In un libro le 335 'vite spezzate' delle Fosse Ardeatine

di Gabriele Le Moli

 

Militari, membri della resistenza, oppositori storici del fascismo. Esponenti politici di tutti i partiti dell'arco resistenziale. Uomini di tutte le età e fedi religiose, di tutte le provenienze geografiche e di tutti i ceti sociali e di ogni livello di istruzione: aristocratici, borghesi, alti ufficiali, ma anche e soprattutto tante persone comuni: macellai, impiegati, contadini, liberi professionisti. Sono le 335 vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, di cui solo pochi giorni fa è stato celebrato l'80/o anniversario, e di cui per la prima volta, in maniera sistematica, vengono ricostruite e proposte le biografie complete. E' il merito dell'ultima fatica della coppia di storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, che hanno pubblicato con Einaudi il volume "Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza".

La strage, compiuta dai nazisti il 24 marzo del 1944 sotto il comando del capo delle SS di Roma Herbert Kappler, come rappresaglia per l'attacco partigiano di via Rasella che era costato la vita a 33 militari tedeschi, è una delle pagine storiche più famose e presenti nell'immaginario collettivo del Paese. Per la prima volta Avagliano e Palmieri si sono assunti in maniera completa, esaustiva e metodica, il dovere di riportare alla memoria le vite e le storie di tutti i martiri dell'eccidio, dai più noti a coloro che per anni sono stati sepolti nell'oblio.

Il loro lavoro, condotto attraverso una minuziosa ricerca delle fonti, dai diari e lettere dei martiri, dei loro familiari o dei compagni di lotta, alle carte di polizia, le schede carcerarie, i documenti e relazioni dei partiti e dei movimenti di appartenenza, ma anche le schede utilizzate per il riconoscimento dei corpi, gli incartamenti del processo Kappler, le memorie postume e un costante contatto con le famiglie, fornisce così un ritratto complessivo di quello che lo storico Alessandro Portelli ha definito "un vero e proprio spaccato geografico, politico, sociale dell'identità nazionale italiana".

I tentativi di dare un volto e un nome ai martiri di quell'eccidio, in effetti, cominciarono fin da subito, grazie all'impegno di Attilio Ascarelli, il medico che per primo ebbe il compito di esumare ed identificare le salme e che lasciò un corposo fascicolo intitolato "Breve biografia dei 320, con 291 schede biografiche". Negli anni a seguire, però, questo primo volenteroso spunto di ricerca non ebbe il necessario seguito, disperdendosi in una variegata produzione storiografica, dedicata spesso ad approfondire solo singoli aspetti o singoli protagonisti di quel periodo storico.

Alcuni di essi, come il colonnello Giuseppe Montezemolo (capo del fronte militare clandestino e protagonista del colpo di stato del 25 luglio del 1943), hanno ricevuto il massimo risalto, e lo stesso Avagliano gli ha dedicato una monografica, così come al suo concittadino Sabato Martelli Castaldi. Nomi altrettanto noti sono quelli dei carabinieri Giovanni Frignani e Raffaele Aversa, che parteciparono all'arresto del Duce e furono fra le colonne della "banda Caruso". Approfondite schede biografiche erano presenti anche in un volume degli esordi dello stesso Avagliano, "Muoio innocente", dedicato alle lettere dei condannati a morte della resistenza romana.

Nel dopoguerra molti di essi hanno ricevuto i più disparati riconoscimenti: in ogni parte d'Italia ad alcuni di loro sono state intitolate strade, scuole, caserme e parchi. Presso i loro luoghi di nascita, di residenza o di lavoro sono state apposte targhe e pietre d'inciampo. Alcuni sono stati insigniti di medaglie (35 d'oro, 25 d'argento e 4 di bronzo al valor militare, più una medaglia d'oro e una d'argento al merito civile) o croci al merito. Altrettanto numerosi sono però i "senza nome", le persone comuni, accomunate con i più illustri personaggi dalla tragica fine per mano dei nazifascisti, ma sulle quali erano disponibili informazioni limitatissime o quasi nulle, e che ora trovano visibilità. 

