Storie - Gli ebrei e il Regno Sabaudo

di Mario Avagliano
 
La storia italiana è stata “sempre strettamente connessa con quella più specifica della sua bimillennaria componente ebraica”. Così Pia Jarach ha scritto nella prefazione al libro di Gianfranco Moscati “Gli ebrei sotto il Regno Sabaudo. Combattenti – Resistenza – Shoah” (editore Origrame), dal quale è nata una mostra itinerante che ora giunge a Roma, dove viene presentata domani 11 febbraio alle ore 17,00 presso la Camera dei Deputati (Complesso di Vicolo Valdina).
La mostra, che sarà aperta al pubblico dal 12 al 20 febbraio (ore 10-18, con ingresso a Piazza di Campo Marzio 42), illustra attraverso documenti ed immagini la partecipazione degli ebrei italiani alla vita nazionale nei 150 anni di regno sabaudo, dalle guerre risorgimentali fino alle leggi razziste del 1938, all’adesione alle bande partigiane e alla deportazione nei lager nazisti.
 
Viaggiando attraverso i preziosi frammenti di Memoria raccolti da Gianfranco Moscati, scopriamo così che tra i mille garibaldini sbarcati a Marsala ben sette erano ebrei. E c’erano diversi ebrei in tutte le guerre italiane, spesso partiti volontari per amor di patria: dalla guerra italo-turca del 1911 alla Grande Guerra, fino alla guerra di Etiopia e alla guerra di Spagna.
Solo alla Seconda guerra mondiale gli ebrei non parteciparono (salvo pochissime eccezioni, come il generale Umberto Pugliese del Genio Navale, richiamato in servizio nel 1941, essendo l’unico in grado di recuperare le corazzate italiane affondate dagli inglesi nel porto di Taranto), perché esclusi dall’esercito, come da ogni altro settore della società civile, a seguito dei provvedimenti razzisti.
E in quegli anni gli ebrei sono protagonisti anche dell’antifascismo (basti ricordare i fratelli Rosselli) e della Resistenza (il più giovane partigiano ucciso in combattimento fu l’ebreo Franco Cesana). Non poteva mancare un capitolo dedicato alla persecuzione degli ebrei e alla Shoah. La pagina più nera di quel secolo e mezzo, alla quale anche i Savoia e tanti altri italiani contribuirono.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 10 febbraio 2015)
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Storie - Il Giusto siciliano

di Mario Avagliano
 
Domani a Favara, in provincia di Agrigento, verrà ricordato Calogero Marrone, il deportato politico siciliano morto nel Lager di Dachau e dichiarato nel 2013 "Giusto tra le Nazioni". Il programma prevede alle ore 9, in Piazza della Pace, l’inaugurazione del Giardino della Memoria, con la piantumazione di un albero della vita e la scopertura di un’epigrafe, e alle ore 10, al castello Chiaramonte, un convegno sulla figura di Marrone, con la partecipazione tra gli altri del presidente dell'Istituto Siciliano di studi ebraici Maria Antonietta Ancona, della studiosa Lucia Vincenti, del presidente e del segretario dell'Anpi di Palermo Ottavio Terranova e Angelo Ficarra e di Daniela Marrone, una delle nipoti del Giusto.
 
