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Einstein e la "colpa" del cugino italiano

di Mario Avagliano

  La “colpa” di chiamarsi Einstein. Aveva un cognome scomodo l’ingegner Robert, cugino dello scienziato Albert Einstein. Quando nella torrida estate del 1944, con gli Alleati alle porte di Firenze, i nazisti scoprirono che si nascondeva con la famiglia in una villa a Rignano sull’Arno, il paese di Matteo Renzi, mandarono una squadra a prelevarlo.
  Volevano vendicarsi del suo odiatissimo parente, l’ebreo tedesco premio Nobel per la Fisica che, trasferitosi negli Stati Uniti, nel 1939 aveva osato firmare una lettera appello al presidente americano Roosevelt per sviluppare gli studi sull’energia nucleare ed evitare che Hitler varasse per primo la bomba atomica.
  Era la notte del 3 agosto e, come racconta il giornalista Camillo Arcuri nel suo libro “Il sangue degli Einstein italiani” (Mursia, pp. 164), per sicurezza l’ingegner Robert si era rifugiato nel vicino bosco. Nella villa erano rimaste sette donne: la moglie Cesarina Mazzetti, detta Nina, 56 anni, figlia di un pastore protestante, e le figlie Luce e Annamaria, di 26 e 18 anni, tutte e tre valdesi, e quindi di “razza ariana”, assieme ad altre quattro parenti che vivevano con loro.
  I tedeschi arrivarono di soppiatto. Non trovando Einstein, condussero la moglie Nina fuori di casa, costringendola a chiamare il marito per farlo uscire allo scoperto. Robert avrebbe voluto consegnarsi, ma gli altri fuggitivi lo trattennero. Così i nazisti uccisero a colpi di mitra la moglie e le figlie, dando a fuoco la villa. Una strage.
  Il parroco, forse per timore di ritorsioni, non volle benedire i corpi delle vittime. Il mattino dopo Robert uscì dal bosco fuori di sé. Vagava per strada, urlando: “Sono io Einstein, uccidete me”. Non si riprese mai dal dolore. Un anno dopo, il 13 luglio del 1945, giorno dell’anniversario del matrimonio con Nina, a guerra ormai finita da oltre due mesi, si suicidò. La sua vicenda colpì molto anche Albert, che era legato al cugino da tenero affetto.
  Ma la tragedia degli Einstein italiani, come ha ricostruito Camillo Arcuri, non era terminata. Per ragioni di realpolitik – la guerra fredda in atto in Europa e la volontà dell’Occidente di non infierire sula Germania – l’Italia insabbiò i risultati dell’inchiesta alleata sull’eccidio, come attesta il carteggio desecretato tra il ministro degli Esteri di allora, Gaetano Martino, e il ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani: “Le prove raccolte già a partire dall’autunno 1944 dalle autorità militari americane e inglesi – si legge nella corrispondenza – non sono state prese in considerazione dalle Autorità di Roma per un riguardo politico nei confronti della Germania”, che era entrata nella Nato.
  E così le carte dell’inchiesta sulla strage di Rignano sull’Arno finirono tra i 695 fascicoli riguardanti le stragi nazifasciste nell'Italia del 1943-1945, occultati nel cosiddetto armadio della vergogna, scoperto nel 1994 in un locale di Palazzo Cesi presso la sede della procura generale militare a Roma. Sulla morte degli Einstein italiani era calato un colpevole silenzio. Nei confronti del quale il libro di Arcuri costituisce un formidabile atto di accusa.

(Il Mattino, 23 settembre 2015)

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