L’Italia dei 335 martiri: le biografie di chi fu ucciso alle Fosse Ardeatine

di Aldo Cazzullo

«Che cosa sarà di noi? Questa è la tragica domanda che mi rivolgo». Così scrive dal carcere nazista di via Tasso in un biglietto clandestino alla moglie Giovanni Frignani, uno dei carabinieri che il 25 luglio 1943 avevano arrestato Mussolini. Dopo l’armistizio Frignani era entrato nella Resistenza, ma all’inizio del 1944 cadde nelle mani della Gestapo, fu più volte torturato e qualche giorno prima del suo quarantasettesimo compleanno, il 24 marzo 1944, ucciso alle Fosse Ardeatine.

In quella cava di pozzolana alle porte di Roma, all’inizio della fosca primavera del 1944, vengono uccise 335 persone. Una sequenza di colpi di pistola sparati alla testa, che fanno cadere le vittime sul cumulo dei cadaveri di coloro che le hanno precedute, nel buio umido e profondo di un anfratto di cui verrà fatto esplodere l’ingresso. È la più grande strage compiuta dai nazisti in un’area metropolitana, di cui tra qualche giorno ricorre l’ottantesimo anniversario. Ma nonostante la portata storica di quel tragico fatto, la vicenda personale di gran parte delle vittime si è persa nel tempo. Tre dei 335 martiri sono addirittura ancora ignoti. Molti altri sono poco più di un nome.

A riparare a questo vuoto ora è un libro bellissimo degli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine, in uscita domani da Einaudi, con un sottotitolo significativo:Le storie delle vittime dell’eccidio simbolo della Resistenza . Un libro che si presenta come una sorta di Spoon River italiana che ricostruisce la biografia di tutte le vittime. Un risarcimento morale per questi italiani finora in larga parte sconosciuti (a parte qualche eccezione, come l’eroico colonnello Giuseppe Montezemolo, capo della Resistenza militare, la cui biografia era stata raccontata dallo stesso Avagliano). Gli autori hanno lavorato su lettere, diari, interviste ai parenti, documenti di archivio presso l’ufficio storico della polizia, il Casellario politico centrale, il Museo storico della Liberazione, l’Anfim, l’associazione dei familiari, gli incartamenti del processo Kappler e dei processi ai fascisti nel dopoguerra.

Dalle storie individuali emerge un microcosmo altamente rappresentativo della storia del tempo, dando uno spaccato dell’identità italiana dal punto di vista geografico (i martiri sono di 18 regioni, 6 nati all’estero e 9 stranieri), sociale (tutti i ceti, i livelli di istruzione e le condizioni economiche, lavorative e professionali), generazionale (dai 32 giovanissimi tra i 15 e i 21 anni fino ai 15 ultrasessantenni), religioso (cattolici, ebrei, evangelici e atei), militare (una quarantina di ufficiali di tutte le armi, veterani della Grande guerra e giovani volontari delle campagne più recenti). Ma soprattutto politico: le vittime sono rappresentative di tutte le anime che partecipano alla Resistenza. Si va dagli oppositori di vecchia data rimasti fedeli alle proprie idee durante il ventennio, come il professore azionista Pilo Albertelli, originario di Parma, il ferroviere socialista Armando Bussi o il comunista sardo Sisinnio Mocci, reduce delle Brigate Garibaldi in Spagna, a coloro che maturano la scelta solo dopo l’armistizio. L’avvocato Alberto Fantacone in una lettera alla moglie scrive: «Cerca di confortarti perché del resto sono dentro non per aver commesso qualche grave reato ma per aver aderito a qualche cosa che rappresenta un ideale a cui dovrebbero aderire tutti gl’italiani, degni di questo nome».

Una quota significativa delle vittime è costituita da militari che rifiutano di aderire alla Rsi, spesso in nome alla fedeltà alla monarchia, e scampano al destino da Internati militari. Il Fronte militare clandestino di Montezemolo conta almeno 42 vittime alle Fosse Ardeatine e ha un ruolo fondamentale nella Resistenza a Roma. E numerosi sono anche i membri delle forze dell’ordine, in particolare carabinieri e poliziotti, come il tenente colonnello dei carabinieri Manfredi Talamo, che durante la guerra aveva trafugato il Black Code, il codice segreto di trasmissione degli Alleati, e il poliziotto Maurizio Giglio, figlio di un funzionario dell’Ovra, che mette su un’efficientissima organizzazione di intelligence, Radio Vittoria, collaborando con i socialisti Giuliano Vassalli e Sandro Pertini. Numerosi sono anche i giovanissimi nati e cresciuti nella temperie culturale del regime alla quale si ribellano, come lo studente cattolico comunista Romualdo Chiesa e diversi giovani operai dei quartieri popolari di Roma, da Centocelle a Pigneto e Tor Pignattara. Di contro, ci sono anche fascisti che in precedenza avevano avuto ruoli importanti, tra cui un podestà arrestato per aver aiutato e nascosto soldati alleati e l’ex sottosegretario di Mussolini, Aldo Finzi, che aveva fondato una banda partigiana a Palestrina.

Lo spirito che li anima è sintetizzato da quanto si legge in un biglietto a matita ritrovato in tasca a una delle vittime, scelto da Avagliano e Palmieri come dedica del libro: «Sono Italiano e mi vanto di appartenere alla Nazione più bella del mondo, a questa bella Italia così martoriata! Se non dobbiamo più rivederci ricordate che avete avuto un figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando in viso i carnefici!».

La particolarità della strage delle Fosse Ardeatine è che essa parla non solo della Resistenza ma anche della storia degli ebrei, prima perseguitati nell’Italia delle leggi razziali e poi braccati per essere portati a morire nei campi di sterminio (75 vittime, di cu 66 iscritti alla comunità ebraica di Roma e altri iscritti ad altre comunità o stranieri). Tra le varie storie, spicca quella della famiglia Di Consiglio. Il 21 marzo 1944, tre giorni prima dell’eccidio, le SS arrestano su delazione di un italiano quattordici componenti della famiglia Di Consiglio e quattro componenti della famiglia Di Castro. Sei maschi della famiglia Di Consiglio, tutti nati a Roma, più Angelo Di Castro, con loro imparentato, vengono uccisi alle Fosse Ardeatine, le donne e i bambini vengono deportati, via Fossoli, ad Auschwitz e nessuno di loro tornerà a casa.

Un punto d’osservazione sacrosanto, quello proposto da Avagliano e Palmieri, che ha anche il merito di riportare in piena luce le responsabilità della strage, che certamente sono dei nazisti, nel quadro del loro articolato e sanguinario sistema d’occupazione che in Italia costa la vita a più di 23 mila persone, tra cui molte donne e bambini, vittime inermi di atti violenti, stragi ed eccidi, ma coinvolgono direttamente anche i fascisti della Rsi. La Questura di Roma, come è noto, partecipa attivamente alla selezione delle vittime, contribuendo a raggiungere il numero stabilito ma, come evidenziano gli autori, la metà delle vittime è arrestata da italiani, autonomamente o in collaborazione con i tedeschi come basisti, infiltrati, spie o esecutori materiali del fermo, anche grazie a una estesa rete di delatori prezzolati, pronti a vendere ebrei e patrioti (rispettivamente 101 arrestati in autonomia e 69 insieme ai tedeschi). E le biografie ci raccontano anche il clima di terrore delle prigioni naziste e fasciste, le torture e le violenze subite dalle vittime, alle quali pure c’era chi reagiva con grande coraggio e ironia, come il generale Sabato Martelli Castaldi, di Cava de’ Tirreni, rinchiuso a via Tasso, che in un messaggio clandestino alla moglie rivela: «Penso la sera in cui mi dettero 24 nerbate sotto la pianta dei piedi, nonché varie scudisciate in parti molli, e cazzotti di vario genere. Io non ho dato loro la soddisfazione di un lamento, solo alla 24ª nerbata risposi con un pernacchione che fece restare i manigoldi come tre autentici fessi».

