Mario Avagliano

Mario Avagliano

Vincere e vinceremo, lo specchio dell'Italia fascista che fu

di Enrico Zuccaro

Con Vincere e Vinceremo, l’ormai collaudato binomio Avagliano-Palmieri prosegue nella sua opera di rigorosa revisione della nostra storia nazionale per troppo anni intrisa di tanta retorica e luoghi comuni.
Tra questi ultimi quello secondo cui  gli italiani non vollero  e sopportarono a malincuore la decisione del fascismo di entrare in guerra nel 1940 a fianco dell’allora Germania nazista.
In realtà le cose andarono diversamente, perché tanti italiani vollero la guerra, salvo poi pentirsene, come gli autori dimostrano non attraverso l’analisi dei documenti ufficiali, bensì tramite una lettura attenta, critica e ben contestualizzata di centinaia di lettere di combattenti, relazioni di polizia, carabinieri, spie e fiduciari dell’ occhiuto apparato repressivo del regime fascista.
La storia propostaci dagli autori è quindi una storia scritta più che mai dall’interno, una storia di  donne e uomini che combatterono e soffrirono tra il 1940 ed il 1943, UNA STORIA POTREMMO DIRE “EMOTIVA”, come  ci suggerisco gli autori nella loro introduzione,  ma che sin dalle prime pagine assume l’autorevolezza di un analitico saggio sull’opinione pubblica degli italiani di allora.
 
Va da sé che ciò che gli autori ci propongono è quanto risulta dall’esame di  posta accuratamente passata al vaglio della censura, come avveniva, per ovvi motivi di sicurezza, in tutti gli eserciti di allora.
Nondimeno il quadro che ne risulta spicca per originalità  di analisi e per veridicità.
In nove capitoli  per un totale di 313 pagine, gli autori ripercorrono i tre anni e tre mesi che intercorrono dal 10.06.1940 (entrata in guerra)  alle giornate del 25.07. ed  8.09.1943, che notoriamente segnano la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio con gli Alleati.
Grazie alla lettura della corrispondenza inviata dai militari, gli autori scandagliano l’animo degli italiani che in 3 anni e tre mesi appunto passano dall’adesione entusiastica alla guerra, alla disillusione, al malcontento ed infine alla avversione ed all’ antifascismo.
E la posta- da sempre considerata forse in chiave troppo sentimentale solo come momento di malinconico sfogo e di struggente  nostalgia- diviene invece specchio di un intero paese, suggerendo al lettore numerose chiavi di lettura.
La prima, intorno a cui ruota un po’ tutto il libro, è quella dell’analisi dei molteplici aspetti del  consenso al regime,  e soprattutto al suo capo. Un consenso chiaramente indotto, diremmo fabbricato (come dalla nota monografia di Cannistraro; “La fabbrica del consenso”) da diciotto anni di propaganda martellante, attuata dal PNF, dal regime e dalle sue organizzazioni satelliti (dopolavoro ecc.) in una sorta di tentativo di controllo di ogni settore della vita degli italiani.
Un consenso in cui però non mancano note di sincera ammirazione, talvolta sconfinanti in un vero e proprio culto della personalità di Mussolini, DESTINATARIO DI MOLTE LETTERE DI SOLDATI e visto come il capo indiscusso e indiscutibile, che ha sempre ragione  che non sbaglia mai e che soprattutto, quando le cose vanno male su qualsiasi fronte, è ignaro di quanto sta accadendo perché incolpevole vittima degli inganni dei gerarchi e sottoposti.
Dall’esame delle lettere riprodotte nel testo scaturisce, ancora, con chiarezza cristallina, la periodizzazione del consenso al regime ed il suo progressivo deteriorarsi, il suo andamento ondivago perché connesso alle mutevoli sorti degli eventi bellici, sin dai primi mesi di guerra infauste per le armi italiane.
Gli umori che traspaiono da  quanto scrivono  i nostri soldati non sfuggono agli zelanti censori, né  ai Carabinieri, né alla polizia, né ai servizi segreti. Mai i loro rapporti, che pure giungono sino alle più alte sfere del regime fascista, pensiamo ai cosiddetti “Promemoria per il duce” nulla producono, all’ infuori della segnalazione  di questo o quel militare alle competenti autorità di polizia o al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Una seconda chiave di lettura- strettamente connessa alla prima -   è quella relativa alle opinioni che i nostri militari hanno dei loro nemici, così come le troviamo espresse nelle  loro lettere.
Smentendo, qualora ce ne fosse  ancora bisogno, l’adusato cliché dell’italiano buono contrapposto al tedesco cattivo, l’immagine del nostro soldato che traspare dalle lettere riportate nel testo è quello di un soldato razzista con il nemico, che talvolta ammira il crudele alleato tedesco, che è  antisemita e consapevole di tanti stragi perpetrate dai nazisti, anticomunista, o meglio antibolscevico e  feroce col nemico (lettera del lanciafiammista), specie  nella repressione anti partigiana.
(A dire il vero si era razzisti anche in altri eserciti; tra gli altri anche in quello americano, specie sul fronte del Pacifico, nei confronti dei giapponesi).
A questi due ultimi riguardi (anti bolscevismo e repressione anti partigiana) va riconosciuto al libro un elevato valore storico-documentale, specie  nei capitoli dedicati alla guerra in Russia ed ai crimini di guerra, non a caso forse tra i più estesi dello intero volume.  Sono pagine che ci hanno riportato alla memoria gli scritti  dolentissimi di “Italiani senza onore”  di Costantino Di Sante; di “Qui si ammazza troppo poco” di Gianni Oliva, e del più recente “L’Occupazione italiana dei Balcani”, di Davide Conti. Pagine dalle quali l’onore delle Armi italiane esce indelebilmente macchiato ma che aiutano a fare senza reticenza alcuna  i cosiddetti conti con il passato, cosa che noi italiani non abbiamo ancora fatto completamente.
 
