Mario Avagliano

Mario Avagliano

Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986

di Mario Avagliano

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il terrorismo arabo-palestinese, a partire dalle stragi alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e all’aeroporto di Fiumicino del 1973, colpì l’Europa a più riprese con attentati, sequestri, dirottamenti di aerei e di navi. Alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, per scongiurare atti di violenza nel territorio nazionale strinsero patti segreti con i mandanti dei terroristi arabi, compreso alcuni Stati cosiddetti «canaglia». Patti che prevedevano il transito dei terroristi in Italia, il loro rilascio nel caso di arresto e perfino la vendita e la fornitura di armi alle dittature arabe. Rientra in questi accordi il caso Sigonella, quando il presidente del consiglio socialista Bettino Craxi rifiutò la consegna agli Stati Uniti sia del commando di terroristi palestinesi che tra il 7 e il 10 ottobre 1985 aveva dirottato la nave italiana Achille Lauro prendendo in ostaggio 511 persone e assassinando Leon Klinghoffer, un cittadino statunitense ebreo, sia di Abu Abbas, rappresentante dell’OLP che aveva mediato tra le autorità del Cairo e i terroristi.

È il tema del denso saggio di Valentine Lomellini, dal titolo Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, appena uscito in libreria per i tipi di Laterza. Il «lodo» non fu definito in un solo documento ma fu piuttosto un processo dinamico di nego­ziazione continua, che si adattò al mutare degli interlocutori coin­volti. Se, nonostante il perpetuo avvicendarsi dei governi della Repubblica, i nomi dei protagonisti italiani furono circoscritti, invece i soggetti terroristici mutarono in modo significativo: dapprima l’Organizza­zione per la liberazione della Palestina di Arafat, in seguito un insieme fra­stagliato di movimenti estremisti e di mercenari, e infine gli Stati che li finanziavano: l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi e poi anche la Siria.

Dalla “prigione del popolo” dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. In realtà, benché tale strategia venga attribuita allo statista democristiano, il patto per preservare l’Italia dagli attacchi del ter­rorismo internazionale coinvolse tutto l’apparato dello Stato, dai servizi segreti ai funzionari del Ministero degli Affari Esteri, del Viminale, del Ministero di Grazia e Giustizia, compreso la magistratura; nel 1976 fu implicato anche il presidente della Repubblica Giovanni Leone. All’inizio degli anni Ottanta, i governi Andreotti e Craxi confermarono l’operatività di questo accordo. Tra i pochi ad opporsi, moderatamente, a questa linea fu il repubblicano Giovanni Spadolini, che era più vicino ad Israele.

Perché, si chiede il saggio di Lomellini, esponenti di governo, talvolta di culture po­litiche diverse, scelsero questo compromesso, decidendo di fare ciò che con il terrorismo politico italiano, in particolare con le Brigate Rosse, venne da alcuni ritenuto inconcepibile?

Innanzitutto vi era una questione relativa all’obiettivo per­seguito da queste organizzazioni e dagli Stati sponsor del terro­rismo che, come scrive Lomellini, «esercitando pressioni sull’Italia, in sostanza chiedevano di spingersi un po’ più oltre rispetto ad una politica già in essere, quella filo-araba». La classe dirigente italiana poteva, inoltre, annoverare altre ra­gioni: innanzitutto la questione dell’approvvigionamento del petro­lio (nel 1973 c’era stata la crisi petrolifera). Vi era poi un elemento correlato alla posizione geopolitica del Paese: vi fu, nella classe dirigente italiana, da Rumor a Moro, da Andreotti a Craxi, l’idea che solo il dialogo con quegli interlocutori avrebbe consentito di garantire la pace e so­prattutto la stabilità sul fianco sud del Mediterraneo, oltre al timore che alcuni Paesi, come la Libia, potessero scivo­lare verso l’area di influenza dell’Unione Sovietica.