(Corriere della Sera, 18 marzo 2024)

 

In un libro le 335 'vite spezzate' delle Fosse Ardeatine

di Gabriele Le Moli

 

Militari, membri della resistenza, oppositori storici del fascismo. Esponenti politici di tutti i partiti dell'arco resistenziale. Uomini di tutte le età e fedi religiose, di tutte le provenienze geografiche e di tutti i ceti sociali e di ogni livello di istruzione: aristocratici, borghesi, alti ufficiali, ma anche e soprattutto tante persone comuni: macellai, impiegati, contadini, liberi professionisti. Sono le 335 vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, di cui solo pochi giorni fa è stato celebrato l'80/o anniversario, e di cui per la prima volta, in maniera sistematica, vengono ricostruite e proposte le biografie complete. E' il merito dell'ultima fatica della coppia di storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, che hanno pubblicato con Einaudi il volume "Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza".

La strage, compiuta dai nazisti il 24 marzo del 1944 sotto il comando del capo delle SS di Roma Herbert Kappler, come rappresaglia per l'attacco partigiano di via Rasella che era costato la vita a 33 militari tedeschi, è una delle pagine storiche più famose e presenti nell'immaginario collettivo del Paese. Per la prima volta Avagliano e Palmieri si sono assunti in maniera completa, esaustiva e metodica, il dovere di riportare alla memoria le vite e le storie di tutti i martiri dell'eccidio, dai più noti a coloro che per anni sono stati sepolti nell'oblio.

Il loro lavoro, condotto attraverso una minuziosa ricerca delle fonti, dai diari e lettere dei martiri, dei loro familiari o dei compagni di lotta, alle carte di polizia, le schede carcerarie, i documenti e relazioni dei partiti e dei movimenti di appartenenza, ma anche le schede utilizzate per il riconoscimento dei corpi, gli incartamenti del processo Kappler, le memorie postume e un costante contatto con le famiglie, fornisce così un ritratto complessivo di quello che lo storico Alessandro Portelli ha definito "un vero e proprio spaccato geografico, politico, sociale dell'identità nazionale italiana".

I tentativi di dare un volto e un nome ai martiri di quell'eccidio, in effetti, cominciarono fin da subito, grazie all'impegno di Attilio Ascarelli, il medico che per primo ebbe il compito di esumare ed identificare le salme e che lasciò un corposo fascicolo intitolato "Breve biografia dei 320, con 291 schede biografiche". Negli anni a seguire, però, questo primo volenteroso spunto di ricerca non ebbe il necessario seguito, disperdendosi in una variegata produzione storiografica, dedicata spesso ad approfondire solo singoli aspetti o singoli protagonisti di quel periodo storico.

Alcuni di essi, come il colonnello Giuseppe Montezemolo (capo del fronte militare clandestino e protagonista del colpo di stato del 25 luglio del 1943), hanno ricevuto il massimo risalto, e lo stesso Avagliano gli ha dedicato una monografica, così come al suo concittadino Sabato Martelli Castaldi. Nomi altrettanto noti sono quelli dei carabinieri Giovanni Frignani e Raffaele Aversa, che parteciparono all'arresto del Duce e furono fra le colonne della "banda Caruso". Approfondite schede biografiche erano presenti anche in un volume degli esordi dello stesso Avagliano, "Muoio innocente", dedicato alle lettere dei condannati a morte della resistenza romana.

Nel dopoguerra molti di essi hanno ricevuto i più disparati riconoscimenti: in ogni parte d'Italia ad alcuni di loro sono state intitolate strade, scuole, caserme e parchi. Presso i loro luoghi di nascita, di residenza o di lavoro sono state apposte targhe e pietre d'inciampo. Alcuni sono stati insigniti di medaglie (35 d'oro, 25 d'argento e 4 di bronzo al valor militare, più una medaglia d'oro e una d'argento al merito civile) o croci al merito. Altrettanto numerosi sono però i "senza nome", le persone comuni, accomunate con i più illustri personaggi dalla tragica fine per mano dei nazifascisti, ma sulle quali erano disponibili informazioni limitatissime o quasi nulle, e che ora trovano visibilità. 

(Ansa, 27 marzo 2024)

 

Fascismo, non è stato un gioco

di Diego Gabutti

Banalizzare (come si dice) il fascismo è stato sempre uno sport molto praticato in Italia. Mussolini «buonuomo», gli antifascisti «in villeggiatura» alle isole, i gerarchi in pantofole, la dittatura mite e generosa, la bonifica delle paludi, la Treccani, giusto un po' d'antisemitismo (ma indulgente, mica come a Berlino). Non si capiva, in fondo, perché gli oppositori del regime andassero esuli all'estero. Potevano restarsene tranquillamente anche qui, pacifici, indisturbati, persino un po' riveriti.

Coccolati da Primato, cari ai frondisti come Leo Longanesi e Indro Montanelli, e in fondo simpatici anche allo stesso Dux, gli antifascisti avrebbero potuto essere l'ala democratica (diciamo così) del regime se soltanto fossero stati meno cocciuti. Un po' come oggi, sotto la stella cometa del governo meloniano, quando il neofascismo («onore al Msi», commemora la seconda carica dello Stato) è stato trasformato dal voto popolare (il 26% del 55% dell'elettorato) nell'ala littoria della democrazia.

Per lo più il fascismo è caramellato e farcito d'uvetta da storici e memorialisti, che ridacchiano, beffeggianti ma ammirati, del Duce a cavallo che brandisce la Spada dell'Islam, del Duce aviatore e sciatore, del Duce che si molleggia con i pugni sui fianchi nella gabbia Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo del leone, del Duce armato di falce e a torso nudo che partecipa alla battaglia del grano, del Duce giocatore di bocce.

Raccontato così, deriso e rimpianto insieme nei memoir dei giornalisti e dei diplomatici più compromessi, filtrato attraverso le mattane dei legionari fiumani, tutto tele futuriste e telefoni bianchi, il fascismo diventa uno scherzo e gli oppositori degli zucconi che non capiscono la barzelletta. Ci sono libri scanzonati sui rapporti al Duce dell'Ovra, la polizia politica. Si possono leggere libri leggeri e goliardici sulle imprese erotiche di Mascellone nella Sala del Mappamondo. Gli si accreditano opinioni antinaziste ((pando c'era tutt'al più dell'invidia per la bella presenza delle SS, alte e marziali, dalla divisa impeccabile, mentre a lui toccavano militi «brevilinei», sgualciti e pelandroni). Passa per libertario, addirittura per «auto-mormoratore», se non per antifascista occulto: l'idea generale è che il fascismo non sia colpa sua ma degl'italiani, «ingovernabili», «indisciplinati», eterni bambini. Straparlano così, da ottant'anni in qua, intere biblioteche.

Rare se non rarissime le eccezioni: tra i titoli recenti Il caso Mussolini (Neri Pozza 2022) di Maurizio Serra, la biografia di Giovanni Gentile (Il filosofo in camicia nera, Mondadori 2021) di Mimmo Franzinelli, il Mussolini capobanda (Mondadori, 2022) di Aldo Cazzullo e questo Il dissenso al fascismo di Mario Avagliano e Marco Palmieri, storici accurati delle zone in ombra dell'Italia nella prima metà del secolo. Mentre non c'è storia del fascismo, dei suoi Guf, delle sue disfatte militari, dei suoi slogan ridicoli, dei suoi ras, del suo Minculpop, delle sue Opere Balilla, dei suoi gerarchi, dei suoi architetti e trasvolatori, delle sue donne fertili, dei suoi squadristi in orbace o in doppiopetto che non abbia al centro qualche grand'uomo a pancia in dentro e petto in fuori, Avagliano e Palmieri in tutti i loro libri si sono invece sempre occupati di cose che contano e di persone vere.

