La Grande Guerra. Storie dal cuore d’Italia

di Mario Avagliano

Anche la Grande Guerra ha avuto il suo selfie. Lo scatto è datato 12 luglio del 1916, quando in una Trento ancora austriaca, il boia si fece ritrarre sorridente, circondato da sei o sette militari e civili, mentre esibiva in pubblico il corpo di Cesare Battisti, condannato a morte per “alto tradimento” in un processo farsa, in quanto colpevole di essersi comportato da italiano fra gli austriaci. Otto minuti di agonia, ucciso mediante strangolamento nella Fossa della Cervara, sul retro del Castello del Buonconsiglio, stringendo lentamente la corda attorno al suo collo.
Josef Lang, l’aguzzino coi baffi e il cappello a bombetta venuto apposta da Vienna per la macabra esecuzione, dovette compiere due volte l’atto, perché la prima il cappio si spezzò. Ma il previdente boia aveva portato una seconda corda in valigia. Terminato il suo lavoro, si prestò volentieri ad un autoscatto che avrebbe danneggiato l’immagine dell’Austria agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Annotò, caustico, lo scrittore austriaco Karl Kraus: “Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo messi anche in posa”.
Oggi l’imponente mausoleo dedicato al martirio di Battisti, opera dell’architetto veronese Ettore Fagiuoli, che si ispirò alla tomba parigina di Napoleone a Les Invalides, è semi-abbandonato. Mancano le indicazioni stradali e l’erba attorno al monumento è alta.
È una delle tredici storie raccontate da Federico Guiglia nel libro “Dov’è la vittoria”, una sorta di diario di viaggio nel tempo tra i monumenti della Grande Guerra, che copre tutta l’Italia, da Bolzano a Giardini Naxos, ed esce in occasione del centenario dell’inizio del conflitto per il nostro Paese (24 maggio 1915).
Uno dei monumenti più suggestivi è il Sacrario Militare di Fogliano Redipuglia, in provincia di Gorizia, il memoriale più grande d’Italia e tra i maggiori al mondo, dove riposano le spoglie di centomila giovani vittime della prima guerra mondiale, di cui quarantamila identificati e gli altri ignoti. Una curiosità sul nome: non c’entra né il re né la Puglia, è un termine che deriva dallo sloveno e significa “terra di mezzo”.
“Impossibile restare insensibili nel leggere così tanti nomi in fila uno dopo l’altro, sotto la scritta ‘presente’, grande e ripetuta una, due, decine di volte”, annota Guiglia. Centomila storie di solitudine che toccano nord, centro e sud d’Italia, senza distinzioni.
Visto dall’alto il sacrario, dove è salito anche Papa Francesco rivolgendo il suo appello al “mai più guerra”, evoca la tastiera di un pianoforte. Fu voluto da Benito Mussolini e dal suo regime, progettato dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni e inaugurato il 18 settembre 1938.
Tra i tanti soldati sepolti, l’unica donna è una crocerossina, Margherita Kaiser Parodi Orlando, medaglia di bronzo al valor militare. È nella prima fila e ha una croce che ne sovrasta l’identità sulla lapide. Mentre bombardavano, Margherita non abbandonò l’ospedale mobile in cui operava. Fece valere il coraggio della carità. Morì a ventun anni per febbre spagnola nell’immediato dopoguerra.
Qui giace anche la salma di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, comandante della Terza Armata. “Il duca invitto”, era stato ribattezzato per non aver perso una battaglia. Morì nel 1931 e chiese l’onore d’essere seppellito a Redipuglia tra i soldati noti e ignoti. “Sarò con essi – scrisse nel suo testamento – vigile e sicura scolta alle frontiere d’Italia, al cospetto di quel Carso che vide epiche gesta ed innumeri sacrifici, vicino a quel mare che accolse le salme dei marinai d’Italia”.
Tra i tanti monumenti, non poteva mancare il Vittoriano di Piazza Venezia, conosciuto anche come l’Altare della Patria, una delle più grandi opere dell’Ottocento, progettata dal grande architetto Giuseppe Sacconi e costruita per il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Un cantiere dalla durata lunghissima: la prima pietra fu posta nel 1885, l’ultima cinquant’anni dopo, nel 1935. Nel frattempo, nel 1921, presso il monumento era stata sepolta la salma del Milite ignoto.
Negli anni Settanta l’Altare della Patria fu oggetto di una violenta polemica, di carattere ideologico, e venne appellato in vari modi pur di ridicolizzarlo: “macchina per scrivere”, “torta nuziale”, “panettone”. Disconoscendone il valore architettonico e artistico e considerandolo, a torto, un simbolo del fascismo invece che del Risorgimento.
Fu il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a riscoprirlo e a far riaprire al pubblico il Vittoriano il 20 settembre 2000, anniversario di Porta PIa. Veniva così riconsegnato ai romani un grande monumento coi suoi 17 mila metri quadrati di superficie e 81 metri d’altezza. Con le sue statue e sculture, le sue decorazioni, i suoi musei. E i valori incisi sul marmo: l’unità della nazione che equivale alla libertà dei cittadini. “Una piccola città di memorie civili – chiosa Guiglia – dentro la grande Città eterna, un perfetto crocevia di Roma, che vuol dire amor all’incontrario”.

(Il Messaggero, 24 maggio 2015)

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