Gli ebrei e Napoli un legame iniziato duemila anni fa

di Mario Avagliano

«Tu che vieni d’oltralpe a visitar l’Italia meridionale e Napoli, non limitarti al Museo Nazionale, a Pompei, ecc… le tracce del Ghetto di una volta sono ancora visibili. Il fuoco del Rinascimento giudaico, spento in Spagna, venne qui destato a nuova vita, qui venne stampato il primo libro in ebraico, qui visse e operò l’eminente personalità della vita spirituale ebraica, Don Jsak Abrabanel, qui la sua preziosa biblioteca divenne preda dei ladroni».

Così scriveva nel 1939 Ernst Munkácsi, ebreo svizzero, in un libro ormai introvabile, pubblicato a Zurigo col titolo, Der Jude von Neapel (L’Ebreo di Napoli). I monumenti storici e di storia dell’arte dell’ebraismo dell’Italia meridionale (Ed. “Die Liga”), di cui una copia fa parte della straordinaria collezione sull’ebraismo dello svizzero-napoletano Gianfranco Moscati, scomparso l’anno scorso, che ha fatto tradurre l’originale testo in tedesco dalla professoressa Fanny Dessau Steindler.

Il testo di Munkácsi, curiosamente pubblicato nel 1939 (primo anno di applicazione in Italia delle famigerate leggi razziali) costituisce un documento storico e un vademecum ancora oggi eccezionale sulle testimonianze architettoniche ebraiche presenti nella città più importante del Mezzogiorno italiano. Oltre che un implicito invito, anche ai contemporanei, a valorizzarle. All’epoca del viaggio di Munkácsi la comunità ebraica a Napoli contava circa un migliaio di unità, che si ridussero a poco più di 500 dopo il secondo conflitto mondiale, fino alle attuali 160.

La comunità ebraica di Napoli è tra le più antiche d’Italia. I primi insediamenti di ebrei nella città partenopea risalirebbero addirittura al I secolo d.C. Un’interessante lavoro di ricerca di Giancarlo Lacerenza, docente di lingua e letteratura ebraica all’Istituto Orientale di Napoli, dal titolo I quartieri ebraici di Napoli (Libreria Dante & Descartes, 2006), ha tracciato la storia della presenza in questa città degli ebrei, dislocati in particolare nel Vicus Iudaeorum all’Anticaglia, sull’altura di Monterone o di San Marcellino, e nelle zone di Forcella e di Portanova.

A darci ulteriori elementi contribuisce la cronaca di viaggio di Munkácsi, che ripercorre la storia degli ebrei nel cuore di Napoli.  «Da ricerche laboriose nelle biblioteche – scrive lo svizzero – si ricava che nel X sec. nella vicinanza del monastero di San Marcellino vivessero degli ebrei e si trovasse la loro casa di preghiera, cioè tra il Rettifilo e l’Università, nel Vico Duodecim Putea o Spoliamorte, che fu anche chiamato Vicus Iudeorum. Il vicoletto, esistente ancora oggi vicino a Donna Regina, quale vicolo Limoncello, proviene anch’esso da quell’epoca».

In effetti il Vicus Iudaeorum, nominato la prima volta in un documento del 1002, era un cardine dell’antica Neapolis. Esso collegava il decumano superiore alle mura settentrionali in prossimità di Porta San Gennaro. Lo studio di Lacerenza ipotizza che qui molto probabilmente sorgeva una sinagoga e potrebbero esservi stati ebrei già in età romana o tardoromana.

Il racconto di Munkácsi prosegue così: «Nel sec. XII sappiamo già di tre insediamenti di ebrei. Oltre al Vicus Iudeorum essi abitavano accanto alla Chiesa S. Maria Portanova, nelle cui vicinanze un documento menziona nel 1165 una Schola Hebreorum. La piazza davanti si chiamava fino alla fine dell’epoca sveva Piazza Sinoca, che potrebbe essere l’abbreviazione di sinagoga. Un altro documento menziona nel 1329 un Vico Sacannagiudei, che secondo alcuni potrebbe essere l’attuale vicolo Pace. Questo vicoletto si trova nelle immediate vicinanze della stazione, alla sinistra del Rettifilo, dietro il Duomo, nel cosiddetto quartiere Forcella».