Negli anni, hanno raccontato la storia delle leggi razziali e dell'antisemitismo fascista, dello sbarco alleato, dei soldati al fronte, della resistenza disarmata dei militari italiani internati nei lager tedeschi per non essersi arruolati nei ranghi di Salò, dei primi anni del secondo dopoguerra, della resistenza allo stalinismo nel 1948. Qui, con Il dissenso al fascismo, si occupano dei dissidenti — gli antifascisti che, tra la proclamazione della dittatura nel 1925 e la caduta del fascismo nel 1943, cercarono d'opporsi al regime e ne furono perseguitati. A fermarli non fu il «consenso» di cui godeva il fascismo, come raccontano gli storici compiacenti, ma il terrore scatenato dal regime contro l'opposizione in qualsiasi forma, dal partito liberale a quello socialcomunista, dai Testimoni di Geova ai boy-scout.

Tutt'altro che caramellosa, niente canditi, zero uvetta, la storia della repressione negli anni del fascismo è la storia d'un regime criminale, assassino, feroce. Non è vero che Hitler e Stalin fossero peggio di Mussolini soltanto perché fecero peggio di lui. Mussolini ha fatto quel che ha potuto coni mezzi e il materiale umano che aveva. Se solo ne avesse avuto i mezzi, il vantaggio e l'occasione, non avrebbe certo indietreggiato di fronte al genocidio, come infatti dimostrarono le leggi razziali del 1938 che gettarono in pasto ai cannibali migliaia d'ebrei. Qualunque cosa se ne legga nei libri così spiritosi di Leo Longanesi, nelle Storie d'Italia di Montanelli o nelle biografie di Filippo Tommaso Marinetti, di Giuseppe Bottai e di Berto Ricci, un antisemita rabbioso che Montanelli definiva «un anarchico» e «un idealista», il fascismo non fu affatto uno scherzo né un intermezzo piacevole: eravamo ragazzi, c'era l'avventura dell'impero, giovinezza, giovinezza.

A decine di migliaia d'italiani (molti dei quali lasciarono clandestinamente il paese poiché anche l'espatrio era diventato un reato, com'era reato raccontare barzellette sull'Uomo della Provvidenza o criticare per una qualsiasi ragione il regime) non era sembrato divertente farsi purgare e randellare dalla feccia della società nazionale. Decine di migliaia d'italiani finirono in galera, al confino, in manicomio, stipati nelle isole che la stampa internazionale descriveva realisticamente come «Siberia e Cayenna italiane». Ci furono centinaia di suicidi, la maggioranza dei quali soltanto tra virgolette: malnutriti, torturati con le tecniche più efferate, talvolta persino violentati (come raccontano Avagliano e Palmieri) dalle stesse guardie carcerarie, gl'internati antifascisti morivano come mosche, assassinati senza che i loro aguzzini fossero chiamati a risponderne.

Avagliano e Palmieri scavano in una vasta costellazione di piccole storie che finiscono male, malissimo, bene, mai benissimo. Storie d'avvocati, d'operai, di calzolai, d'ingegneri espulsi dall'ordine, di studenti e insegnanti, di sacerdoti, di donne e uomini che il fascismo ha imprigionato, torturato, oltraggiato, ucciso. «No, non è terrore, è appena rigore», spiegò Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927. «Terrorismo? Nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazionale, si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto» Erano discorsi da teppista, i soli che gli si addicessero. Stalin e Hitler dicevano esattamente le stesse cose.

Come ci ricordano Avagliano e Palmieri, è di questo che si parla quando si parla di fascismo. Sul dissenso e la resistenza al fascismo è stata fondata la repubblica, che per quanto imperfetta è sempre meglio di qualunque regime. Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo. C'era Mario Draghi a Palazzo Chigi e adesso guardateci. 

(Italia Oggi, 31 dicembre 2022)

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Le barzellette su Mussolini raccontano il dissenso nascosto

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 

La campagna elettorale per le elezioni politiche che si è appena conclusa ha avuto un nuovo protagonista indiscusso: i meme. Il sarcasmo, infatti, al giorno d’oggi viaggia veloce e senza confini sui social network. E per questo i meme sono diventati una cosa seria, poiché hanno assunto un peso specifico assai rilevante nella ridefinizione della geografia politica del consenso: non c’è candidato, leader o esponente istituzionale che possa sfuggire all’ironia puntuta, irriverente, dissacrante e soprattutto contagiosa delle immagini divertenti che gli utenti della rete producono, anche in modo spontaneo, e che si diffondono con una viralità mai vista prima.

Se lo strumento (la rete e i social) e le potenzialità di circolazione e diffusione sono senza precedenti, ciò che invece non è affatto nuovo è il ruolo della satira e dello sbeffeggiamento che, in presenza di situazioni in cui la libertà d’espressione è limitata o non ammessa del tutto, assumono anche la valenza di potente mezzo di opposizione, di resistenza, di dissenso. Tant’è vero che sono oggetto di feroce di repressione.

In Italia, ad esempio, ci fu una vivace fioritura di meme ante litteram durante il ventennio fascista. Un’ironia sotterranea, che circolava segretamente, strappando un sorriso e aprendo in questo modo qualche crepa nella cappa oppressiva che il regime fece scendere sul paese mettendo fuori legge e punendo severamente qualsiasi forma d’opposizione, ma anche di semplice dissenso non organizzato e non politico, bensì spontaneo.

A una ricostruzione dettagliata di questo fenomeno è dedicato un intero gustoso capitolo del nostro ultimo libro “Il dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943”, appena pubblicato da Il Mulino, che - come ha affermato la storica Simona Colarizi - ricostruisce finalmente in modo completo la storia degli oppositori a quel regime, raccontando sia le vicende dei militanti politici noti, come Gramsci, Pertini e Sturzo, sia di quelli sconosciuti: operai, casalinghe, contadini, impiegati protagonisti di scioperi, proteste, scritte murali, atti di critica al fascismo ma anche di barzellette, epigrammi, storielle sarcastiche, motti di spirito, storpiatura degli slogan e parodia delle canzoni fasciste e della retorica ufficiale.

Così, ad esempio, vi si legge la storiella di Mussolini che va in visita a un manicomio e passa in rassegna i malati che applaudono convinti tranne l’ultimo della fila, il quale quando gli viene chiesto perché non batte le mani risponde di essere infermiere e non matto. E ancora: «sulla tomba della madre del Duce hanno messo quattro soldati di guardia. Lo sai perché? Per evitare che risorga e faccia un altro Duce»; «Hai la foto del Duce in tasca? No. Ma allora dove sputi».

La memoria collettiva del fascismo, in effetti, nel dopoguerra prende una strana piega, sedimentando il ricordo di un regime risibile, di rituali e liturgie grottesche e pratiche ridicole, che contribuisce a oscurare il ricordo della pratiche repressive feroci, della brutale privazione della libertà e del soffocamento di ogni forma di dissenso e opposizione. A ben guardare un fondamento di questa incredibile evoluzione si può cercare proprio in questa fioritura di battute e di sarcasmo. Sotto la dittatura, però, il ruolo dell’ironia fu importante, poiché nel quadro della pressoché totale impossibilità di manifestare il dissenso, queste freddure andarono a scalfire la pretesa sacralità del fascismo e del duce, il suo mito e quindi la pretesa dedizione assoluta alla causa e al pensiero unico. Un flusso che la polizia politica, come dimostrano le carte relative alle indagini per ricercare chi le crea o semplicemente le racconta, faticò a contenere e a interrompere.