Nel medio periodo il sostegno all’ala moderata dell’OLP portò al raffor­zamento, anche se altalenante, dei palestinesi disposti al dialogo; e sebbene l’emarginazione dei movimenti estremistici fu in parte compensata dal sostegno a loro offerto da alcuni Paesi arabi, l’a­pertura nei confronti dell’Iraq e soprattutto della Libia preservò la penisola dagli attacchi terroristici fino alla metà degli anni Ot­tanta, quando tale equilibrio si ruppe a causa dell’affermarsi della Siria come sostenitore dei gruppi terroristici mercenari ai margini della galassia palestinese.

Ma, come acutamente rileva Valentine Lomellini, «l’effetto di questo appeaseament nel lungo pe­riodo è ancora da valutare: se e in che misura il terrorismo islamico del XXI secolo abbia appreso la lezione sull’efficacia della violenza politica come strumento di diplomazia della tensione, è un interrogativo che rimane aperto. La ragion di Stato aveva reso necessario il “lodo”, violando tuttavia il diritto dei cittadini italiani alla giustizia».

(Blog di Mario Avagliano, 2022)

La sinistra italiana e gli ebrei

di Mario Avagliano

 

Lungotevere di Roma, 25 giugno 1982, nei pressi della Sinagoga. Un corteo di persone di passaggio urla: «Ebrei ai forni! W l'Olp! Morte a Israele» e poi lascia una bara davanti alle lapidi degli ebrei romani morti alle Fosse Ardeatine. Neofascisti o seguaci di Almirante? No, si tratta di militanti della Cgil, Cisl e Uil, nella capitale per i rinnovi contrattuali. Il rabbino Elio Toaff protesta e li definisce antisemiti, ma il segretario della Cgil Luciano Lama, invece che condannare quanto accaduto, giustifica i vergognosi slogan come comprensibili di fronte alla «guerra crudele scatenata dalle armate israeliane in Libano». D’altronde pochi giorni prima lo stesso Pci nella Direzione del 10 giugno 1982 ha accusato Israele di rasentare il «genocidio». È uno dei tanti episodi raccontati nel documentato saggio di Alessandra Tarquini intitolato «La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992» (Il Mulino, 22 euro), dal quale emerge che l’antisemitismo, a correnti alterne, ha allignato anche nella storia della sinistra italiana e non solo a destra, anche se vi sono stati pure diversi leader che viceversa hanno solidarizzato con gli ebrei.

Il rapporto tra la sinistra e gli ebrei è stato un po’ schizofrenico fin dalla fondazione del Psi nel 1892, data di inizio della indagine storica della Tarquini. I primi socialisti infatti minimizzano l’antisemitismo presente nella società, e questa sottovalutazione sarà una costante in quasi tutti i partiti di sinistra che nasceranno in Italia nei decenni successivi, convinti al pari di Cesare Lombroso, sulla scia del saggio di Karl Marx sulla questione ebraica, che la discriminazione verso gli ebrei sia superabile con l’affermazione di una società socialista.

Quando nel 1894 scoppia in Francia il caso del capitano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di spionaggio a favore dell’impero tedesco e per questo condannato ai lavori forzati, l’«Avanti!» si schiera per la colpevolezza di Dreyfus, addirittura sostenendo che un complotto della «bancocrazia giudaica» tentava di far evadere dall’isola del Diavolo il «capitano traditore». Solo dopo la celebre lettera di accusa alle gerarchie militari del gennaio del 1898 di Émile Zola al presidente della Repubblica Felix Faure il Psi diventa innocentista.

Dopo la nascita del sionismo, che sogna l’edificazione di una società socialista in Israele per gli ebrei, e fino alla Prima guerra mondiale, anche negli anni della direzione di Benito Mussolini, il quotidiano del partito socialista è un’importante voce di denuncia dell’antisemitismo nel mondo. Ad esempio, nell’autunno del 1913, l’«Avanti!» critica il linguaggio «violento» dell’«Osservatore romano» che ha definito il sindaco di Roma Ernesto Nathan «un volgare insultatore della nostra fede e delle nostre memorie», «un amalgama di giudaismo e massoneria».