Verso la fine del XV secolo gli ebrei si trasferirono nelle vicinanze di S. Maria Portanova, insediandosi in quattro vicoli denominati «Giudecca Grande, Giudecca Piccola, Vico Sinocia e Fondaco Giudeca». Inoltre «si costituì un altro quartiere ebraico vicino alla riva del mare che venne chiamato Giudichella del Porto».

Il tour di Munkácsi parte dalla visita della Giudecca di Portanova, che fu la più importante ed estesa delle giudecche napoletane. Gli ebrei vi impiantarono fin dal periodo svevo diverse attività connesse alla lavorazione ed al commercio dei tessuti.

«Se andiamo sul Rettifilo in direzione di Piazza Municipio e a destra dell’Università e della Borsa in un vicoletto, – scrive nel suo libro – arriviamo ad una piazzetta: la Piazza Portanova. A oriente di questa piazzetta si trova la chiesa S. Maria Portanova con la sua facciata barocca, nelle cui vicinanze si svolse la vita degli ebrei napoletani nel Medio Evo. Essa rimase dopo la loro cacciata la Chiesa dei Battezzati. L’esterno della Chiesa fa un’impressione decisamente barocca, ma di sotto si scoprono forme romaniche (…) La chiesa S. Maria Portanova non è soltanto una testimonianza in pietra di un antico quartiere giudeo, nel suo archivio si trovano documenti preziosi, che illustrano la topografia di questo insediamento. Specialmente il ‘libro dei morti’ offre alcuni dati in proposito. Da esso apprendiamo, che ancora nei secoli 17° e 18°, dunque secoli dopo la cacciata degli ebrei, i viali dei dintorni conservavano il loro ricordo. Troviamo così le seguenti denominazioni: Via Nova della Judeccha, Via Nova della Giodeca Grande, Anticaglia della Giodeca, Via S. Biase della Giodeca, Fundico di Portanova alla Giodeca, Giodeca della Salaria etc.»

Anche dell’antico quartiere ebraico di S. Maria Portanova sono rimaste tracce, continua la cronaca di Munkácsi. «Alcuni passi nei vicoletti che si snodano accanto alla chiesa e ci troviamo in pieno Medio Evo. File di case alte e strette, tipiche stradette del Ghetto, senza aria né luce, mura che si sgretolano, mura che cadono a pezzi (…) A pochi passi dal duomo si trova la Anticaglia (la stradina dei robivecchi), larga appena due metri, con case costruite a diritto e a sghimbescio come nel Medio Evo, e i resti della cinta di una fortezza. Accanto entriamo nel vicolo Limoncello, che una volta si chiamava Vicus Iudeaeorum, e dove per secoli c’era il mercato dei vestiti usati, un commercio, che come a Roma, era considerato tipico degli ebrei».

Nel suo tour Munkácsi individua tracce della presenza ebraica anche nelle vicinanze di Castel Capuano e di via dei Tribunali. «I dintorni di questo Castel Capuano avevano nel Medio Evo il nome di ‘Regione Forcella’ e, quanto dicono le fonti dell’epoca, vi si trovavano nel sec. XIV vicoli di ebrei. E guarda: miracolo! Questi si sono conservati fino ad oggi. Un vicolo laterale della via Tribunali è il vicolo Pace, una sede spesso menzionata degli ebrei medievali. Più volte vi sono passato. Case di cinque-sei piani, con scale, cortili e cortiletti pittoreschi (…) Il vicolo Pace sbocca in una viuzza più larga, direi moderna, il cui nome testimonia che gli ebrei vi hanno vissuto a lungo. È la via Giudecca. In questo vicolo le case vecchie hanno ceduto il posto a case nuove, ma il nome ha conservato la vecchia tradizione».

Dall’altra parte del Rettifilo, il cronista svizzero trova i resti della Giudichella di Porto. «Anche qui – osserva – quasi tutto è caduto per opera del piccone e qui è rimasto un vicoletto antico. All’incrocio c’è una Piazza ‘Largo Mandracchio’. Mandracchio non è che la forma napoletanizzata della parola ebraica ‘midrash’, casa di studio. Sembra che qui sorgesse l’antico ‘betìhamidrash’. Il ricordo della casa di studio degli ebrei cacciati sopravvive ancor oggi, dopo 400 anni, in una denominazione stradale a Napoli! Sentivo la forza della storia! Questa semplice targa stradale, il cui significato oggi più nessuno capisce, risveglia immagini, date e insegnamenti! Non basta saperne, dobbiamo andare sul luogo, perché il ‘genius loci’ ci riempia, ci insegni e ci entusiasmi».