Fermo restando il fenomeno della diffusione di una comicità e di una ironia fine a sé stessa, mettere in circolo barzellette, storielle e battute e lasciarsi andare a una risata di fronte ad esse rappresentarono uno sfogo e una reazione all’oppressione del regime, alle difficoltà della vita quotidiana e alla povertà della vita intellettuale al di fuori dai canoni consentiti. Tant’è vero che nel 1938 Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, annotò nel suo diario che circolavano «barzellette a josa. Fioriscono ai margini della disciplina cieca e muta».

A grandi linee, nel fenomeno si può anche rintracciare una tendenza generale: barzellette, battute e parodie su Mussolini, i gerarchi e il fascismo, tra i ceti popolari, avevano più spesso il retrogusto di una critica sincera e sentita, portata avanti nonostante i rischi di denuncia. Tra i ceti medio-alti, invece, rispondevano più di frequente al mero spirito di divertissement, che non intaccava la sostanziale adesione al fascismo e al mito del duce.

La polizia politica mise sotto torchio coloro i quali venivano sorpresi a raccontare storielle ironiche contro il duce e il regime, nel difficilissimo intento di risalire a chi le aveva create. Così il prefetto di Sassari nel 1932 denunciò un tale che in pubblico chiese: «Sapete quale è la differenza tra il Popolo d’Italia e Mussolini? La differenza è che Mussolini ha i pieni poteri, ed il popolo d’Italia ne ha i coglioni pieni». Quello di Forlì invece nel 1934 diffidò un uomo che in un albergo di Riccione andava raccontando che «Hitler ha i baffi rossi perché Mussolini ha le emorroidi». L’anno seguente una barberia romana attirò l’attenzione delle autorità per essere una sorta di covo di satira antifascista: «Il Duce chiamò a sé un Accademico d’Italia per chiedergli di sostituire nel vocabolario italiano la parola culo. Dopo alcuni giorni l’Accademico tornò a Lui per riferirgli che aveva trovato la nuova parola. Il nuovo vocabolo sarebbe stato comprensione. Il Duce si meravigliò e disse: che c’entra questa parola? L’Accademico rispose: come? Ce lo ha insegnato Lei stesso quando in un discorso disse che il Fascismo era entrato nella comprensione del Popolo Italiano».

Un filone molto gettonato era quello di prendere di mira corruzioni e ruberie che abbondavano tra le gerarchie del regime. Ne è un esempio la barzelletta allusiva riferita da un rapporto del prefetto di Milano a fine 1934, raccontata sempre da un barbiere, ma all’uomo sbagliato, un fiduciario fascista che prontamente sporse denuncia: «Mussolini si recò un giorno da un dentista per farsi estirpare un dente che gli faceva male. Dopo l’operazione chiese quanto doveva ed il dentista pretese la somma di lire mille. Mussolini protestò per il caro prezzo, ma, poi, finì col pagare; però, nel consegnare il denaro, disse: “Queste sono le mille lire, ma guardi che sono rubate”. Il dentista rispose: “Non ne dubito”». «Una volta – recitava un’altra storiella sarcastica – un operaio comprò della frutta, ma essendosi accorto che era stata avvolta in un giornale dove vi era l’effige del Duce, disse di cambiare la carta altrimenti si mangiava anche la frutta».

Anche le sigle, tanto diffuse sotto il regime, erano terra fertile per far proliferare l’ironia: Pnf diventò «Per Necessità Familiare» o anche «Pane Nostro Fatigato» e per i fascisti doc «Per Niente Fare» oppure «Preparazione Nostri Furti», mentre Mvsn venne tradotta in Mai Visto Sudare Nessuno, Gil in Gioventù Incretinita del littorio». E a Roma c’è chi inventa una nuova interpretazione dell’S.P.Q.R. letto per diritto e per rovescio, riferita ai gerarchi fascisti: «-Signori Podestà, Quanto Rubate? E quelli rispondevano con fascistica imperiosità: – Rubiamo Quanto Possiamo. Silenzio!».

Tuttavia, a conferma che barzellette e storielle dietro l’ironia celavano solide verità, si metteva alla berlina anche la mancanza di coraggio del popolo italiano: «In casa: – Accidenti a quel ladro di Mussolini! Morte a tutti quei filibustieri fascisti! Fuori di casa: – Viva il duce! Viva il fascismo». O la sua intelligenza, come nel seguente epigramma: «Povero popolo, / quanto sei bravo! / Farti suo schiavo / può un fanfarone / che da un balcone / ti sa incantare; / se fa il giullare / con le parate, / le smargiassate, / tu corri appresso... / Povero popolo, / quanto sei fesso!»

(Il Domani, 5 novembre 2022)

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L'Italia senza camicia nera. Aldo Cazzullo: la prima ricostruzione completa del dissenso al regime

di Aldo Cazzullo

«Mussolini visita un manicomio. I ricoverati messi in fila applaudono freneticamente. Uno solo non batte le mani. Un uomo della scoria lo interroga: e voi non applaudite? Non sono mica matto, io sono un infermiere». E' una delle tante barzellette che vengono raccontate sotto la dittatura di Benito Mussolini. Un'ironia sotterranea e amara, che circola segretamente tra gli italiani nei primi anni Trenta. Il regime fascista, del resto, dopo aver neutralizzato ogni forma d'opposizione, ha fatto scendere la sua cappa oppressiva sul Paese. La macchina della repressione, con l'occhio vigile della polizia e delle spie, e quella del consenso, con la propaganda, le organizzazioni paramilitari e le adunate oceaniche, funzionano a pieni giri. Non essere allineati è un rischio troppo alto da correre e non sono solo gli oppositori veri e propri a rischiare, ma anche i semplici mormoratori, cioè chi si lascia sfuggire mere imprecazioni o battute di spirito contro Mussolini e il fascismo o sulla situazione in generale.

E' quanto racconta il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolato II dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943 (il Mulino). Da anni Avagliano e Palmieri portano avanti una loro peculiare ricerca storica, basata su un enorme lavoro sulla corrispondenza e sulle carte private e familiari degli italiani. Questa è la prima ricostruzione completa del dissenso al regime. A conferma del fatto che non tutti gli italiani sono stati fascisti.

Le spedizioni punitive, le ritorsioni, le condanne del Tribunale speciale al carcere e al confino e la vigilanza onnipresente e asfissiante della polizia politica, la famigerata Ovra, riducono al silenzio, all'inattività o alla fuga all'estero buona parte degli oppositori e anche chi semplicemente si lamenta o ironizza sul Duce e l'operato del regime. Le uniche opinioni consentite sono quelle autorizzate, cioè allineate. Ogni ambito della vita pubblica e privata è presidiato. «L'Italia — spiegherà nel 1944 l'antifascista di Albano Umberto Di Fazio — era divenuta per gli italiani un terreno così infido che bisognava bene esaminare davanti a sé prima di avventurarsi a muovere un piede. Si giunse all'assurdo che qualche volta persino tra le pareti domestiche si dubitava». E il periodico satirico «Il becco giallo» da Parigi, nel 1931, in un articolo intitolato Il mito dell'Ovra osserva che «c'è chi vede il fantasma dell'Ovra in ogni ombra; chi abbrividisce ad ogni palpito di tenda; chi suda freddo per lo scricchiolio di un mobile o per il gemito di una porta».