Antifascista, classe 1889, Marrone era capo dell’Ufficio anagrafe del Comune di Varese e dopo l’8 settembre del 1943 entrò a far parte del gruppo partigiano "5 Giornate del San Martino". In quel periodo Varese, città di frontiera, divenne la meta di numerosi antifascisti ed ebrei, desiderosi di tentare il passaggio nella vicina e neutrale Svizzera, considerata la terra della salvezza. 
Marrone approfittò del suo incarico al Comune per rilasciare documenti d’identità falsi ad ebrei ed antifascisti, permettendo così loro di superare il confine e di salvarsi. Scoperto a causa di una delazione, venne arrestato il 7 gennaio 1944 da ufficiali della Guardia di Frontiera tedesca e, prima di essere deportato nel Reich, venne rinchiuso e torturato nelle carceri di Varese, Como e S. Vittore a Milano e nel campo di  concentramento di Bolzano. Morì nel Lager di Dachau il 15 febbraio del 1945, ufficialmente di tifo.
A Marrone avevano dedicato un libro, nel 2003, Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, Un eroe dimenticato (edizioni artirigere). Una curiosità: una delle nipoti del Giusto siciliano, Manuela, è la moglie dell’ex leader della Lega Umberto Bossi.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 17 marzo 2015)
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Testimonianze di storia ebraica fra Cremona e Mantova

di Mario Avagliano
 
Sulle tracce della presenza ebraica in Lombardia. L'Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, nell'ambito del progetto Rimon, percorsi ebraici in Lombardia, ha organizzato il ciclo di incontri "Testimonianze di storia ebraica fra Cremona e Mantova", dedicati alle vestigia ebraiche ancora presenti in quel territorio. 
L'obiettivo è di offrire una panoramica dei luoghi e dei nuclei urbani che hanno ospitato le comunità ebraiche dal XIV-XV secolo a oggi: edifici, monumenti, opere d'arte, oggetti e  reperti vari che documentano la cultura e la storia ebraica.
Il "viaggio" nella memoria sarà introdotto dal pomeriggio di studi del 31 marzo, organizzato in collaborazione con il Politecnico di Milano, Polo di Mantova, nel corso del quale sarà presentato il libro "Fra cultura, diritto e religione. Sinagoghe e cimiteri ebraici in Lombardia", a cura di Stefania T. Salvi (Corberi Sapori, 2013).
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 24 marzo 2015)

Storie - I volenterosi carnefici di Mussolini

di Mario Avagliano

Nei due anni tragici di Salò e dell’occupazione tedesca del centro nord dell’Italia, numerosi italiani si prestarono ad essere “volenterosi” carnefici dei loro connazionali ebrei. La retata a Venezia del 5 dicembre 1943, ad esempio, fu condotta da poliziotti, carabinieri e volontari del ricostituito partito fascista. E almeno la metà degli arresti degli ebrei poi deportati ad Auschwitz e in altri Lager fu opera di italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi.

A ricordarcelo, con un agile e documentato saggio pubblicato da Feltrinelli, è Simon Levis Sullam, professore di Storia Contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, in I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (pp. 150), il cui titolo rimanda volutamente a quello del saggio di Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", che ha riaperto la questione sulla responsabilità dei tedeschi (e non solo dei nazisti) nella Shoah.

Anche dopo l’armistizio, l’Italia non rimase “al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto” e accanto ai giusti e ai salvatori, vi furono purtroppo tanti persecutori. Nel libro, oltre che delle responsabilità degli apparati dello Stato e degli uomini di partito, ci si occupa fra l’altro del ruolo dei delatori, che non furono solo fascisti convinti ma anche semplici civili, quasi sempre per motivi di soldi. E perfino alcuni ebrei, come il triestino Mauro Grini, che tra Trieste, Venezia, Milano identificò e denunciò un migliaio di ebrei ("anche di più" - si vantava) dietro lauti pagamenti, e la romana Celeste Di Porto.

(L'Unione Informa e Moked.it del 24 febbraio 2015)