Con l’ascesa del fascismo la sinistra italiana si occupa sempre meno della questione ebraica. Perfino dopo le leggi razziali varate dal regime di Mussolini, che colpiscono migliaia di persone, si levano poche voci in loro difesa, soprattutto quella del comunista Giuseppe Di Vittorio e del gruppo di Giustizia e Libertà, nel quale però militano numerosi ebrei. 

Anche nel dopoguerra, quando vengono alla luce gli orrori dei lager di sterminio e gli obiettivi della soluzione finale messa in atto dai nazisti con la complicità dei fascisti italiani, per anni a sinistra si ignorano le radici antisemite di queste azioni criminali e la Shoah viene equiparata a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», spesso senza far riferimento al genocidio degli ebrei, come nel film Kapò del regista comunista Gillo Pontecorvo. Anche Carlo Levi parla del lager come «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», senza soffermarsi sulle deliranti teorie antisemite del nazismo.

Alla loro uscita in libreria, opere simbolo della Shoah come «Il diario di Anna Frank» e «Se questo è un uomo» di Primo Levi (rifiutato per anni da Einaudi), se recensite dai quotidiani di sinistra, dall’Unità a Mondo Operaio, vengono elogiate per i loro aspetti letterari o di umanità, senza o con scarsissimi riferimenti all’antisemitismo e al genocidio di milioni di ebrei.

La Tarquini argomenta che pesa anche la posizione filopalestinese assunta dall’Urss. Anche a sinistra, dopo l’iniziale entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948, col passare degli anni piovono critiche inaccettabili verso il governo israeliano, accusato di comportarsi come il nazismo nei confronti dei palestinesi. Durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967, Antonello Trombadori scrive un articolo intitolato Da Anna Frank a Moshe Dayan indicando l’evoluzione di un popolo che è stato perseguitato e si nasconde «dietro l’antico e drammatico simbolo della stella di David». A suo avviso, Israele non è più la patria dei kibbutzim, ma uno Stato teocratico e razziale, che discrimina la minoranza araba e invocava le sofferenze subite per giustificare il proprio comportamento.

In quegli anni nella stampa di sinistra, si legge nel saggio, «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Ancora nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, viene trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori», organo di Avanguardia operaia, protesta perché la tv pubblica avrebbe propagandato la «supremazia del popolo ebraico», in un certo qual senso giustificando «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». Un attacco indegno che però non suscita grandi reazioni.

Peraltro anche nel Psi, che fino alla metà degli anni Settanta aveva una linea filoisraeliana, l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi comporta una brusca inversione di tendenza, con l’appoggio incondizionato all’Olp di Arafat. E ci vuole la caduta del muro di Berlino perché il Pci guidato da Achille Occhetto (poi diventato Pds), in particolare per merito di Piero Fassino, muti orientamento su Israele. Ma anche dopo il 1992, anno di conclusione del libro, in certe frange della sinistra estrema continueranno paragoni inaccettabili tra lo stato israeliano e i nazisti.

(Blog Mario Avagliano, 2020)

Un paese in movimento. L'Italia negli anni Sessanta e Settanta

Gli anni Settanta della storia italiana attendono ancora un’analisi obiettiva e scevra da pregiudizi, fondata sui dati di fatto e di cronaca. Il Sessantotto, ad esempio, da alcuni viene demonizzato come il vaso di Pandora dal quale si sono riversati tutti i crimini del decennio successivo, da altri come Sidney Tarrow è indicato invece come un periodo di disordine “creativo”, portatore di democrazia. Uno sforzo significativo per comprendere quella stagione arriva dal bel libro «Un paese in movimento. L’Italia negli anni Sessanta e Settanta» di Simona Colarizi (Editore Laterza), che ci racconta da un altro punto di vista il decennio che nell’immaginario collettivo è evocato come quello degli “anni di piombo”, con le pistole spianate nelle guerriglie urbane, le bombe esplose nelle piazze, sui treni, negli edifici, gli attentati e gli omicidi che allungavano ogni giorno il tragico elenco di morti e di feriti.