Eppure negli anni della dittatura il dissenso non viene soffocato del tutto. Una minoranza di italiani ha il coraggio di continuare a esprimerlo, pagando un prezzo altissimo in termini di emarginazione e isolamento sociale, controllo poliziesco, violenze e condanne severe. Accanto a figure note come Gramsci, Gobetti, Matteotti, don Minzoni e ai tanti esuli costretti alla fuga all'estero fin dai primi anni del regime, il libro prende in esame anche l'opposizione spontanea, popolare, spesso politicamente inconsapevole e finora poco indagata, che forma un terreno fertile su cui poi attecchirà la partecipazione di molti italiani alla guerra di Liberazione.

Il dissenso trova varie forme, pubbliche e private, eclatanti o sotterranee, esplicite o camuffate, organizzate o spontanee, per continuare ad essere manifestato. Si tratta di spazi residuali e limitati, pericolosissimi da occupare, che però persistono durante tutta la dittatura in modo non omogeneo nel tempo e nelle diverse zone del Paese. Con varie forme di espressione che spaziano dalla semplice indifferenza, alla non adesione intima e privata, fino all'antifascismo militante, con espressioni che vanno dai comportamenti privati alle iniziative individuali, fino all'impegno più organizzato. È il caso del giovane «di 25 anni, scarno, di statura media, colorito roseo, capelli castani con maglietta da ciclista color bigio» che, come riferisce una relazione della polizia, in un mattino della fine del 1927 scende da Albano lungo l'Appia a tutta velocità con la sua bicicletta lanciando manifestini che invitano a lottare contro il fascismo. O quello del fornaio Giuseppe Sciuto, di Catania, non iscritto a nessun partito ma che tra il 1939 e il 1941 scrive ben 118 lettere anonime in stampatello a personalità italiane, gerarchi fascisti e giornalisti italiani e stranieri con frasi come: «Il fascismo tiene gli operai schiavi e sacrificati; il fascismo, banditismo nero, assassino, micidiale e nemico dell'umanità». Decine di agenti vengono impiegati nella caccia all'uomo, anche prendendo il posto dei postini di Catania e sorvegliando le buche delle poste, ma ci vogliono due anni per stanare Sciuto, arrestato il 5 maggio 1941 mentre sta per imbustare altre missive alla cassetta postale.

Spesso si tratta di un «antifascismo da osteria», in quanto i presunti dissidenti pronunciano le loro invettive sotto i fumi dell'alcol, nel corso di litigi o per eccessi di rabbia dovuti alla disperazione e alla miseria, incappando nelle denunce di delatori di passaggio, colleghi, conoscenti o perfino parenti, talora ritrattandole per evitare la condanna o alleviare le pene. Non mancano però filoni di dissenso sociale più profondi e meno estemporanei, che arrivano anche a proteste popolari come cortei davanti alle sedi istituzionali e tumulti e scioperi nelle fabbriche e nelle campagne, soprattutto nei momenti più gravi della crisi economico-sociale, che vedono protagoniste anche tantissime donne: dopo la rivalutazione della lira del 1926-27, nei primi anni Trenta con l'arrivo in Italia degli effetti della Grande Depressione e durante la guerra, specie tra il 1942 e i primi mesi del 1943. 

Esercitare il dissenso sotto il fascismo ha un costo. Tra il 1926 e il 1943 ogni settimana, come ha calcolato Altiero Spinelli, il regime infligge l'ammonizione o la vigilanza speciale a 181 cittadini, ne invia 11 al confino, ne denuncia 24 al Tribunale speciale e ne condanna 6 al carcere con pene fino a trent'anni. La maggior parte degli antifascisti trascorre buona parte della giovinezza tra il carcere e il confino. «Cara Fiorella — osserva sempre Spinelli in una lettera de11942 — ecco oggi, tre giugno, son quindici anni che son prigioniero, il 43% della mia vita totale, o, se si conta la vita effettiva dai 15 anni in su, il 75%. Con un certo senso di orrore sto scrivendo queste cifre. Non credo che ci sia molta gente al mondo che abbia battuto questi record».

E' un dissenso che ha tanti volti e tante forme. Lo esprimono uomini e donne legati ad antiche fedeltà ideali e politiche maturate prima dell'avvento del regime, in famiglia o nelle comunità cittadine o di quartiere. Ci sono anche antifascisti «dormienti», che sono rimasti in Italia e hanno abbandonato l'attività politica attiva, ma di cui è nota la contrarietà al Duce. Così come sono i più vari i luoghi del dissenso: per strada, nelle trattorie, nei bar, sui tram, nei posti di lavoro, nel privato delle proprie case. E lo stesso vale per le sue forme, tra cui quelle cosiddette «povere»: barzellette, filastrocche, caricature, parodie di canzoni o di poesie, insulti e imprecazioni contro Mussolini e i gerarchi, statue parlanti (come nel caso di Roma), scritte murali che spesso compaiono in occasione di date simbolo come il primo maggio, ritocchi sarcastici di cartoline propagandistiche, volantini artigianali, intonazione di canti politici, culto e ricordo degli oppositori morti per mano fascista e funerali sovversivi.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2022)

Paisà, sciuscià e segnorine

di Andrea Manzella

 