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Storie - il mio ricordo di Elio Toaff

di Mario Avagliano
 
Sulla straordinaria figura di Elio Toaff, ex partigiano, rabbino, intellettuale, uomo del dialogo interreligioso, si è scritto, a giusta ragione, molto in queste ore. Voglio citare un episodio che ho riportato nel mio libro “Di pura razza italiana”, relativo al periodo successivo alle leggi razziste del 1938.
Nel suo libro di memorie (Perfidi giudei fratelli maggiori, Mondadori) Toaff ha raccontato che nell’anno accademico 1938-39 all’università di Pisa, alla quale era iscritto, si recò ben poco perché il «viaggio Livorno-Pisa e viceversa era diventato una specie di calvario per gli studenti di razza ebraica, esposti al dileggio e al disprezzo – qualche volta anche alla violenza – degli studenti fascisti».
In una successiva intervista del 2006, Toaff ha ricordato che una volta, durante il viaggio di andata, «alcuni giovani fascisti mi avevano fermato, mi avevano fatto distendere in uno scompartimento, mi avevano spogliato e avevano scritto delle frasi ingiuriose sulla mia pancia».
Al ritorno a casa, su consiglio del professore di diritto commerciale Lorenzo Mossa (l’unico che in quel clima aveva avuto il coraggio di assegnargli la tesi), Toaff scattò una fotografia di quelle frasi, a futura memoria. Una fotografia che, rivelò nell’intervista, conservava tuttora. 
Forse è ancora lì tra le sue carte. A testimoniare l’Italia razzista del 1938 e il coraggio di un ragazzo ebreo che non si piegò mai alla violenza.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 21 aprile 2015)
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La storia dell'eroismo ebraico. Il diritto di liberare i propri fratelli e di combattere l'islamofascismo

