel processo di denazificazione della Germania orientale, implacabile contro i criminali nazisti che condannò a morte.
Hilde era definita sprezzantemente “la sanguinaria” dai tedeschi dell’ovest, che non avevano provveduto ad un’analoga pulizia. Adenauer, infatti, in nome della guerra fredda, consentì nei gangli dello Stato la presenza di molti nazisti non pentiti: magistrati, funzionari, ufficiali di polizia e dell’esercito, ma anche giornalisti ed editori.

(L’Unione Informa e Moked.it del 3 novembre 2015)

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Storie - I nazisti della porta accanto

di Mario Avagliano

  Si sapeva che gli Stati Uniti nel dopoguerra reclutarono scienziati nazisti per i loro progetti di ricerca scientifica e che durante la guerra fredda Cia e Fbi in Europa orientale si servirono di SS e ufficiali nazisti come spie antisovietiche, ma erano solo parzialmente note le dimensioni di questo arruolamento che riguardò addirittura migliaia di persone.

A raccontare questa pagina vergognosa della storia americana è il libro “I nazisti della porta accanto. Come l’America divenne un porto sicuro per gli uomini di Hitler” (Bollati Boringhieri, pp. 350), di Eric Lichtblau, giornalista del New York Times, già Premio Pulitzer, che ha potuto esaminare materiale desecretato negli ultimi anni e rapporti d’intelligence riservati, che gli hanno permesso di aggiungere nomi, storie e dettagli.
Scopriamo così che tra gli ufficiali delle SS reclutati dalla Cia c’era anche il tenente Otto von Bolschwing, che a 28 anni aveva scritto un trattato sull’eliminazione degli ebrei dalla Germania, nel quale passava in rassegna ogni forma di persecuzione per rendere un inferno la loro esistenza. Von Bolschwing aveva collaborato strettamente con Eichmann, salvo tradire Hitler nella parte finale della guerra, passando informazioni agli Usa e fingendosi oppositore del nazismo. Nel dopoguerra si trasferì in America, dove divenne dirigente d’azienda e morì a 72 anni.
Un altro criminale eccellente ai quali i servizi segreti statunitensi ripulirono il passato fu Karl Wolff, braccio destro di Himmler, che trattò la resa con Allan Dulles in persona, futuro direttore della Cia, e in virtù della sua attività di superspia vide il suo nome sparire dalla lista degli imputati del processo di Norimberga.
E tante altri nomi e storie emergono dal saggio. Morto Hitler, circa 10 mila tedeschi implicati a vario titolo col nazismo riuscirono ad emigrare negli Stati Uniti, spesso spacciandosi come vittime di quel sistema. Mentre invece erano carnefici o loro complici.

(L’Unione Informa e Moked.it del 27 ottobre 2015)

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Storie – Hitler e l’Inghilterra

di Mario Avagliano

Lo scoop del tabloid londinese Sun sulla foto di Elisabetta d’Inghilterra che nel 1933, all’età di 7 anni, si esibisce nel saluto nazista nella residenza estiva del castello di Balmoral, in Scozia, imitando il braccio teso di sua madre e di suo zio, poi diventato re col nome di Edoardo VIII, riaccende il dibattito sui rapporti oscuri tra i Windsor e il nazismo. E diversi storici inglesi chiedono di aprire gli archivi reali di Buckingham Palace.
Le simpatie naziste di Edoardo VIII era note. Dopo l’abdicazione, causata dallo-scandalo del rapporto d’amore con la divorziata Wallis Simpson, il duca di Windsor fu ospite di Hitler in Germania, nel 1937, e flirtò col regime nazista, finché il governo britannico non lo nominò governatore delle Bahamas proprio per allontanarlo dall’Europa.
La questione su cui si dibatte è se le simpatie di Edoardo fossero condivise dal resto della famiglia Windsor, e in particolare dal fratello minore Alberto, duca di York, futuro re Giorgio VI, che qualche anno dopo, il 3 settembre del 1939, avrebbe dichiarato guerra alla Germania, dopo l’invasione della Polonia.
Su questo punto, il mistero è ancora fitto. La studiosa Karina Urbach, autrice di “Go betweens for Hitler”, un libro inchiesta su questo argomento, ha dichiarato all’Observer che negli archivi reali ogni materiale dopo il 1918 è inaccessibile. E anche i laburisti chiedono di fare chiarezza, rendendo disponibili i documenti agli storici.

(L'Unione Informa e Moked.it del 4 agosto 2015)

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