1. Questa di Avagliano e Palmieri (Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile, Il Mulino) è una narrazione puntiforme della tempesta perfetta che si abbattè sul Mezzogiorno d’Italia nei venti mesi tra il 1943 e il 1945. Da essa si possono ricavare - intrecciate tra loro nel tempo, ma autonome nella loro sostanza - tre storie: una storia politica, una storia militare, una storia sociale. La storia politica è quella della “King’s Italy” - come la chiamarono gli Alleati - del Regno del Sud (secondo la formula del libro pioneristico di Agostino degli Espinosa, 1946). Comincia, come molte vicende di quel tempo, a Radio Bari, da dove l’11 settembre parlò il Re, fuggito da Roma: «per la salvezza della Capitale e per potere pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale». Il territorio “nazionale” era ridotto alle province di Bari, Lecce, Brindisi, Taranto : lasciate formalmente “libere” dagli Alleati. La gran parte dei ministri del governo Badoglio era rimasta a Roma. I superstiti si riunirono in Vaticano, per l’ultimo Consiglio dei ministri : per autosciogliersi. A Brindisi e sparpagliato tra varie località pugliesi, vi era, in sostituzione, un “governo di sottosegretari” (p. 155). Le condizioni operative sono più che precarie. Mancano perfino i dattilografi. Badoglio è costretto a scrivere a mano le comunicazioni ufficiali da consegnare agli Alleati. Eppure non è una “parvenza” di Stato. È il punto simbolico di legittimità a cui guarderanno le poche forze armate che non si sono arrese, i 600 mila prigionieri avviati in Germania, la flotta che amarissimamente si consegna a Malta (dopo la perdita della corazzata “Roma”), ma anche i cadetti dell’Accademia di Marina che fuggono su un mercantile da Venezia per raggiungere fortunosamente Brindisi. È anche il “territorio” statuale in cui sarà possibile che nuovi partiti politici potranno cominciare a pensare a come rinnovare lo Stato. Paradossalmente quella precaria “continuità” dello Stato è la premessa della sua ri-costituzione. Il Congresso di Bari del 28-29 gennaio 1944 è giustamente salutato dalla Gazzetta del Mezzogiorno come il «primo congresso antifascista dell’Europa liberata» (p. 146). Nel discorso di Michele Cifarelli che l’introdusse, come in quello di Benedetto Croce che avviò il dibattito vi è questa consapevolezza “europea”. «All’Italia prima terra d’Europa liberata» - dirà Croce - «gli altri paesi europei guarderanno come il saggio della loro nuova vita». Ma soprattutto nel Congresso si pongono le premesse delle “Costituzioni provvisorie” che - nella dialettica continuità/rinnovamento - si susseguiranno sino al 2 giugno 1946. Senza interruzioni della legalità vigente, si arrivò alla “rivoluzione” dello Stato repubblicano. Queste premesse costituzionali si trovano ancora una volta nella denuncia di Croce a quel Congresso: fino a che il Re rimane «noi sentiamo che il fascismo non è finito, che ci rimane attaccato addosso». Eppure quel Congresso fondativo era stato all’inizio proibito dai “governatori” occupanti. Ma una significativa mobilitazione internazionale, dei laburisti nel Regno Uniti e dei democratici negli Stati Uniti, avevano superato le resistenze dei militari. Questi riusciranno però ad impedirne la radiocronaca. Una registrazione arrivò però ugualmente alla BBC e a Radio Londra. Quel Congresso italiano d’avanguardia fu così conosciuto in tutto il mondo. Dopo il regime del “partito unico” - e ancora nell’ “anello di ferro” in cui era mantenuta quella parte d’Italia (è il lamento di Badoglio a Roosevelt, p. 173) - nasce lo “Stato pluralistico dei partiti”. La prima a riconoscerlo è la Russia sovietica. Dopo un incontro di Badoglio con Vyšinskij, l’URSS è la prima nazione a ristabilire le relazioni diplomatiche con l’Italia, già il 13 marzo 1944. Il primo ambasciatore italiano a Mosca è Pietro Quaroni. Per un suo articolo “non ortodosso” sulla politica etiopica fascista, era stato inviato per punizione in Afghanistan. Nel caos del mondo si trova così ad essere il diplomatico, leale allo Stato monarchico, più vicino al confine russo, lungo il fiume Amur. Due settimane dopo, ritorna Togliatti da Mosca. È il punto preciso del tempo in cui veramente rinasce il Partito comunista italiano fino allora una «galassia di corpuscoli divisi tra loro» (p. 160). Un acutissimo scrittore inviato di guerra, Norman Lewis, annota subito profeticamente: «ci sono tutte le premesse perché il partito diventi il più forte partito comunista al di fuori dell’URSS», proprio perché «annovera un’alta percentuale di intellettuali borghesi». Gli inglesi e gli americani, invece, ci faranno aprire le ambasciate a Londra e Washington solo il 28 settembre, sei mesi dopo dell’URSS (p. 201). Eppure l’Italia è “cobelligerante” dal 13 ottobre 1943. Da quando ha dichiarato la guerra alla Germania. Ma all’apertura sovietica, all’atteggiamento tutto sommato amichevole degli USA, corrisponde una tenace resistenza di Winston Churchill per il mantenimento dell’immobilismo nella situazione italiana. «Sono certo - dirà con il suo consueto realismo - che il Re e Badoglio sarebbero in grado di fare per noi più di qualsiasi governo italiano formato da esuli e avversari del regime fascista». E poi, il 22 febbraio 1944, nel “discorso della caffettiera” andrà oltre: sostenendo che l’unico governo possibile era quello di Badoglio perché «quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro ugualmente comodo e pratico». La furibonda reazione a queste parole da parte dei partiti italiani - pur repressa nelle intenzioni di sciopero generale - è però tale da attestare che anche il manico della caffettiera di Churchill è divenuto incandescente. Il 24 aprile 1944, infatti, è la «svolta di Salerno». Il Re Vittorio Emanuele ha accettato di ritirarsi appena liberata Roma. Ma intanto è lui, a Ravello, che riceverà nelle sue mani il giuramento del II governo Badoglio: con Croce, Togliatti, Gullo, Aldisio, e perfino il repubblicano conte Sforza. Dopo la liberazione di Roma (con la ritirata tedesca ordinata da Hitler: per preservare il “centro di civiltà più antico del mondo”, p.187) il tempo di Badoglio sarà però anch’esso scaduto. Nasce il governo Bonomi con tutti i partiti antifascisti. Ma il maresciallo esautorato avrà modo di “cantarla” duramente ai “nuovi venuti”: «mentre voi eravate nascosti o chiusi nei conventi, chi ha lavorato, assumendo le più gravi responsabilità, è quel militare che non appartiene a nessun partito». La protesta più rabbiosa è però quella, coerente, di Winston Churchill che in un telegramma a Roosevelt, accusa gli alleati di aver sostituito Badoglio con un «gruppo di anziani e affamati politicanti» (p. 200). La macchina della politica nazionale si era però ormai messa in moto. L’Italia procedeva verso la riunificazione proprio mentre in Sicilia iniziava la gravissima crisi del separatismo. La “questione regionale” si apriva, in un certo senso distorto, non solo in Sicilia: e non sarà veramente risolta fino ai giorni nostri.

2. Lo stesso assetto costituzionale del nuovo Stato sarà infatti condizionato dalla storia sociale del Regno del Sud. I moti siciliani che hanno il loro epicentro nella “strage del pane di Palermo” (repressa nel sangue dai militari della divisione Sabauda, comandata dal generale Castellano, lo stesso dell’armistizio di Cassibile); e i moti sardi scoppiati a Sassari (con protagonista il giovanissimo Enrico Berlinguer, imprigionato per cento giorni) (pp. 319-321) sfoceranno alla fine nei due Statuti speciali, anteriori alla Costituzione repubblicana. Nel retroscena siciliano, poi, vi era stata quella che sembra la prima “trattativa Stato-mafia”, condotta proprio dal generale Castellano, che, con i suoi “buoni” rapporti, riuscì ad ottenere l’appoggio dell’“alta mafia” contro il dilagante fenomeno del banditismo (l’ «ora basta!» di don Calogero Vizzini, p. 337). Si “riconosceva” dunque l’egemonia di di un “potere altro”: anche se dai loro rapporti risulta che la mafia fu più un problema per gli Alleati (la cui origine era attribuita agli “interpreti” italo-americani che si erano portati dietro) che non la risorsa che favorì l’invasione militare, di cui a lungo si favoleggiò (p. 329). L’epilogo istituzionale del regionalismo “speciale” rappresenta, almeno da questo angolo visuale, quasi un attestato della singolare esperienza meridionale, segnata da tragedie individuali e collettive, provocate dalle due successive occupazioni militari. Avagliano e Palmieri ne fanno un resoconto minuto, localizzato e spesso personalizzato. Emergono i misfatti tedeschi: con la loro cieca applicazione di una sorta di diritto di guerra in rappresaglie e rastrellamenti di lavoratori coatti per la loro macchina bellica, affamata di uomini. Emergono i misfatti degli Alleati, originati piuttosto da criminalità comune nelle loro fila: ma anche con barbare uccisioni di gruppi di prigionieri di guerra italiani nei primi giorni dell’invasione siciliana e anche -e sopratutto- con quel generale diritto di stupro e di vendetta che i comandanti francesi consentirono alle loro truppe africane. Il dramma delle donne “marocchinate” provocò la protesta ufficiale del pur flebile governo Bonomi. E fu un enorme contributo alla efficacia della propaganda fascista dal Nord.