Intervista a Mario Avagliano sulla storia della Brigata Ebraica

a cura di Leonardo Rossi

Come e perché nasce l'idea di costituire una Brigata Ebraica? 
Già dopo l'invasione tedesca della Polonia, nel settembre del 1939 l'Agenzia Ebraica offrì l'appoggio della comunità ebraica di Erez Israel allo sforzo bellico degli Alleati e propose di dare vita, come già avvenuto durante la Grande Guerra, a una forza armata ebraica che partecipasse al conflitto contro l’odiato Hitler, che perseguitava da anni gli ebrei in Europa. Londra respinse a lungo la proposta, temendo da un lato la reazione degli arabi e dall’altro che questo significasse un lasciapassare al processo di costituzione di uno Stato ebraico. Ai  volontari arabi ed ebrei fu consentito solo di entrare nelle varie unità dell'esercito inglese.  Ma alla fine, dopo sei anni di negoziazione, la campagna ebraica per un esercito nazionale, alimentata da personaggi come Vladimir Jabotinsky, uno dei fondatori della Legione ebraica dell’esercito britannico durante la Grande Guerra, Chaim Weizmann, leader del Movimento Sionista, e Benzion Netanyahu, padre dell’attuale premier di Israele, e appoggiata anche oltreoceano, ad esempio da molte stelle di Hollywood e di Broadway, ebbe finalmente successo. Fu Winston Churchill, subentrato a Neville Chamberlain alla guida del governo, a dare il via libera nel settembre del 1944, d'accordo col Presidente americano Roosevelt, alla creazione della Brigata Ebraica, esprimendo il suo favore all'idea che gli ebrei potessero combattere “contro gli assassini dei loro connazionali in Europa”.
Quando la Brigata viene fatta arrivare a Taranto, per cominciare la risalita, gli italiani come hanno reagito a una presenza militare così ben identificabile? In fondo, non si sostiene la tesi che gli italiani fossero antisemiti?
In realtà già a partire dall’agosto del 1943 piccole unità o compagnie di soldati ebrei parteciparono alla campagna d’Italia. Ad esempio ci fu una compagnia che sbarcò a Salerno e poi aiutò la popolazione napoletana e gli ebrei della città. E un’altra compagnia, arrivata a Taranto nel novembre del '43, realizzò finte strutture militari per ingannare i comandi tedeschi. Quanto alla Brigata Ebraica, era costituita da tre battaglioni, per un totale di circa 5.500 volontari ebrei provenienti dalla Palestina, allora sotto Mandato britannico, guidati dal generale Ernest Benjamin, ebreo di cittadinanza canadese. La Brigata si addestrò in Egitto, venne inquadrata nell’Ottava Armata e a novembre del 1944 fu destinata al fronte italiano, con un’insegna di battaglia particolare: una stella di David color oro su sfondo a strisce bianche e azzurre. La stessa bandiera che poi venne adottata dallo Stato di Israele. La notizia della costituzione di una unità combattente ebraica suscitò una reazione abbastanza stizzita da parte della propaganda tedesca e di quella della Repubblica di Salò. Le radio tedesche criticavano Churchill per aver permesso "ai giudei di avventarsi come cani idrofobi contro il popolo germanico”, parlando addirittura di “sanguinaria brigata giudaica". Nel nostro Paese, però, dopo la caduta del fascismo gli italiani avevano aperto gli occhi. E in pianura padana i nostri soldati combatterono fianco a fianco con quelli della Brigata Ebraica contro nazisti e fascisti di Salò. 
La Brigata si è distinta in importanti azioni militari, come lo sfondamento della Linea Gotica nella Vallata del Senio, come mai la sua memoria si è così affievolita fino a scomparire?
Il battesimo del fuoco della Brigata Ebraica avvenne in Romagna, con la partecipazione alle operazioni militari alleate per forzare il fronte del Senio, che le procurarono più di 40 vittime fra morti e dispersi, 150 feriti e 21 decorati al valore sul campo. Ai primi di marzo del 1945 la Brigata ebbe il compito di controllare il fronte a nord di Ravenna e poi  il 27 marzo fu trasferita nel settore di Riolo dei Bagni, dove assieme al Gruppo di Combattimento Friuli del ricostituito esercito italiano liberò la cittadina termale. Non fu la sola città liberata dai soldati ebrei, che intervennero anche a Cuffiano, Riolo Terme, Ossano, Monte Ghebbio, La Serra, Imola.
Ci sono anche lati oscuri della loro attività in Italia. Come la decisione di avviare un vero e proprio ufficio di aiuto per l'emigrazione ebraica a Milano, in via Cantù 5. Le forze italiane sapevano di questo esodo organizzato?