(Ansa, 27 marzo 2024)

 

L'Italia senza camicia nera. Aldo Cazzullo: la prima ricostruzione completa del dissenso al regime

di Aldo Cazzullo

«Mussolini visita un manicomio. I ricoverati messi in fila applaudono freneticamente. Uno solo non batte le mani. Un uomo della scoria lo interroga: e voi non applaudite? Non sono mica matto, io sono un infermiere». E' una delle tante barzellette che vengono raccontate sotto la dittatura di Benito Mussolini. Un'ironia sotterranea e amara, che circola segretamente tra gli italiani nei primi anni Trenta. Il regime fascista, del resto, dopo aver neutralizzato ogni forma d'opposizione, ha fatto scendere la sua cappa oppressiva sul Paese. La macchina della repressione, con l'occhio vigile della polizia e delle spie, e quella del consenso, con la propaganda, le organizzazioni paramilitari e le adunate oceaniche, funzionano a pieni giri. Non essere allineati è un rischio troppo alto da correre e non sono solo gli oppositori veri e propri a rischiare, ma anche i semplici mormoratori, cioè chi si lascia sfuggire mere imprecazioni o battute di spirito contro Mussolini e il fascismo o sulla situazione in generale.

E' quanto racconta il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolato II dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943 (il Mulino). Da anni Avagliano e Palmieri portano avanti una loro peculiare ricerca storica, basata su un enorme lavoro sulla corrispondenza e sulle carte private e familiari degli italiani. Questa è la prima ricostruzione completa del dissenso al regime. A conferma del fatto che non tutti gli italiani sono stati fascisti.

Le spedizioni punitive, le ritorsioni, le condanne del Tribunale speciale al carcere e al confino e la vigilanza onnipresente e asfissiante della polizia politica, la famigerata Ovra, riducono al silenzio, all'inattività o alla fuga all'estero buona parte degli oppositori e anche chi semplicemente si lamenta o ironizza sul Duce e l'operato del regime. Le uniche opinioni consentite sono quelle autorizzate, cioè allineate. Ogni ambito della vita pubblica e privata è presidiato. «L'Italia — spiegherà nel 1944 l'antifascista di Albano Umberto Di Fazio — era divenuta per gli italiani un terreno così infido che bisognava bene esaminare davanti a sé prima di avventurarsi a muovere un piede. Si giunse all'assurdo che qualche volta persino tra le pareti domestiche si dubitava». E il periodico satirico «Il becco giallo» da Parigi, nel 1931, in un articolo intitolato Il mito dell'Ovra osserva che «c'è chi vede il fantasma dell'Ovra in ogni ombra; chi abbrividisce ad ogni palpito di tenda; chi suda freddo per lo scricchiolio di un mobile o per il gemito di una porta».

Eppure negli anni della dittatura il dissenso non viene soffocato del tutto. Una minoranza di italiani ha il coraggio di continuare a esprimerlo, pagando un prezzo altissimo in termini di emarginazione e isolamento sociale, controllo poliziesco, violenze e condanne severe. Accanto a figure note come Gramsci, Gobetti, Matteotti, don Minzoni e ai tanti esuli costretti alla fuga all'estero fin dai primi anni del regime, il libro prende in esame anche l'opposizione spontanea, popolare, spesso politicamente inconsapevole e finora poco indagata, che forma un terreno fertile su cui poi attecchirà la partecipazione di molti italiani alla guerra di Liberazione.

Il dissenso trova varie forme, pubbliche e private, eclatanti o sotterranee, esplicite o camuffate, organizzate o spontanee, per continuare ad essere manifestato. Si tratta di spazi residuali e limitati, pericolosissimi da occupare, che però persistono durante tutta la dittatura in modo non omogeneo nel tempo e nelle diverse zone del Paese. Con varie forme di espressione che spaziano dalla semplice indifferenza, alla non adesione intima e privata, fino all'antifascismo militante, con espressioni che vanno dai comportamenti privati alle iniziative individuali, fino all'impegno più organizzato. È il caso del giovane «di 25 anni, scarno, di statura media, colorito roseo, capelli castani con maglietta da ciclista color bigio» che, come riferisce una relazione della polizia, in un mattino della fine del 1927 scende da Albano lungo l'Appia a tutta velocità con la sua bicicletta lanciando manifestini che invitano a lottare contro il fascismo. O quello del fornaio Giuseppe Sciuto, di Catania, non iscritto a nessun partito ma che tra il 1939 e il 1941 scrive ben 118 lettere anonime in stampatello a personalità italiane, gerarchi fascisti e giornalisti italiani e stranieri con frasi come: «Il fascismo tiene gli operai schiavi e sacrificati; il fascismo, banditismo nero, assassino, micidiale e nemico dell'umanità». Decine di agenti vengono impiegati nella caccia all'uomo, anche prendendo il posto dei postini di Catania e sorvegliando le buche delle poste, ma ci vogliono due anni per stanare Sciuto, arrestato il 5 maggio 1941 mentre sta per imbustare altre missive alla cassetta postale.