La storiografia, anche di recente, ha confermato gli aspetti drammatici di questo decennio marcato dal sangue di troppi innocenti. Ma, come osserva Simona Colarizi nel suo saggio, «stragi, terrorismo, criminalità organizzata hanno lasciato un segno indelebile nella storia repubblicana tanto da far dimenticare gli altri anni Settanta, un decennio di crescita democratica che ha consentito di sconfiggere i terrorismi». Senza questa Italia, sarebbe stato assai più difficile uscire dalla “notte della Repubblica”; anzi, proprio grazie a questa Italia, di gran lunga maggioritaria rispetto alle minoranze criminali, si sono evitati i pericoli di un’involuzione autoritaria o di un’esplosione rivoluzionaria, che erano poi gli obiettivi rispettivamente degli strateghi del terrore e dei brigatisti. Senza questa Italia, non si sarebbero avute conquiste civili come il divorzio, l’aborto, lo Statuto dei lavoratori, la nascita delle Regioni, le norme sulla parità tra donne e uomini.

Quella generazione di italiani, infatti, era in larga parte percorsa da fermenti democratici e decisa a liberarsi del passato autoritario e conformista lasciato in eredità dalla dittatura. La maggior parte dei giovani e meno giovani saliti prepotentemente alla ribalta della politica sulla scia del boom economico, al contrario dei loro coetanei che si smarrivano nei miti rivoluzionari di sinistra o di destra o si mettevano al servizio dei golpisti o della mafia, legavano il proprio impegno agli ideali della democrazia e del progresso. Il salto dell’Italia nella modernità e la conquista di libertà e di diritti negati vanno attribuiti alle generazioni maturate negli anni Sessanta e Settanta, al loro entusiasmo politico, alla loro passione civile, che hanno segnato nella storia del paese una pagina di intensa partecipazione, fino a oggi mai eguagliata, che vide scendere nelle piazze almeno tre generazioni di giovani dal 1960 al 1976.

Nel saggio della Colarizi, emerge il ruolo positivo recitato dai giovanissimi impegnati nei movimenti operai, studenti, borghesi, dalle donne del movimento femminista ma anche dai militanti e da una parte delle élites politiche al governo e all’opposizione, nella Dc di Aldo Moro come nel Pci di Enrico Berlinguer, nel Psi, nei radicali di Marco Pannella, nelle amministrazioni locali, nei sindacati, nella rete delle organizzazioni e in parte del basso e dell’alto clero. La cornice politica e istituzionale di quegli anni, caratterizzata dai governi di centrosinistra basati sull’asse Dc-Psi ma anche dall’ascesa del Pci (almeno fino alla prima metà del decennio), grazie alla sua egemonia culturale e alla conquista del voto dei ceti medi, è dunque indispensabile per leggere correttamente questa stagione, fatta di luci (i diritti civili e sociali, l’antiautoritarismo) e di ombre (il terrorismo, la corruzione), in un clima internazionale comunque di guerra fredda. E che tuttavia consentì all’Italia in tempi record di completare il percorso per diventare una moderna democrazia occidentale.

(Blog di Mario Avagliano, 2019)

"Stirpe e vergogna" di Michela Marzano

di Mario Avagliano

Gli italiani i conti con la propria storia recente, e in particolare con il fascismo, che abbagliò con la sua luce sinistra la maggior parte della popolazione, ancora non li hanno fatti. Nel nostro Paese non c’è stata un’assunzione di responsabilità di ciò che è accaduto dopo la conquista del potere da parte di Benito Mussolini e il varo delle leggi fascistissime – soppressione delle libertà, caccia agli oppositori, leggi razziali, crimini di guerra - con un processo Norimberga o un processo Tokyo, come avvenuto in Germania e in Giappone. Di più, dopo la liberazione l’Italia fu la prima nazione europea a lanciare un’amnistia generalizzata, già nel giugno 1946, a firma del leader dei comunisti Palmiro Togliatti, all’epoca ministro della Giustizia, anche se frutto di un accordo con il democristiano Alcide De Gasperi, capo del governo.