Una terza chiave di lettura è quella relativa alle manipolazione delle coscienze che emerge chiaramente in tante lettere, talvolta con toni anche grotteschi ma che testimoniano del  lavaggio cerebrale subito da taluni nostri soldati.
E così capita di leggere di militi che credono alle bombe avvelenate lanciate dal nemico o che dopo la loro eventuale morte chiedono, dopo la cremazione, di caricare un proiettile con le loro ceneri e di utilizzarlo contro il nemico.
In quest’ottica vanno analizzate, in particolare, le lettere che arrivano dal fronte russo, dove tanti soldati credono di combattere una guerra santa, contro un nemico senza Dio e perciò barbaro e sacrilego (un po’ come il  “Dio lo vuole” delle crociate ed il Got mit uns tedesco).
 
Una ultima chiave è quella di carattere più spiccatamente sociologico.
L’ampio campione di scritti riportati dagli autori, conferma, purtroppo,  che il livello di istruzione media del fante italiano era la seconda elementare.
Da qui errori e strafalcioni di ortografia che caratterizzano tutte o quasi le lettere dei nostri soldati.
Soldati che continuano ad  indirizzare tante loro missive  ai parroci dei loro comuni di residenza, così come facevano venti anni prima, durante il primo conflitto mondiale i loro genitori, perché a casa nessun altro sapeva leggere.
E ciò suona a conferma del non innalzamento dei livelli di alfabetizzazione degli italiani, specie nelle zone rurali e nonostante i 20 anni di un regime, nelle parole molto vicino al suo popolo, nei fatti poco attento all’istruzione del medesimo.
A proposito delle lettere indirizzate ai parroci, c’è un ulteriore aspetto che merita di essere sottolineato: l’organicità di parte del clero al regime fascista, organicità tradotta spesso in incoraggiamenti rivolta ai soldati, specie a quelli attivi sul fronte russo.
La  lettura sociologica della posta dei nostri soldati si rivela particolarmente interessante, laddove si esamina il circuito di comunicazione Fronte di combattimento- Fronte interno. E qui paradossalmente si scopre che  in tantissimi  casi, non è dalle mura domestiche che giunge conforto ai nostri soldati, ma che sono piuttosto questi ultimi, talvolta con incrollabile fede nella vittoria finale, a dare sostegno a chi è rimasto a casa.
E ciò la dice lunga sulla qualità del consenso  al regime; una qualità che impallidisce, di fronte alla tenuta del fronte interno della Germania hitleriana, mantenutosi  granitico sino quasi alle ultime settimane di guerra.
 