3. La storia militare di quegli anni è indistricabile da questa scia di profondo perturbamento sociale, così come dagli sforzi di ricostruzione politica. Quando alle 18.15 del 18 agosto 1943 Badoglio ed un redivivo Vittorio Emanuele Orlando si rivolgono da Radio Roma ai “fratelli siciliani” invasi, dalle loro parole traspare già la rassegnazione all’inevitabile-sconfitta. L’evacuazione dell’isola è avvenuta perfettamente il giorno prima: è stato uno stupefacente capolavoro militare tedesco. Nello stretto di Messina, grazie a un efficacissimo fuoco antiaereo dalle due sponde, si sono ritirati in Calabria più di centomila uomini (60mila italiani, 40mila tedeschi) e migliaia di tonnellate di materiale bellico. Ma i tedeschi già apprestano le loro successive linee difensive nella Penisola: l’ “ordine” militare contro il disordine dell’impotenza . Tuttavia, quando Badoglio e il Re si ritroveranno nel “ridotto” delle quattro province pugliesi, il loro primo sforzo è quello di riorganizzare un primo nucleo militare che attestasse - nell’unico modo concreto consentito in quelle condizioni - una continuità simbolica dello Stato monarchico. Già il 24 settembre (mentre il Re proclama da Radio Bari la lotta contro «l’inumano nemico della nostra razza e della nostra civiltà»: parole surreali in quanto riservate ad un alleato di appena 16 giorni prima) si costituisce una unità motorizzata di 5 mila uomini (p. 346). È l’inizio della “cobelligeranza”: accolta con estrema freddezza dagli Alleati (nonostante gli sforzi ripetuti di Badoglio, che scrive ad Eisenhower: «abbiamo chiesto l’armistizio perché deboli ma non siamo dei poltroni» ed arriverà ad offrire le sue dimissioni nel caso che l’ostacolo al riarmo fosse stata la sua persona, p. 354). Il “battesimo del fuoco” sarà a Montelungo il 26 novembre: una piccola vittoria, dal grande significato, pagato a carissimo prezzo, 82 caduti e 160 dispersi. È a Scapoli, paesino del Molise, che le unità militari del Regno del Sud, assumeranno il nome di Corpo italiano di liberazione. Gli Alleati faranno tornare dalla onorevole prigionia in Tunisia il maresciallo Messe, non compromesso dunque con il disastro della dissoluzione militare dopo l’armistizio. Sarà il nuovo capo di Stato maggiore. Alla fine del conflitto il Corpo - che opererà sul versante adriatico con i polacchi del generale Anders - avrà 200 mila uomini e conterà 8100 caduti (p. 356). Accanto alla ricostituzione di una entità militare “regolare”, il Regno del Sud vedrà tentativi di volontariato, in un certo senso politico: tentativi nettamente stroncati dagli Alleati. Sarà Benedetto Croce a redigere e firmare, già l’11 ottobre 1943, un “manifesto per la chiamata di volontari” (p. 349). Ci sarà anche, più tardi, nel luglio 1944, un appello di Togliatti. In realtà i volontari, nonostante tutto, affluiscono in buon numero in un campo allestito a Cesano. Non troveranno né equipaggiamento né inquadramento. Rabbia e ribellione accoglieranno, invece, soprattutto in Sicilia, i bandi militari di leva del governo Badoglio. «Non vogliamo andare contro i nostri fratelli del Nord»: il movimento “Non si parte” vedrà uniti separatisti e neofascisti. A Comiso questo eterogeneo connubio fonda addirittura una sedicente repubblica indipendente. Durerà una settimana: sotto minaccia militare la “repubblica” si arrende. Trecento rivoltosi saranno confinati. Ad essi Mussolini conferirà la medaglia d’argento della sua Repubblica sociale. In via più generale, il libro sottolinea che l’attenzione riservata ai “clandestini” neo-fascisti operanti dietro le linee alleate, era già risuonata nel famoso ultimo discorso di Mussolini al Lirico di Milano: troveremo al Sud «più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato». A questa "resistenza" fascista aveva dato un formidabile contributo ideale la distruzione del secolare monastero di Montecassino: avvenuto - per inesistenti necessità belliche degli Alleati - nonostante che i loro Monuments Officers fossero già operanti per tentare di preservare il nostro patrimonio artistico dalle offese di guerra. Dopo quella devastazione che provocò fortissima emozione nel mondo cattolico degli stessi Paesi alleati, la Repubblica Sociale Italiana emetterà una serie di francobolli con i danni arrecati dai bombardamenti a vari nostri monumenti, con la scritta hostium rabies diruit. Eventi e fermenti della tragedia nazionale, poco conosciuti: la storia del Sud sarà oscurata dagli eventi fondativi della Resistenza al Nord e della resa tedesca. Quasi a segnare funestamente l’inizio e la fine della guerra al Sud, ci saranno due catastrofi che colpiranno il porto di Bari, la prima “capitale” di quel Regno. Il bombardamento aereo tedesco del 2 dicembre 1943: considerato il maggior successo della Luftwaffe in tutta la guerra (venti grandi navi affondate e fra esse la nave alleata esplosa con un suo carico di iprite, coperto da disumano “segreto militare” che condusse alla morte “sconosciuta” centinaia di lavoratori portuali: mille vittime italiane, mille le alleate). E lo scoppio del piroscafo Henderson saltato in aria provocando quasi 400 vittime, ancora nella luttuosa prima linea i lavoratori portuali baresi: era il 9 aprile del 1945. Erano passati 19 mesi dall’8 settembre; mancavano 16 giorni al 25 aprile.

4. Per molti ragazzini del Regno del Sud il segno che la guerra fosse veramente finita e l’Italia riunificata, fu quando la Mondadori riprese, come se nulla fosse successo, il loro abbonamento a “Topolino” (anche se erano stati nel frattempo compensati dagli splendidi settimanali nati a Roma: “Il Vittorioso”, con i geniali fumetti di Jacovitti, e “L’Intrepido”). Già Fausto Coppi, reduce della prigionia, su una bicicletta regalatagli da un falegname di Somma Vesuviana, aveva fatto in tre giorni gli 800 chilometri che lo separavano da Napoli alla sua casa di Castellania. Riprendeva il campionato di calcio: ancora in due gironi con un turno finale unificato che vide le squadre del Nord largamente dominanti. A Napoli due creazioni artistiche erano state come il sigillo filosofico di una grande tragedia: Napoli milionaria di Eduardo de Filippo («Ha da passa’ a’ nuttata») e Simmo ‘e Napule paisà di Peppino Fiorelli («chi ha avuto, ha avuto, ha avuto /chi ha dato, ha dato, ha dato…scurdammoce ‘o passato»). Sembrava che con quelle parole di speranza e di pacificazione, il Sud volesse dare all’Italia intera il segnale di una Ricostruzione morale e materiale che cominciasse proprio lì, da Roma in giù. In fondo, le tante, dettagliate notizie contenute in questo libro ricordano che la politica, nella sua forma più alta, era rinata proprio lì. A Bari, prima, a Napoli e Salerno poi, una nuova concezione dell’Italia aveva preso forma. Erano tutti lì: da Benedetto Croce ad Aldo Moro, da Carlo Azeglio Ciampi a Michele Cifarelli, da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Tommaso Fiore a Corrado Alvaro, alla vivacissima Alba de Cespedes. Perfino la prima effervescenza dell’endemico populismo italiano era apparsa lì : con il grande successo dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Ma c’era stato anche Giuseppe Di Vittorio, che con le lotte contadine, aveva offerto il primo esempio di un “sindacalismo” radicale e nazionale. Con responsabilità e pazienza, che oggi appaiono leggendarie, si erano gradualmente escogitate soluzioni istituzionali, che avrebbero assicurato la transizione legale dallo Stato monarchico a quello repubblicano. Nel Regno del Sud si era formato-come si è visto- il Corpo italiano di liberazione: l’unico punto di riferimento di quadri militari dopo l’armistizio che conferiva una qualche concretezza alla “cobelligeranza” contro il nazifascismo. Il mantenimento in vita di una certa idea di Patria. Radio Bari («qui parla Radio Bari, libera voce del governo d’Italia») e la Gazzetta del Mezzogiorno (l’unico giornale d’Italia a non sospendere le pubblicazioni neppure per un solo giorno in tutti gli anni di guerra, p. 379) furono le voci che attestarono che non tutto lo Stato era scomparso nella voragine delle invasioni. E che uno Stato c’era, con la sua legittimazione, di fronte alla Repubblica Sociale che sembrava attestare solo una reviviscenza del fascismo. Poi ci fu il “vento del Nord” che portò la grande ansia di rinnovamento di un Resistenza italiana connessa a quella europea. Certo, il Sud non fu dimenticato: anche se passarono 5 anni prima della creazione della Cassa per il Mezzogiorno di De Gasperi e Pasquale Saraceno (1950). Ma, anche dopo aver letto il libro di Avagliano e Palmieri, con il suo caleidoscopio di multiformi vicende, si ha la sensazione che poco o nulla fu fatto per mantenere al Meridione del Paese il ruolo “protagonista” con cui aveva affrontato le vicende belliche in cui fu tanto duramente coinvolto. E che avevano fatto constatare, con la vista lunga di Ugo La Malfa, proprio mentre la “politica” si spostava a Roma: «la guerra passata con violenza estrema ha disarticolato completamente un territorio povero, in alcune zone poverissimo» (p. 209). Certo, tante cose sono mutate da quei giorni lontani: ma di quel “protagonismo” non più ritrovato è forse un simbolo La Gazzetta del Mezzogiorno. Non aveva mai chiuso negli anni più bui. Ha chiuso il 1° agosto 2021.