La scoperta che più appassiona Munkácsi è però quella della Sinagoga che ospitò Jsak Abrabanel, il famoso pensatore, politico e filosofo, autore di importanti testi di commento alla Bibbia e padre di Leone Ebreo, desunta da una carta topografica del 1775 del principe Noja, conservata nell’Archivio di Stato della città. Alla fine del XV e al principio del XVI secolo il luogo di culto ebraico era locato nell’edificio che poi ospiterà la chiesa S. Caterina Spinacorona, in piazza Calara, non lontano dalla Giudecca di Portanova. Una individuazione che, peraltro, viene confermata anche dallo studio del professor Lacerenza.

Nel 1939, nonostante i rimaneggiamenti di epoca barocca «per togliere i caratteri di sinagoga», le tracce dell’antica destinazione sono ancora presenti. «Il cornicione della porta esterna di marmo – osserva Munkácsi – ha un carattere tipico rinascimentale, che non lascia dubbi, che essa rappresenti l’antica porta, anzi l’unica conservata dell’epoca sinagogale dell’edificio. (…) Tra la porta della parte anteriore e il vero e proprio ingresso sorgeva un’anticamera, come era l’uso nelle case di preghiera del tempo e come lo troviamo nelle ‘schole’ veneziane e di Padova nel tempo».

La sinagoga napoletana «aveva originariamente forma quadrata, davanti alla parete orientale con una piccola cupola. Alle tre pareti est, ovest e nord si estendeva la galleria del matroneo». Una caratteristica distingueva la sinagoga di Napoli da quelle dell’Italia centro-settentrionale: «l’ingresso si trovava direttamente dalla strada, come abbiamo osservato nella Chiesa di S. Anna di Trani, ma mai a Roma o nell’Italia del Nord. Sembra dunque che gli ebrei dell’Italia meridionale si sentissero più sicuri che i loro correligionari nel Nord».

Non era così. Nel 1541 Carlo V espulse gli ebrei dal regno di Napoli (vi ritorneranno solo due secoli dopo, richiamati dai Borbone). L’emozione per Munkácsi è forte. «Mi sedetti su una poltroncina di vimini e mi guardai attorno. Dunque questa era la sinagoga dei napoletani! Qui pregò Isacco Abrabanel! Qui si riunirono quella triste sera di autunno, prima di lasciare la loro patria e prender commiato dalla loro terra, in cui i loro padri avevano abitato dal tempo della distruzione del Santuario. E un quadro sorge dianzi a me, quando nel VI sec. gli ebrei difesero la città contro le orde di Belisario e fecero scorrere sangue per il mantenimento del dominio dei Germani. Tutto questo non servì a nulla. Invano essi erano i primi abitanti, invano avevano sacrificato alla città i beni e il sangue; nell’anno 1541 dovettero lasciare con i loro beni la loro terra, divenuta loro matrigna».

Parole scritte nel 1939, mentre in Italia e anche a Napoli il regime guidato da Benito Mussolini iniziava a perseguitare gli ebrei. Parole che suonavano come un ammonimento a non ripetere gli errori della storia. Un ammonimento che l’Italia fascista e dei Savoia avrebbe bellamente ignorato.

(una versione più sintetica è stata pubblicata su "Il Mattino" del 21 dicembre 2019)

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Gli ebrei italiani e quel 16 ottobre

di Mario Avagliano

Il 16 ottobre è la vera “giornata della memoria” per gli ebrei italiani. Quel tragico sabato di ottobre del 1943 vennero rastrellati nel Ghetto di Roma 1259 ebrei. Le SS di Kappler li andarono a prelevare casa per casa. Due giorni dopo 1023 di essi furono deportati nel lager di Auschwitz (compreso un bambino nato dopo l’arresto della madre). Solo 17 sopravvissero. Fu la prima e la più imponente retata dei tedeschi in Italia nei confronti degli ebrei, messa in atto con il silenzio (e la complicità) delle autorità italiane della neonata Repubblica Sociale guidata da Benito Mussolini, e segnò l’inizio di una fase ancora più violenta della persecuzione razziale nel nostro Paese.

A distanza di 56 anni, l’Italia non ha ancora fatto i conti con questo lato oscuro della sua storia. La persecuzione degli ebrei del 1938-45 è stata vista e giudicata dai più come un fatto estemporaneo, quasi un corpo estraneo, indotto dall’esterno (Hitler) nelle nostre vicende nazionali.