La conseguenza di questa fretta di voltar pagina è che molti italiani che si erano sporcati le mani con il fascismo, ne hanno bellamente approfittato, celando sotto il tappeto il proprio scomodo passato. Una rimozione collettiva, in qualche modo avallata dallo Stato. E così, scavando nelle storie familiari, può capitare di scoprire, consultando un certificato di battesimo, come accade a Michela Marzano, che il vero nome completo del padre non è solo Ferruccio, bensì Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito. Sì, proprio Benito, come Mussolini. E quando gli chiede il perché, lui risponde con nonchalance che il nonno Arturo era fascista. La scrittrice, ex deputata del Pd, rimane traumatizzata e comincia a porsi degli interrogativi inquietanti. A chiedersi se la propria autorappresentazione di donna di sinistra, proveniente da una famiglia democratica e progressista (il padre è da sempre socialista), non presenti qualche falla.

È il tema dell’intenso romanzo Stirpe e vergogna (pubblicato da Rizzoli), in cui Michela Marzano, con uno stile incalzante e avvincente, compie un’indagine retrospettiva sul nonno magistrato, Arturo Marzano, nato vicino a Lecce nel 1897, sottotenente sul Carso nel 1917. E ricordando che nella casa dove ha trascorso l’infanzia a Campi Salentina passava sempre davanti a una grande teca piena di medaglie, bottoni, nastri e fascette, la cerca nella casa dei genitori a Roma. Vi rinviene la tessera del nonno di iscrizione al movimento di Mussolini risalente addirittura al maggio 1919, poco dopo la fondazione dei Fasci di combattimento, e l’attestazione che ha partecipato alla marcia del 28 ottobre 1922. Tutti lo sapevano eccetto lei.

Nonostante la sorpresa e lo sgomento interiore, Michela Marzano non sfugge al passato e anzi testardamente si avventura a frugare nei cassetti, nei documenti e negli album fotografici di famiglia, divorando nel frattempo libri, articoli di giornale e film o documentari su quegli anni, per ricostruire la parabola umana, politica e sentimentale di Arturo. Dal matrimonio con la nonna Rosa, da cui avrà due figli, all’appassionata relazione extraconiugale con Bice (recuperando il carteggio tra i due amanti), dalla sua adesione al fascismo alla sua partecipazione attiva, in qualità di magistrato, alla commissione di Lecce che stabiliva quali italiani mandare al confino per attività antifascista o semplicemente per una barzelletta sul duce o un insulto, fino al processo per l’epurazione nel 1944, ai silenzi successivi su quella storia, alla sua elezione come deputato del partito monarchico nel 1953 e alla sua morte nel 1976, quando la nipote aveva appena sei anni.

Un’inchiesta intima e familiare, quasi sotto forma di diario, che sfiora anche altre pieghe oscure della vita dell’autrice, come il suo difficile rapporto con la maternità e con il padre Ferruccio. E che però, superando gli inevitabili ostacoli del viaggio interiore (il 25 aprile del 2020 Michela confessa di vivere per la prima volta «il giorno della Liberazione con imbarazzo»), diventa anche un’inchiesta pubblica sulle colpe di quasi tutti gli italiani, visto che gli antifascisti furono un’esigua, seppur coraggiosa, minoranza. Come fu possibile che un intero popolo s’innamorasse del duce? E che anche un uomo capace di tenerezza e di «cuore grande» come il nonno Arturo non abbia capito il male del fascismo? La tesi di Marzano è che Il riscatto, come è intitolata l’ultima parte del romanzo, si realizzi solo con il passaggio dallo stato di amnesia del dopoguerra alla presa di coscienza del carattere dittatoriale del fascismo e dell’ampio consenso degli italiani al duce. L’Italia sarà mai in grado di farlo fino in fondo, senza sconti di sorta e senza infingimenti?

(Blog Mario Avagliano, 2021)

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