Non parlerei di lati oscuri. L’attività delle compagnie militari ebraiche e poi della Brigata Ebraica di aiuto agli ebrei che intendevano recarsi in Israele era nota ed era svolta alla luce del sole. Proprio allo scopo di coordinare l'opera di soccorso ai profughi ebrei che stavano affluendo nell'Italia meridionale, venne costituito a Bari un "Centro profughi", poi trasferito a giugno del 1944 a Roma, a seguito della liberazione della capitale. Man mano che gli alleati risalivano la penisola, altri centri profughi furono istituiti in varie altre città, come Ancona, Ravenna, Firenze, Arezzo, Siena e nella primavera-estate del 1945 in varie città dell'Italia settentrionale, come Milano. L’obiettivo era quello di recuperare i sopravvissuti alla Shoah e addestrare in appositi centri di preparazione professionale chi era interessato a "salire" in Israele. Fu importante anche l'attività dei militari ebrei nell'opera di ricostruzione morale e materiale delle comunità ebraiche delle città liberate. Dopo la persecuzione fascista e la caccia all’uomo da parte dei nazisti e della polizia di Salò, per gli ebrei italiani l'incontro con soldati con il simbolo ebraico della stella di David, fu davvero emozionante. Nell’estate del 1945, infine, le unità della Brigata Ebraica presidiarono il confine con l’Austria, proprio per facilitare il transito dei sopravvissuti dell'Olocausto verso la Palestina. In seguito molti veterani della Brigata diventarono membri attivi nel "Bricha", il movimento clandestino che permise l’immigrazione di migliaia di profughi ebrei in Israele, e poi parteciparono alla guerra del 1948 che portò alla fondazione del nuovo Stato.
Adesso, a Roma è esplosa la polemica per il rifiuto da parte dell'Aned e della Brigata Ebraica di partecipare alla manifestazione in Campidoglio accanto alle bandiere palestinesi. A loro avviso, erano alleati dei nazisti. 
Credo che il problema sia più generale. La manifestazione del 25 aprile riguarda un evento cruciale della nostra storia: la liberazione del nostro Paese dal nazismo e dal fascismo e il ritorno della libertà e della democrazia. L’unica bandiera che dovrebbe sventolare in piazza e nei cortei è quindi quella italiana, tutt’al più assieme a quella delle formazioni partigiane e di chi contribuì alla guerra di liberazione. Fatta questa premessa, a “rigor” di storia non c’è dubbio che, come per primo capì il compianto presidente dell’Anpi Massimo Rendina, la Brigata Ebraica è pienamente legittimata a partecipare alla celebrazione con i suoi vessilli, le bandiere palestinesi invece non c’entrano niente. Ci sono altre occasioni per manifestare la vicinanza o meno alla causa palestinese. 
Vogliamo dire qualche parola sulla “amicizia” palestinese durante la II Guerra Mondiale, da che parte stavano loro? Chi era il Gran Muftì di Gerusalemme e che relazione aveva con Adolf Hitler?
Muhammad Amīn al-Husaynī, che all’epoca era Gran Muftī di Gerusalemme, è stato uno dei principali leader nazionalisti arabi e forse il più feroce e determinato oppositore del progetto di nascita di uno Stato ebraico in Palestina, sostenendo al contrario la creazione di uno Stato islamico. Fu questo il motivo che lo spinse ad allearsi a doppio filo con la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini, collaborando con le forze dell’Asse durante la seconda guerra mondiale, con attività di propaganda e di sabotaggio e l’arruolamento di una divisione di militanti islamici bosniaci nelle formazioni delle SS, in funzione antiebraica. Amīn al-Husaynī condivideva il progetto di Hitler dello sterminio finale degli ebrei e dal 1941 si trasferì a Berlino, dove rimase fino alla fine della guerra. Ormai la storiografia ha accertato, sulla base di una grande quantità di documenti e di carteggi, che il movimento di Amīn al-Husaynī e i vertici del nazismo erano collegati e lavorarono di comune accordo contro la comunità israelitica internazionale e le democrazie occidentali.
Perché l'islamismo si è legato a doppio filo con il nazismo? E come mai buona parte dei gerarchi scampati alle vendette sono scappati in paesi arabi a trazione Baathista. C'è un collegamento di fondo tra baathismo e nazismo?
Sarebbe sbagliato generalizzare. L’Islam non è un monolite indistinto e ci sono anche componenti del mondo islamico moderate e democratiche. Inoltre molti gerarchi nazisti, oltre che nei paesi arabi, fuggirono anche in Usa (vedi il caso degli scienziati) e nell’America del Sud. Fatto sta, però, che il Mein Kampf di Adolf Hitler tra molti islamici è tuttora un best seller. Ed è anche vero che il baathismo siro-iracheno, fondato nel 1943 a Damasco, si ispirò al nazionalsocialismo.
Solamente nel 1998 l'OLP ha tolto dalla sua carta fondativa gli articoli sulla distruzione dello Stato di Israele, ma non Hamas. C'è un fondo di verità storica nella decisione della Brigata ebraica di non voler sfilare accanto ai palestinesi?
Questo è un discorso diverso. Lo ribadisco: la Brigata Ebraica partecipò alla guerra di liberazione ed è giusto che sia in piazza con i suoi vessilli il 25 aprile. Molti palestinesi e arabi, invece, in quegli anni oscuri, si schierarono dalla parte dei nazisti. Punto. Al di là del giudizio che si può avere su Hamas, e il mio è certamente negativo, riproporre la questione del Medio Oriente in funzione o in riferimento alla festa della liberazione, sarebbe un grave errore.

(Il Giornale dell'Umbria, 24 aprile 2015)

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