La verità dei fatti fu ben diversa: a partire delle infauste leggi razziali del 1938 il governo di allora e gli italiani (che, pur nell’ambito della dittatura, espressero un vasto consenso di massa al fascismo e alle sue politiche, anche di discriminazione) intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei, sia pure nel quadro di un avvicinamento politico-militare oltre che ideologico con la Germania nazista, e la perseguirono con sistematicità, determinazione e - purtroppo - efficacia.

Il prezzo pagato dagli ebrei in Italia fu altissimo. E se la persecuzione delle vite umane tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 fa parte della storia più generale della Shoah (secondo gli studi di Liliana Picciotto provocò la morte di almeno 7.241 ebrei, pari a oltre il 22% della popolazione ebraica italiana), la persecuzione dei diritti subita dagli ebrei tra il 1937-38 e il 1943, costituita di umiliazioni, separazione dagli altri, segregazione, perdita di uguaglianza, cacciata dalle scuole e dai posti di lavoro, razzia di beni e proprietà, sofferenze e suicidi, resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere.

Il sistema persecutorio italiano fu il più articolato d’Europa dopo quello tedesco e in quegli anni alcune misure furono addirittura più gravose e vessatorie di quelle attuate dai nazisti. L’apparato amministrativo e burocratico statale si impegnò a fondo e con accanimento nell’applicare le leggi razziali. E così migliaia di professori, maestri, studenti, dipendenti pubblici, militari, impiegati privati, professionisti, da un giorno all’altro furono espulsi dalle scuole, dalle università, dagli uffici pubblici, dalle aziende, dalle forze armate, per il semplice fatto di essere ebrei.

Ma la responsabilità dell’Italia non riguarda solo le leggi razziali e la persecuzioni dei diritti. L’Ordine di Polizia della RSI numero 5, emanato il 30 novembre 1943 e trasmesso il giorno seguente alla radio, annunciò che tutti gli ebrei – «a qualunque nazionalità appartengano» - sarebbero stati arrestati e inviati ai campi di concentramento, fatta eccezione per quelli gravemente malati o di età superiore ai settant’anni. Di conseguenza, la maggior parte degli ebrei che poi trovarono la morte nei lager nazisti, come ha rilevato Michele Sarfatti, fu arrestata dalle autorità italiane e consegnata ai tedeschi. Alcune prefetture e comandi – ha scritto Renzo De Felice – ci misero «uno zelo veramente incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di violenza, di rapacità». Tutto l’apparato burocratico italiano fu coinvolto. La «caccia» durò fino alla fine: il 25 aprile 1945, un gruppo di militi fascisti in fuga verso la Francia, si fermò a Cuneo per prelevare sei ebrei stranieri e ucciderli, gettando i loro corpi sotto un ponte. Come dimenticare questo capitolo della nostra storia?

 

(E Polis, 17 ottobre  2009)

 

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'1938. Diversi': ecco il documentario sulle leggi razziste contro gli ebrei

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2018, a pag. 32, con il titolo "Quando l’Italia capì di essere razzista", la recensione di Natalia Aspesi.

Prima fuori concorso alla Mostra, poi su Sky Arte, "1938. Diversi" il film di Levi e Treves per non dimenticare la vergogna di quei tragici eventi Quell’anno, il 1938, segnò il tempo del massimo consenso per il Duce: chi si aspettava da lui il riscatto, il predominio, la felicità, riempiva le piazze, persino più dei salviniani di oggi. La minoranza altra si occultava, spaventata, colpevolizzata, ridicolizzata ancor più di adesso, e allora in pericolo di vita. In un clima di tale asservimento entusiasta, bastarono cinque mesi, da luglio a novembre, per dividere gli italiani di serie A di "razza ariana" (in realtà molto miscelata), da quelli di serie B, perché di "razza ebraica". «Sono impressionanti le immagini di Benito Mussolini che nella Trieste del 18 settembre (in agosto era stato pubblicato il "manifesto della razza", ndr) raggiunge il palco da cui instaura l’antisemitismo come un fondamento dell’ideologia di regime».