Altro interessante spunto di riflessione, ancora  in chiave sociologica, è quello che si trae dai giudizi sugli americani e conseguentemente sul loro esercito, espressi nelle parole dei nostri soldati.
Benché timorosi della eventualità di scontrarsi con parenti od amici emigrati oltre oceano, i nostri militari  vedono nei loro coetanei statunitensi degli “sciampagnoni” ), infiacchiti dalla vita comoda (si vedano in proposito tanti brani del Diario  di Ciano), un po’ come gli omologhi inglesi, definiti con disprezzo  “popolo dei 5 pasti”. Si tratta , ovviamente di giudizi intrisi di sconsiderata superficialità.
Dolenti, ancora sul versante sociologico, i tanti accenni al malcostume della corruzione, presenti in tante missive di militari che lamentano la violazione a scopo di furto dei pacchi loro inviati.…  
 
Gli  ultimi  3 capitoli del libro sono i capitoli della disillusione, della sconfitta e della presa di coscienza del tradimento ordito dal fascismo contro l’Italia.
I terremoti indotti dalle sconfitte in terra d’Africa e tanto più in Russia, avevano già svelato a tutti l’inadeguatezza del nostro apparato militare dietro il quale, lo sappiamo tutti, c’è sempre un apparato politico. Tali inadeguatezze risaltano ancor più quando gli Alleati sbarcano i  Sicilia provocando in pochi giorni la caduta del regime.
Nonostante tutto, anche  dopo il 25 luglio ed il conseguente sbando, dalle lettere dei nostri militari traspare un sincero e commovente  amor di Patria, una fiducia ingenua, fino ad apparire quasi inquietante nella ripresa del nostro esercito sotto la guida del maresciallo Badoglio, successore di Mussolini dopo esserne stato complice.
Eppure  tale amor di Patria  non manca di suscitare  ammirazione e rispetto.
Giunti all’ ultima pagina del libro, chi vi parla ha più volte ripercorso le tante note a matita vergate e i tanti interrogativi suscitati da Avagliano e Palmieri, convincendosi che “Vincere  e vinceremo” è un libro che non può mancare nella biblioteca degli appassionati di storia. Un libro cui auguro tutta la fortuna che merita. 
 

(Relazione letta in occasione della  presentazione del volume svoltasi a Ceccano il 31 gennaio 2015)

Storie - I volenterosi carnefici di Mussolini

di Mario Avagliano

Nei due anni tragici di Salò e dell’occupazione tedesca del centro nord dell’Italia, numerosi italiani si prestarono ad essere “volenterosi” carnefici dei loro connazionali ebrei. La retata a Venezia del 5 dicembre 1943, ad esempio, fu condotta da poliziotti, carabinieri e volontari del ricostituito partito fascista. E almeno la metà degli arresti degli ebrei poi deportati ad Auschwitz e in altri Lager fu opera di italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi.

A ricordarcelo, con un agile e documentato saggio pubblicato da Feltrinelli, è Simon Levis Sullam, professore di Storia Contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, in I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (pp. 150), il cui titolo rimanda volutamente a quello del saggio di Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", che ha riaperto la questione sulla responsabilità dei tedeschi (e non solo dei nazisti) nella Shoah.

Anche dopo l’armistizio, l’Italia non rimase “al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto” e accanto ai giusti e ai salvatori, vi furono purtroppo tanti persecutori. Nel libro, oltre che delle responsabilità degli apparati dello Stato e degli uomini di partito, ci si occupa fra l’altro del ruolo dei delatori, che non furono solo fascisti convinti ma anche semplici civili, quasi sempre per motivi di soldi. E perfino alcuni ebrei, come il triestino Mauro Grini, che tra Trieste, Venezia, Milano identificò e denunciò un migliaio di ebrei ("anche di più" - si vantava) dietro lauti pagamenti, e la romana Celeste Di Porto.

(L'Unione Informa e Moked.it del 24 febbraio 2015)

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Adriana Montezemolo: mio padre eroe dimenticato della Resistenza