Spesso si tratta di un «antifascismo da osteria», in quanto i presunti dissidenti pronunciano le loro invettive sotto i fumi dell'alcol, nel corso di litigi o per eccessi di rabbia dovuti alla disperazione e alla miseria, incappando nelle denunce di delatori di passaggio, colleghi, conoscenti o perfino parenti, talora ritrattandole per evitare la condanna o alleviare le pene. Non mancano però filoni di dissenso sociale più profondi e meno estemporanei, che arrivano anche a proteste popolari come cortei davanti alle sedi istituzionali e tumulti e scioperi nelle fabbriche e nelle campagne, soprattutto nei momenti più gravi della crisi economico-sociale, che vedono protagoniste anche tantissime donne: dopo la rivalutazione della lira del 1926-27, nei primi anni Trenta con l'arrivo in Italia degli effetti della Grande Depressione e durante la guerra, specie tra il 1942 e i primi mesi del 1943. 

Esercitare il dissenso sotto il fascismo ha un costo. Tra il 1926 e il 1943 ogni settimana, come ha calcolato Altiero Spinelli, il regime infligge l'ammonizione o la vigilanza speciale a 181 cittadini, ne invia 11 al confino, ne denuncia 24 al Tribunale speciale e ne condanna 6 al carcere con pene fino a trent'anni. La maggior parte degli antifascisti trascorre buona parte della giovinezza tra il carcere e il confino. «Cara Fiorella — osserva sempre Spinelli in una lettera de11942 — ecco oggi, tre giugno, son quindici anni che son prigioniero, il 43% della mia vita totale, o, se si conta la vita effettiva dai 15 anni in su, il 75%. Con un certo senso di orrore sto scrivendo queste cifre. Non credo che ci sia molta gente al mondo che abbia battuto questi record».

E' un dissenso che ha tanti volti e tante forme. Lo esprimono uomini e donne legati ad antiche fedeltà ideali e politiche maturate prima dell'avvento del regime, in famiglia o nelle comunità cittadine o di quartiere. Ci sono anche antifascisti «dormienti», che sono rimasti in Italia e hanno abbandonato l'attività politica attiva, ma di cui è nota la contrarietà al Duce. Così come sono i più vari i luoghi del dissenso: per strada, nelle trattorie, nei bar, sui tram, nei posti di lavoro, nel privato delle proprie case. E lo stesso vale per le sue forme, tra cui quelle cosiddette «povere»: barzellette, filastrocche, caricature, parodie di canzoni o di poesie, insulti e imprecazioni contro Mussolini e i gerarchi, statue parlanti (come nel caso di Roma), scritte murali che spesso compaiono in occasione di date simbolo come il primo maggio, ritocchi sarcastici di cartoline propagandistiche, volantini artigianali, intonazione di canti politici, culto e ricordo degli oppositori morti per mano fascista e funerali sovversivi.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2022)

Eleonora Pimentel Fonseca: luci, ombre e particolari inediti

di Mario Avagliano

Se l’infinita distanza tra verità e storia non può essere colmata, compito dello storico è quello di abbreviarla. E' quanto ha provato a fare Antonella Orefice nel suo nuovo lavoro Eleonora Pimentel Fonseca. Eroina della Repubblica Napoletana del 1799, Salerno Editrice, Roma 2019, pp.318.