Lo dice Sergio Luzzatto, storico e saggista, nel documentario di Sky Arte 1938- Diversi (il 4 settembre in anteprima fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia). «Per ricordare, per sapere, per capire, per risvegliare l’interesse dei giovani con un linguaggio diretto», dice il regista Giorgio Treves. «Anche io ne sapevo poco. I miei genitori avevano lasciato l’Italia nel 1940 con l’ultima nave diretta negli Stati Uniti, io sono nato a New York nel 1945. Della vita familiare a Torino mio padre non parlava mai». Il produttore Roberto Levi c’era, nel 1938 aveva 4 anni, ma la sua famiglia riuscì a fuggire in Svizzera prima dell’invasione nazista e l’inizio delle deportazione nel novembre del 1943. La velocissima campagna antiebraica si conclude il 14 novembre ’38 in parlamento dove, ricorda la storica Liliana Picciotto, «l’approvazione di questi decreti-legge avviene in un’atmosfera di consenso furibondo a Mussolini. In pochi minuti si decise la sorte degli ebrei d’Italia». 80 anni fa, uno dei nostri tanti, tragici, vergognosi anniversari. Da un diario, letto dall’attore Roberto Herlitzka: «La maestra chiamò il mio nome, e disse, "Bassi esci dalla classe". Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz. Solo, e scoppiai a piangere».

Liliana Segre, senatrice e sopravvissuta ad Auschwitz: «Molto spesso venivano in casa i poliziotti, ci trattavano da nemici della patria, con un atteggiamento di disprezzo, rude, di sospetto, che mi dava vergogna e paura, soprattutto paura». Aldo Zargani, scrittore: «Mi accorsi di essere ebreo, che stava cominciando qualcosa di terribile, il giorno in cui mio padre fu licenziato dall’orchestra dell’Eiar e diventammo una famiglia miserabile». Poco a poco, studenti e insegnanti ebrei vengono allontanati da ogni ordine scolastico: vietati i testi di autori ebrei, via dagli impieghi pubblici, via dall’esercito, via dal partito fascista (anche quelli fascistissimi che avevano partecipato alla marcia su Roma e si erano iscritti ancora prima), proibiti i matrimoni misti, allevare piccioni, avere una cameriera cattolica, affittare le stanze ai non ebrei, poi anche andare al mare. Su certi negozi c’era il cartello "vietato agli ebrei" ricordano senza stupore Luciana Castellina, Picciotto e altri. La minoranza ebraica italiana (uno su mille) era molto integrata soprattutto da quando, nel 1848 lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia — lo racconta lo storico Alberto Cavaglion — aveva concesso ogni diritto, compresa la fine dei ghetti, agli ebrei. Allora, si chiede il film, in che modo Mussolini, il fascismo, sono riusciti a "inoculare" negli italiani l’antisemitismo? Con l’incessante propaganda al cinema, alla radio, coi manifesti, con le parate, con le canzonette, con i giornali, con le esibizioni a torso nudo del Capo, persino con la moda e il lusso per i ricchi e la battaglia del grano per i contadini; tutti in divisa, adulti e bambini, libro e moschetto (adesso forse il moschetto, ma non il libro), con il martellamento sulla superiorità fisica e intellettuale degli italiani, anche se allora in parte analfabeti e stroncati dai lavori faticosi. Una festa continua, una festa nel 1935 con la guerra d’Etiopia, spiega lo storico Mario Avagliano, e il razzismo rancoroso contro i "negri", gli africani (che del resto è rimasto una bella eredità). Poi con la guerra di Spagna contro i comunisti, oggi molto dormienti, e Mussolini che dichiara: «Quando finirà la Spagna, inventerò qualcosa d’altro. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento». E inventa gli ebrei. Il documentario rappresenta la nostra pericolosa acquiescenza e fiducia al capo decisionista, in un tempo in cui non esistevano né tweet né selfie. Sfatata per l’ennesima volta l’idea degli italiani brava gente, perché se ci fu chi nascose e aiutò gli amici ebrei, tanti approfittarono della loro persecuzione o stettero zitti, come molti intellettuali. Non Toscanini, però e neppure papa Pio XI: morì prima che la sua enciclica antirazzista potesse uscire, ma disse «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui noi cristiani non dobbiamo aver nulla a che fare. Spiritualmente siamo tutti semiti». Hanno ragione gli autori a definire il film necessario perché «quegli eventi sia pure in modo diverso tornano a minacciare il nostro futuro. Abbiamo il dovere di mobilitarci e impedirlo». Con l’ultima immagine confusa di un carro bestiame verso il nulla, il doc si ferma sull’abisso del Dopo, per raccontare le responsabilità del Prima.