di Dino Messina

 
“L’ultima volta che vidi mio padre era il Capodanno del 1944. I baroni Scammacca del Murgo, coraggiosi amici, correndo gravi rischi, ci avevano ospitati al nostro rientro a Roma e avevano organizzato quell’attesa riunione familiare”.
Adriana Cordero Lanza di Montezemolo, ultimogenita del colonnello Giuseppe Montezemolo, il capo del Fronte militare clandestino, ricorda con tratti veloci e precisi la figura del padre, medaglia d’oro, eroe della Resistenza, massacrato alle Fosse Ardeatine nel pomeriggio del 24 marzo 1944, assieme agli altri 334 prigionieri politici, ebrei, detenuti comuni che erano stati prelevati dalla prigione nazista di via Tasso e da Regina.
Nella casa che da molti anni condivide con Benedetto Della Chiesa, nipote di Papa Benedetto XV, in una tenuta agricola che corre proprio lungo la via Ardeatina, Adriana di Montezemolo custodisce memorie importanti, avendo ereditato dalla madre Juccia (Amalia), scomparsa nel 1983, la missione di ricordare quel padre importante, figura centrale della Resistenza, che tuttavia per oltre mezzo secolo è stato tenuto fuori dalla storiografia ufficiale. “Abbiamo avuto infinite manifestazioni di affetto private e ufficiali, culminate in una medaglia d’oro, ma è vero per molto tempo del ruolo di mio padre s’è parlato molto poco. Forse perché noi siamo una famiglia di militari, abituati ai fatti. Certo, mi fece grande piacere leggere nel 2003, sul ‘Corriere della sera’, un articolo di Paolo Mieli in cui diceva che era il momento di far entrare il colonnello Montezemolo nei libri di storia. Meno di dieci anni dopo è arrivata la biografia di Mario Avagliano, ‘Il partigiano Montezemolo’ (Dalai editore) che colmava una lacuna”.
Adriana Montezemolo parla veloce, talvolta si interrompe e si alza per mostrare un cimelio importante, i biglietti del padre dalla prigione di via Tasso, la lettera di ringraziamento del generale Harold Alexander, comandante degli eserciti alleati in Italia, alla mamma Juccia per l’opera insostituibile svolta dal capo delle Forze militari clandestine a Roma, la foto che ritraeva la famiglia per l’ultima estate spensierata a Forte dei Marmi: ci sono il primogenito Manfredi, classe 1924, che aiutò il padre nella lotta clandestina, il secondogenito Andrea, oggi cardinale, che lavorò con il medico Attilio Ascarelli dopo la liberazione di Roma a ricomporre i resti delle vittime delle Fosse Ardeatine, infine, assieme ad Adriana, le sorelle Lidia e Isolda.
Adriana nel dopoguerra si è laureata in fisica con Edoardo Amaldi, ma assieme al marito Benedetto, da cui ha avuto cinque figli, si è sempre occupata di agricoltura, organizzando una tenuta agricola in Kenia e poi dal 1960 seguendo le attività nelle campagne romane e del Viterbese. Le memorie della famiglia si intrecciano a quelle pubbliche. “Ci eravamo trasferiti a Roma da Torino nel 1940, quando mio padre era stato nominato colonnello, il più giovane con quel grado. Diceva che nell’esercito contano gli ufficiali con la c (caporale, come lui era stato nella prima guerra mondiale, capitano e colonnello) perché i più vicini alla truppa. Il papà era una persona affettuosa, ma come usava una volta riservata e severa. Aveva un’autorità eccezionale, tutti glielo riconoscevano, era un capo nato. Dopo la laurea in ingegneria e una breve parentesi di lavoro come civile a Genova, era rientrato nell’esercito dove aveva bruciato le tappe: volontario nella Guerra di Spagna, aveva poi compiuto almeno 16 missioni in Africa settentrionale dove era stato decorato con una medaglia d’argento”.
Fedele ai Savoia, il 19 luglio 1943 aveva accompagnato Mussolini all’incontro di Feltre con Hitler, dove il capo del fascismo non ebbe il coraggio di sostenere con il Fuehrer le ragioni di una pace separata. Fu allora che venne decisa la sorte del Duce e il colonnello Montezemolo ebbe una parte nel suo arresto. Consigliere militare di Badoglio, decise di restare a Roma dopo l’8 settembre per organizzare la difesa militare, quando la corte e tutte le alte cariche dell’esercito e del governo prendevano la via di Pescara. “La funzione di mio padre era di collegamento tra il governo legittimo del Sud e la Resistenza romana. Si era fatto paracadutare alcune radio ricetrasmittenti e comunicava agli Alleati gli spostamenti delle truppe tedesche e tutte le informazioni utili che riusciva ad ottenere”.
Per questo Herbert Kappler, il comandate delle SS di Roma, che poi lo avrebbe interrogato e torturato in via Tasso, lo considerava il nemico pubblico numero uno.