Prima donna in Europa incaricata di dirigere l’organo di stampa ufficiale del Governo Provvisorio, con il suo “Monitore Napoletano”, la marchesa rivoluzionaria segnò l’inizio della stampa politica femminile. Donna di cultura in stretta relazione e collaborazione con gli uomini del suo tempo, Eleonora riuscì a sublimare l’infelicità della vita coniugale in forza edificatrice, abbracciando gli ideali rivoluzionari di fine Settecento.

Nelle sue vicissitudini personali la Pimentel ha rappresentato un prototipo di donna più vicina al presente attuale piuttosto che al suo tempo e questa sua atipica modernità ha aperto la strada alle più disparate valutazioni. Colpita dalla vendetta borbonica anche dopo la morte con la damnatio memoriae, «il rarefarsi delle fonti documentarie – scrive l’autrice - ha causato una serie di ricostruzioni biografiche pregne di congetture, alterazioni, luoghi comuni, giudizi approssimativi, tutti elementi per lo più inverificabili che hanno prodotto lavori molto discutibili e controversi, tanto da rendere la ‘marchesa giacobina’ nei suoi  multiformi aspetti un personaggio di fantasiosa fattura hitchcockiana, a tratti indecifrabile, una donna, insomma, che ha vissuto non due, ma svariate volte con personalità diverse,  a seconda della chiave interpretativa. Da qui le tante ‘Eleonore’ dai variegati volti: la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida, la sublime e finanche l’ermafrodita, tutte definizioni arbitrarie, forzate e spesso offensive, ma purtroppo avallate dalle incolmabili lacune documentarie.»

Dopo un percorso di ricerca ventennale, la storica Antonella Orefice ha raccolto per archivi e biblioteche una serie di frammenti inediti relativi al percorso esistenziale di questa eroina di fine dì Settecento, elementi preziosi che hanno sfatato molti luoghi comuni e chiarito tanti dubbi: dalla storia delle mutande negate sul patibolo alla sua ultima dimora, dal suo vero volto al mistero della tomba scomparsa.

Con un linguaggio semplice e lineare agli occhi del lettore si apre un ampio squarcio sulla Napoli di fine Settecento vissuta attraverso il destino di una donna che pagò con la vita il suo amore per la libertà. La storia, quella vera, viene narrata con la leggerezza di un romanzo dai colori vividi, i contorni quasi palpabili che trasudano emozioni. L’intima essenza della Pimentel viene trasmessa come eredità spirituale, nel valore del suo esempio, nella lezione morale, nel tragico intreccio di destino e carattere che segna la sua esistenza, nella miracolosa incarnazione della forza e della fragilità delle idee che in lei trova espressione, nella conversione del dolore in passione civile, tutti elementi di una personalità complessa che la Orefice ha cercato di raccontare attraverso lo specchio di quel tempo, nella speranza di restituire al lettore una Eleonora meno distorta e molto vicina al vero.

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Due secoli di Italia che va su due ruote

di Mario Avagliano

 

«Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia», sosteneva Gianni Brera. Ma in un panorama storiografico in gran parte rivolto alla ricostruzione di personalità, battaglie e idee politiche, finora la bicicletta non risultava possedere i quarti di nobiltà sufficienti per assurgere a oggetto di studio da parte degli storici. Nonostante che essa fin dalla sua comparsa, nella seconda metà dell’Ottocento (il primo esemplare circolò nel 1867 per le strade di Alessandria tra gli sguardi stupefatti dei passanti), abbia rivoluzionato usi e costumi della società italiana.

A colmare questo vuoto di ricerca è l’intrigante saggio di Stefano Pivato, «Storia sociale della bicicletta» (Il Mulino), che racconta in modo agile e ricco di aneddoti come il velocipede, così si chiamava all’origine, sia diventato nel corso dei decenni «il terreno di scontro fra passatisti e innovatori».

La velocità delle prime biciclette che sfrecciano per le vie cittadine crea paura e sconcerto, anche perché all’inizio non è facile, anche per abili ciclisti, guidarle senza subire o provocare incidenti essendo complicato stare in equilibrio su mezzi la cui ruota anteriore raggiunge spesso il metro e mezzo di diametro.