(pubblicato su informazionecorretta.com)

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#Venezia75 – 1938 Diversi, di Giorgio Treves

di Fabio Fulfaro

Oggi il mondo ci è precluso, siamo soli nello spazio che per noi è divenuto freddo e la sua ricca vastità ci è inaccessibile. Siamo terribilmente soli
Espulsi dall’ambiente, accettati nell’incertezza dei senza patria. Siamo soli come due ebrei soltanto possono essere soli.
Enzo Arian

Il 18 settembre 1938 a Trieste, facendosi largo tra due ali di folla in delirio, Benito Mussolini pronunciava uno dei suoi discorsi sulla inferiorità della razza ebraica e sulla necessità di mettere in atto provvedimenti che isolassero gli ebrei italiani in quanto “diversi”. Il 5 settembre e il 17 Novembre dello stesso anno venivano firmati due regi decreti che richiamavano gli odiosi comandamenti del Manifesto della Razza del precedente 14 Luglio: è la promulgazione delle leggi razziali e l’espulsione degli ebrei dalla vita pubblica.
A 80 anni da quell’infame periodo, Giorgio Treves e Luca Scivoletto con la produzione di Roberto e Carolina Levi per la Tangram Film, propongono un toccante documentario che alle interviste di diversi saggisti e storici alterna le dolorose testimonianze di chi quelle leggi le ha vissute sulla propria pelle. Attraverso il fuoco incrociato di racconti e documenti, si riesce a fare luce su uno dei momenti più oscuri della nostra storia. Uscito stremato dal primo conflitto mondiale, il popolo italiano sembra affascinato da una idea di nazione forte militarmente, cosciente della propria superiorità e desiderosa di espandersi in Africa (“libro e moschetto balilla perfetto”). Il colonialismo nostrano, che sfocia nella guerra di Etiopia, è caratterizzato da un razzismo e una intolleranza verso le persone di colore, giudicate inferiori. I discorsi populisti, le canzonette come Faccetta Nera, gli articoli tendenziosi sulla stampa e le vignette satiriche convergono tutte verso l’odio per l’africano, diventato pacco postale o merce di scambio, schiavo sessuale o manodopera da sfruttare. Finita vergognosamente la campagna coloniale africana, fallita miseramente la guerra di Spagna, Mussolini cambia obiettivo. E’ curioso pensare che prima del 1937, gli ebrei erano comunque rispettati per il loro sacrificio durante la I guerra mondiale e alcuni di loro aderivano con convinzione al Partito Nazionale Fascista. Per questioni meramente politiche (l’allineamento con il partito nazionalsocialista tedesco) proprio nel 1937 il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) aveva organizzato attraverso la stampa, la radio e il mezzo cinematografico una campagna mediatica diffamatoria che discriminava gli ebrei, dipinti come vigliacchi, avidi di denaro, traditori della patria.

Treves fa analizzare le cause di questa follia ideologica attraverso le parole apparentemente asettiche di studiosi ed esperti come Mario Avagliano, Sergio Luzzatto, Liliana Picciotto, Alberto Cavaglion, Luciana Castellina, Michele Sarfatti, Marcello Pezzetti, Edoardo Novelli, Walter Veltroni. I devastanti effetti li ascoltiamo attraverso i terribili ricordi di Rosetta Loy, di Alessandro Treves, di Roberto Bassi, di Bruno e Liliana Segre: le umiliazioni a scuola, l’isolamento dalla vita civile, le fughe precipitose in America o in Svizzera, la deportazione ad Auschwitz da quel maledetto binario 12 della Stazione Centrale di Milano.
Quando il discorso tende a farsi più personale, Treves saggiamente inserisce delle animazioni che fanno da filtro a questo materiale emozionale. Mantenere vivo il ricordo significa prevenire quello che Umberto Eco chiama l’eterno ritorno del fascismo, pronto a manifestarsi quando alla regressione economica si associa una rapida involuzione culturale. Scorre più di un brivido lungo la schiena mentre Roberto Herlitzka declama le parole di Enzo Arian o quando Liliana Segre parla di una linea nera continua che parte dalla firma di Vittorio Emanuele (il regio decreto sui Provvedimenti per la razza italiana) e si ingrossa sui binari di un treno per l’inferno.
Giorgio Treves non si limita a narrare i fatti ma propone una via per risorgere dalle ceneri di questo passato ignobile: dei ragazzi fuori dalla scuola ridono e parlano spensieratamente, forse è da loro che bisogna ripartire, perché le nuove generazioni non possono non sapere. Queste immagini e questa sofferenza devono servire a futura memoria, se la memoria ha un futuro.