“Passammo quell’estate del 1943 in una tenuta di alcuni amici a Perugia. Mio fratello Manfredi che frequentava il collegio militare a Lucca ci raggiunse a piedi, Andrea invece era con noi. Dopo l’8 settembre nostro padre ci diede l’ordine di non muoverci, la situazione era molto pericolosa, ma non riuscimmo a trattenere Manfredi che andò a Roma in bicicletta e si unì all’organizzazione clandestina con documenti falsi. Nostro padre teneva le fila non soltanto delle forze militari clandestine ma coordinava i gruppi della Resistenza che si andavano formando. ‘Mai avrei pensato – diceva – io monarchico di collaborare e avere buoni rapporti con il comunista Giorgio Amendola”.
Giorgio Amendola, che diede l’ordine dell’attentato al battaglione SS Bozen in via Rasella, da cui scaturì la rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine. “Mio padre credeva alle forze armate clandestine spettasse l’azione di intelligence e il controllo in città. Alla Resistenza civile, che fu aiutata dal Fronte militare clandestino anche con il rifornimento di armi, erano riservate azioni di sabotaggio in campagna. Mio padre era molto preoccupato dalle rappresaglie e finché rimase in libertà riuscì a tenere il controllo della situazione. Dopo il suo arresto, il 25 gennaio 1944, dapprima i protagonisti della Resistenza si dileguarono nel timore che parlasse. Ma quando si accorsero che il colonnello Montezemolo riuscì a resistere alle torture, cominciarono le azioni dei Gap”.
Adriana Montezemolo era rimasta a Perugia con la mamma e le sorelle sino a fine dicembre 1943: “Il 27 dicembre venne a prenderci in macchina un maresciallo dei carabinieri di cui mio padre si fidava. Prima andammo un paio di giorni dai baroni Scammacca, quindi cominciammo a frequentare le scuole al collegio di Trinità dei Monti, dove anche mia madre viveva in una stanza del pensionato, mentre mio fratello Andrea era nel collegio ucraino. Mio padre e mia madre si incontravano il mercoledì in casa Scammacca verso le 14,30, poi di solito uscivano per una passeggiata a Villa Borghese cercando di non dare nell’occhio. All’ultimo incontro, credo il 19 gennaio, tre giorni prima dello sbarco di Anzio, mio padre disse alla mamma che se gli americani non arrivavano a Roma lui sarebbe stato preso. Si sentiva braccato, aveva cinque polizie alle calcagna. La settimana successiva la mamma arrivò prima all’appuntamento, ma attese inutilmente. Arrivò invece mio fratello Manfredi con la notizia che il papà il 25 era stato arrestato”.
Chi era stato a parlare, a fare la delazione, a rivelare che sotto i baffi a manubrio del “professor Giuseppe Martini” si nascondeva il capo della Resistenza militare clandestina? “Ci sono state varie voci, potrei dire dei nomi, ma la verità non si saprà mai. Speravamo che il papà non fosse finito nelle mani delle SS. Una persona terribile, che dava informazioni cercando di carpire denaro, ci disse che lo aveva visto a Regina Coeli, tranquillo che giocava a carte. Strano, pensammo, il papà non gioca a carte”.
Era invece nelle mani di Kappler nella prigione di via Tasso, dove venne torturato per giorni. Nelle stesse stanze, oggi diventate museo, sono esposti gli abiti del prigioniero Montezemolo: una camicia con le cifre, un maglione inglese di marca Wolsey, la giacca e i pantaloni sdruciti.
“Una cugina si era offerta di portare un po’ di biancheria. Dalla prigione di via Tasso filtrarono tre biglietti di mio padre, poi il silenzio. Fino al 25 marzo, quando una donna mostrò a mia madre una pagina del ‘Messaggero’ con la notizia che alle Fosse Ardeatine erano stati giustiziati comunisti e badogliani… Vivemmo nell’angoscia e nella speranza anche dopo aver ricevuto la comunicazione tedesca che potevamo andare a ritirare in via Tasso gli effetti personali di nostro padre. Magari, qualcuno ci confortava, l’anno portato al Nord. Speravamo che l’intervento del Vaticano che avevamo sollecitato avesse avuto qualche effetto. Avemmo la certezza che il colonnello Montezemolo era morto nel peggiore dei modi alle fosse Ardeatine quando la mamma riconobbe alcuni effetti personali, tra cui la fede nuziale, raccolti alle Mantellate, nel luglio 1944, dopo la liberazione di Roma”.
Da allora è cominciata la meticolosa ricostruzione dei fatti, gli incontri che con la memoria rinnovavano il dolore. “In anni recenti, durante un dibattito a via Tasso mi è venuta incontro una signora, era Carla Capponi (la compagna di Rosario Bentivegna che partecipò all’attentato di via Rasella, ndr), mi raccontò che durante la Resistenza aveva incontrato mio padre che le aveva consegnato delle armi. Io la salutati, ma in maniera fredda. Forse ho sbagliato”.
L’ultimo ricordo di quella stagione terribile riguarda il capitato Eric Priebke, il collaboratore di Kappler e interprete delle SS che partecipò al massacro delle Ardeatine. “Arrestarlo in anni recenti – dice Adriana sorprendendoci – è stato un errore. Non l’ho conosciuto ma ho avuto con lui una corrispondenza epistolare attraverso il suo avvocato Paolo Giachini. Gli chiesi se avesse conosciuto mio padre. Mi rispose che non l’aveva mai incontrato. Strano, per uno che faceva l’interprete in via Tasso. Ma perché non dovrei credergli?”.
 