(Rivista Giuridica del Mezzogiorno, 20 dicembre 2021)

Il dopoguerra anticipato del Sud: quando il popolo scrive la Storia

di Pasquale Chessa

Furono tante le guerre che si combatterono in Italia dopo la caduta del fascismo: fra guerra civile e di liberazione, partigiana o di classe, c'è chi ne ha contate almeno sette, insieme a quella mondiale. Di conseguenza non ci fu un solo dopoguerra. Il primo è "scoppiato" almeno due anni prima del 1945, con lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Un'asimmetria tutta italiana che rimanda alla frattura geografica e antropologica fra Nord e Sud, per lungo tempo trascurata dalla storiografia, che ha lasciato tracce indelebili non solo nella storia politica ma anche nella mentalità di tutta la nazione.
 
LA RICERCA
Tracce ancora leggibili, come possiamo constatare seguendo la ricostruzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri, frutto di una ricerca del tutto inedita sui modi affatto peculiari messi in atto dall'Italia postfascista per uscire dalla Seconda guerra mondiale. Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (Il Mulino) infatti, non è solo un libro di storia ma piuttosto un racconto di storie che si ramificano nel tempo e nello spazio della geografia. Con una polifonia di voci, che promuove le memorie popolari a fonte storiografica, insieme alle testimonianze giornalistiche e letterarie, compresi romanzi e Sofia Loren nel film del 1960 "La Ciociara" di Vittorio De Sica, dal romanzo di Alberto Moravia film, Avagliano e Palmieri riescono a farci entrare nel vissuto della storia colta nel momento in cui si radica nei comportamenti collettivi. Sapiente è l'equilibrio fra la grande storia, dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma, e i suoi riflessi sul sentimento popolare, dalle "segnorine" che si prostituiscono per salvarsi dalla fame, alle rivolte contadine e ai moti del pane.
 
LA DEFINIZIONE
È stato Enzo Forcella, giornalista politico di primo rango del secondo Novecento, molto sensibile al vissuto collettivo del Paese, a coniare l'innovativa definizione di "altro dopoguerra" in un libro del 1976. Fu infatti un periodo eccezionale, una specie di laboratorio storico-politico, spesso funestato da forme feroci di repressione militare come risposta alle inevitabili rivolte popolari. A Canicattì, il 14 luglio, due giorni dopo la strage perpetrata dai tedeschi in ritirata, gli americani fucilarono almeno una ventina di civili arrestati per aver rubato del sapone... Nella Guida del soldato, la Sicilia è descritta come «un buco infernale [...]abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori».
 
LA TRAGEDIA
Il romanzo di Alberto Moravia, La ciociara, che Vittorio De Sica tradusse in un film toccante magistralmente interpreto da Sofia Loren, trova la sua ispirazione originaria nella tragedia che travolse la Ciociaria invasa dalle truppe marocchine sbarcate a Napoli nel novembre del 1943 con licenza di saccheggio, fino allo stupro. «1 napoletani non sanno più chi odiare» scriveva Leo Longanesi. Eppure quei due anni «vissuti sotto l'occupazione alleata - riconoscono Avagliano e Palmieri - consolidano il mito della potenza americana collocando definitivamente e stabilmente l'Italia del dopoguerra nella sfera americana e occidentale, nel nuovo scenario della guerra fredda contro la sfera sovietica e comunista».
 
(Il Messaggero, 4 dicembre 2021)

 

Il 7 dicembre presentazione a Roma di "Paisà, sciuscià e segnorine"

Martedì 7 dicembre, alle ore 17.00, presso la sede e sul canale Facebook della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in collaborazione con ANPI, INSMLI e IRSIFAR, sarà presentato il volume Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile di Mario Avagliano e Marco Palmieri. (Il Mulino, 2021). Intervengono: Anna Balzarro, Isabella Insolvibile, Giancarlo Governi,  Gianfranco Pagliarulo. Coordina: Maria Corbi. Saranno presenti gli autori.

È stato chiamato «l'altro dopoguerra» il periodo vissuto dall'Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, stragi tedesche e alleate e atti di resistenza, spesso misconosciuti (non solo la battaglia per la difesa di Roma e le Quattro giornate di Napoli). Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà, con il primo confronto con la democrazia dopo il ventennio fascista. I problemi economici e sociali sono aggravati dall’atteggiamento dei militari alleati, intorno ai quali, come avviene ad esempio a Napoli e a Roma, proliferano fenomeni come segnorine, sciuscià e traffici del mercato nero che portano a un certo decadimento dei costumi morali. Esaurita l’euforia della libertà riconquistata ed emersa la consapevolezza del carattere illusorio dell’aspettativa che l’arrivo degli anglo-americani, simbolizzato dal pane bianco, dalle caramelle e dalle chewing-gum, porti miracolosamente alla fine della miseria, le truppe “salvatrici” nella penisola diventano sempre meno gradite. La presenza degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, la rinascita del cinema e del teatro, con Anna Magnani, Totò, i fratelli de Filippo, De Sica e Rossellini, e poi la fame, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il libro compone un racconto corale, curioso e inedito di quell'Italia del dopoguerra.


Mario Avagliano
è un giornalista e storico, collabora alle pagine culturali de “Il Messaggero” e de “Il Mattino”. E’ autore di numerosi saggi su fascismo, seconda guerra mondiale, deportazioni e dopoguerra.

Marco Palmieri è giornalista e storico, ha lavorato per diverse testate e ha pubblicato numerosi saggi sulla deportazione, la resistenza e il dopoguerra.

 

Anna Balzarro è direttrice dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR) 

Maria Corbi è una giornalista, inviata de La Stampa.

Giancarlo Governi è un autore televisivo, sceneggiatore e scrittore.

Isabella Insolvibile è una storica specializzata nella Resistenza italiana.

Gianfranco Pagliarulo è presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)                                                            

Patrizia Rusciani è direttrice Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.



Diretta sul canale FB della Biblioteca
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E nei giorni successivi sul canale youtube della Biblioteca

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