(pubblicato su sentieriselvaggi.it)

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“1938. Diversi” di Giorgio Treves è tra i vincitori dei Nastri d’Argento per i Documentari 2019

Il film documentario “1938. Diversi” di Giorgio Treves è stato premiato durante la cerimonia di consegna dei Nastri d'Argento per i Documentari 2019 come "Miglior Documentario - Cinema del reale".

Prodotto da 
Tangram Film in collaborazione con Sky ArteMibactAB Groupee AAMOD, e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund, “1938. Diversi” mostra come articoli, vignette, fumetti e filmati contribuirono a trasformare, in pochi mesi, gli ebrei dapprima in "diversi" e poi in nemici della nazione. La voce di alcuni testimoni diretti, la ricostruzione di episodi realmente accaduti e il contributo di importanti studiosi di storia (tra cui Mario Avagliano, Michele Sarfatti, Sergio Luzzatto e Alberto Cavaglion) aiutano a comprendere il ruolo decisivo che i mezzi di comunicazione di massa ebbero in una delle vicende più tragiche dell'umanità.

Nastri d'Argento sono l’iniziativa più importante nel calendario delle manifestazioni organizzate dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani
Riconosciuti dal 
MiBACT Premio di Interesse Culturale Nazionale, sono il più antico riconoscimento per il cinema italiano, secondi nel mondo, per ‘anzianità’, solo agli Academy Awards: i giornalisti cinematografici iscritti al SNGCI li assegnano infatti dal 1946, attraverso un voto con scrutinio notarile, che premia ogni anno i migliori film, autori, interpreti, produttori e tecnici.

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Storie – Le spiagge razziste dei primi anni Quaranta

di Mario Avagliano

   Nella calda estate del 1940, segnata dall’entrata in guerra dell’Italia, il regime fascista impose un nuovo giro di vite agli ebrei, vietando loro perfino di recarsi in vacanza.  «25 luglio ’40. Gli ebrei allontanati dalla spiaggia adriatica», annotava Maurizio Pincherle nel suo diario. Si riferiva a Palombina sulla costa marchigiana, dove era solito ritrovarsi con i parenti durante le vacanze. Ma il provvedimento riguardava tutte le località turistiche.

Considerati «nemici della Nazione», nonché «razza inferiore», gli ebrei oltre ad essere esclusi dalle scuole e dai posti di lavoro pubblici, non ebbero più diritto neppure a recarsi nei luoghi di villeggiatura «di lusso».
Una pagina triste della nostra storia che ci viene ricordata da Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni nel libro «Spiagge di lusso. Antisemitismo e razzismo in camicia nera nel territorio riminese» (Panozzo Editore, pp. 282). Sul litorale dell’Emilia-Romagna erano considerate località off-limits per gli ebrei Cattolica, Misano Adriatico, Riccione, Rimini, S. Mauro Pascoli, Gatteo e Cesenatico. E allargando lo sguardo al resto d’Italia, come si legge nell’elenco ministeriale approntato dalla Direzione Generale per il Turismo del Ministero della Cultura Popolare del 9 giugno 1943, tra le località vietate agli ebrei figurano, tanto per citarne alcune, Senigallia, Camaiore, Cortina d’Ampezzo, Ortisei, Sanremo, Rapallo, Forte dei Marmi, Viareggio, Abano Terme, Salsomaggiore, Venezia, Alassio, Madonna di Campiglio, Recoaro Terme…
Il libro di Maggioli e Mazzoni non si sofferma solo su questa vicenda, ma racconta - con un’attenta e documentata ricostruzione dei fatti - anche la storia di molti ebrei residenti o di passaggio nel territorio riminese, tra Bellaria e Cattolica, dal 1938 al 1944, e degli episodi di razzismo e di persecuzione e di vessazione ma anche di solidarietà che si registrarono in quella parte d’Italia. Nomi, storie, fotografie, informazioni che ci restituiscono un ritratto dell’Italia razzista di quegli anni. Un ritratto per troppo tempo dimenticato.