(Il Corriere della Sera,  23 marzo 2015)
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Vincere e vinceremo! - La recensione del Sole 24 Ore Domenica

LA BIBLIOTECA 

 

di Giorgio Dell'Arti 

 

Soldati di stanza in Africa 

 

Assalto. «Caro Mario, con ogni probabilità domani mattina all'alba si va all'assalto; se la va bene sarà una magnifica esperienza di vita, se la va male farò la morte più bella che un italiano di vent'anni oggi possa fare» (lettera al fratello del lombardo Cesare Tosi, caduto a vent'anni in Albania, il 20 gennaio 1941).

Lettere. Durante il primo anno di guerra, 9.285.000 lettere. 

Censura. Gli uomini impiegati a controllare la corrispondenza esaminavano mediamente 150-200 lettere al giorno. 

Tipologie. Le lettere potevano essere bollate come "ammesse in corso", "ammesse in corso dopo censura parziale", da "sequestrare", da "incriminare". 

Cretino. Scrive il capitano Luigi Guerrieri Gonzaga dell'artiglieria a cavallo il 21 febbraio 1942: «Mi secca molto che un cretino di censore abbia sporcacciato tutta una mia lettera per te; deve essere un gran fesso quel tale e gli farebbe bene un po' di Russia vorrei ritrovarlo quando rientreremo in Patria. lo sono sicuro di quanto scrivo; non metto mai nulla che possa anche lontanamente servire di indicazione o comunque essere "pericoloso"».

Familiari. I soldati, soliti rassicurare i propri familiari attraverso formule ricorrenti: «Sto bene», oppure «Non pensate a me» spesso accompagnate da invocazioni di tipo religioso. 

Mussolini. Dal 1941, «Mussolini non lo sa» o «se la sapesse Mussolini».

Negroidi. I «maledetti» inglesi, gli americani «negroidi» e «dediti al vizio», i russi «senza Dio», gli arabi «sporchi e rozzi». 

Inglesi. Gli inglesi, «i maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti», «soldati dai cinque pasti e dalla pancia troppo piena», «audaci fresconi che l'illusione ha voluto per un po' vittoriosi».

Tedeschi. Da una relazione del Comando generale dei Carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all'apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche».

Rapporto. Dalla lettera alla famiglia di un militare temano di stanza in Africa, datata 24 febbraio 1942, che di fronte alla richiesta di redigere un rapporto sul morale delle truppe, dopo aver lamentato che il partito chiede il pagamento della tessera anche ai militari richiamati e inviati al fronte, così si sfoga: «Vengano un po' a domandare ai nostri soldati ed avranno una risposta più che esauriente. È naturale che il rapporto non potrà che dire le solite cose; ma vengano pure tra i soldati e sentiranno. Posta che non arriva, pacchi che sono in giro da mesi e di cui non si ha notizia; se qualcuno ne arriva è ridotto al solo involucro; giornali che vengono distribuiti una volta al mese; un pasto al giorno, cotto al mattino alle io e mangiato alle 2 del pomeriggio. Tutto questo potrebbero rispondere i nostri soldati se venissero interrogati; ma siccome non lo saranno mai, tutto questo rimane sconosciuto e si parlerà soltanto dello spirito di sacrificio e del morale altissimo del soldato italiano». 

Guerra. «Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall'Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d'università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché credettero che l'avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra [...] Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l'Italia non è responsabile» (Gaetano Salvemini, Lettera a E. Rossi e L. Valiani, io agosto 1946). 

 

Notizie tratte da: Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, Il Mulino, Bologna, pagg. 376, euro  25,00.

 

(Il Sole 24 Ore, Domenica, 29 marzo 2015)

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