Nel corso del primo decennio del Novecento, con l’evoluzione tecnica del mezzo, la bicicletta si avvia a divenire bene di consumo popolare. «Mettetevi alla finestra di una delle arterie principali di qualche grande città», osserva nel 1908 il Touring Club, che è alla testa di chi promuove l’uso del nuovo mezzo, «e voi vedrete all’alba e al tramonto nugoli di operai, d’impiegati, di professionisti che in bicicletta vanno e tornano dal lavoro».

Ma in una società ancorata a ritmi immutati da secoli, il mezzo a due ruote si caratterizza come un elemento perturbante per l’ordine sociale e morale. C’è addirittura chi lo considera il diavolo in persona, come fa un raffinato latinista, Luigi Graziani, che nel 1902 compone il carme In re ciclistica Satan: «Ah! Vada alla malora […] alla malora la bicicletta e chi l’inventò e chi l’inforca. Non è forse Satana l’inventore di un mostro sì detestabile? […] Che è lui, sempre lui, che spinge a corse vertiginose e pazze quelle gracili ruote?».

La bicicletta è ritenuta un attentato al decoro di quanti rivestono un ruolo pubblico. In particolare l’uso viene proibito ai preti (il più severo censore si rivela Papa Pio X) e agli ufficiali dell’esercito, perché scompone la veste talare dei primi e le uniformi dei secondi, esponendoli al ridicolo. Il disordine delle vesti che maggiormente scandalizza l’opinione perbenista è però quello delle donne, che per pedalare più comodamente si appropriano di un capo di abbigliamento da secoli esclusiva di mariti e fidanzati: il pantalone.

Pregiudizi che attecchiscono più nel Meridione che al Nord. Le prime statistiche segnalano che i ciclisti nel 1900 sono 109.019 su una popolazione di circa 23 milioni e la città con la più alta concentrazione di biciclette in rapporto alla popolazione è Milano: 163 su 1.000 abitanti. In coda alla classifica Napoli (7), Cagliari (4) e Bari (3). Una spassosa corrispondenza da Napoli su un giornale milanese riferisce che tra i «più fieri avversari dei poveri ciclisti (ci) sono i cocchieri da Nolo. La bicicletta è il loro odio: quando ne vedono passare una, mandano un mondo di frizzi e di bestemmie all’indirizzo del povero ciclista che se li sentisse diverrebbe pallido per la commozione. Il complimento più comune e meno terribile che accompagna l’apparizione di un velocipedista, è questo: “Te puozze spezza’ e gamme”: poi vengono in un crescendo rossiniano gli altri: “Te puozze fa ’a cape sei parte” e “Te puozze rompere ’a Noce d’o cuolle”».

Ma col passare del tempo, racconta Pivato nel suo libro, anche questi divieti vengono superati. La bici diventa il mezzo di locomozione più diffuso nelle città come in campagna, utilizzato durante la Grande Guerra (Enrico Toti girò tutta l’Europa grazie a una bici con un solo pedale), il primo dopoguerra e infine la Resistenza, durante la quale la bicicletta viene adoperata dai gappisti nelle città per compiere atti di guerra contro i nazifascisti, e dai resistenti per portare documenti ai partigiani o agli ebrei in fuga, come fecero Gino Bartali e don Primo Mazzolari.

Il ciclismo in quegli anni è lo sport più popolare nel Belpaese e i suoi due eroi, Coppi e Bartali, appassionano gli italiani e li dividono in due fazioni. Nel primo dopoguerra, non a caso, la bici è anche protagonista, nel 1948, di uno dei capolavori della cinematografia mondiale di tutti i tempi, Ladri di biciclette.

A partire dagli anni Sessanta, in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e nel periodo della prima crisi energetica globale, si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Basti pensare alle domeniche dell’austerity senza automobili della fine degli anni Settanta, quando le città tornano a riempirsi di bici. Fino ai tempi di oggi, dei mutamenti climatici, in cui si assiste alla rivincita della bicicletta, diventata mezzo di mobilità green, affermandosi, a sentire uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, quale simbolo di un «nuovo umanesimo» diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale.

 (pubblicato su "Il Mattino" del 5 gennaio 2020 e su "Il Nuovo Quotidiano di Puglia" del 7 gennaio 2020)

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