(L’Unione Informa e Moked.it del 19 aprile 2016)

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Storie – Il razzista Emilio Cecchi

di Mario Avagliano

   Il razzismo italiano del Novecento si abbeverò anche alla fonte avvelenata di fini letterati come Emilio Cecchi, l'autore di "Pesci rossi" (1920) e di "America amara" (1939), che per gran parte del secolo scorso fu uno dei maggiori critici italiani, recensendo la produzione letteraria specialmente sulla terza pagina del Corriere della Sera. Lo mette in luce, con ricchezza di documentazione, il saggio di Bruno Pischedda "L'idioma molesto. Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale" (Aragno, pp. 313).
Cattolico reazionario, anche se di spirito crociano, Cecchi nel 1925 firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, salvo poi piegarsi al regime fascista negli anni successivi, tanto da essere designato nell'Accademia d'Italia.
Nella ricostruzione di Pischedda, scopriamo che già agli esordi sulla Tribuna nel 1910 il critico fiorentino parla di stirpe e cita frequentemente autori stranieri razzisti, spargendo qua e là nei suoi scritti chiare espressioni o riferimenti antisemiti.
Nel 1938, l'anno delle leggi razziali, Cecchi s'imbarca per gli Stati Uniti e dal viaggio oltreoceano ricava un reportage in cui risulta evidente il terrore del meticciato e della mescolanza etnica e il forte sospetto verso la comunità ebraica, vista come un elemento parassitario e dissolvitore del mondo occidentale.
Nel 1942, poi, Cecchi prenderà la parola al convegno di Weimar voluto da Goebbels come rappresentante ufficiale dell'Italia.
Un passato scomodo che poi farà dimenticare nel dopoguerra, cancellandone in qualche modo le tracce, al pari di tanti altri illustri italiani che non furono solo complici ma contribuirono direttamente a diffondere il verbo razzista nel nostro Paese.

(L’Unione Informa e Moked.it del 12 gennaio 2016)

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Storie – Il “non luogo a procedere” sulla Risiera di San Sabba

di Mario Avagliano

  “Tutta la Storia umana è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di ciò che sparisce”. Lo si legge nello straordinario romanzo di Claudio Magris “Non luogo a procedere”, appena uscito per i tipi della Garzanti (pagg. 362, euro 20), dedicato in larga parte alla vicenda, per molti aspetti ancora misconosciuta, della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia.

Qui, in una vecchia fabbrica alla periferia di Trieste, durante l’occupazione nazista fu attivo un forno crematorio dove furono gasati con il Zyklon B migliaia di partigiani italiani e jugoslavi, ebrei e antifascisti. Una “prova generale dell’inferno”.
Tra i misteri della Risiera di San Sabba, c’è quella della figura del professore triestino senza nome (ispirato a un uomo realmente esistito, Diego de Henriquez), che colleziona ossessivamente reperti della guerra e che, fra l’altro, ricopiò su preziosi taccuini le scritte dei deportati sulle pareti della Risiera e sui muri delle celle, che poi furono cancellate da qualcuno con una mano di calce. Scritte in dialetto, in italiano e in sloveno, che oltre a costituire testimonianze delle ultime ore dei prigionieri, potevano svelare i nomi delle spie che li avevano denunciati e fatti condannare a morte.
Alla morte del professore, bruciato – come accadde nella realtà -  in uno strano incendio che distrugge  anche buona parte del suo tesoro di reperti bellici, la sua assistente Luisa, figlia di un’ebrea e di un americano nero, porta avanti il suo progetto di fondare un  Museo della Guerra.
Nel romanzo di Magris, che squarcia il cono d’ombra di quegli anni a Trieste, troviamo carnefici, delatori, collaboratori del nazismo e indifferenti, ma anche resistenti ed eroi. Figure inventate e figure vere, come il podestà Enrico Paolo Salem, il vescovo Santin e don Edoardo Marzani, torturato a San Sabba, scampato alla morte, che diede il segnale dell’insurrezione facendo suonare tutte le campane della città.
Un grande libro, coinvolgente ed emozionante, che con l’arma potente dell’alta letteratura riapre la riflessione sulla Risiera di San Sabba e sulla rete fitta dei colpevoli e dei complici della persecuzione, su cui nel dopoguerra calò un vergognoso silenzio. Un caso di giustizia mancata e un buco nero della Memoria ancora da indagare.

(L’Unione Informa e Moked.it, 1° dicembre 2015)

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