Per una storia complessiva dell’8 settembre
di Mario Avagliano e Marco Palmieri
Il pomeriggio dell’8 settembre di sessantaquattro anni fa, dalle frequenze di Radio Algeri, il Comandante in capo delle forze anglo-americane nel Mediterraneo, Dwight David Eisenhower, annunciò ufficialmente al mondo intero che l’Italia aveva chiesto ed ottenuto l’armistizio.
La notizia fece rapidamente il giro del mondo perché, sebbene Mussolini fosse già stato deposto il 25 luglio 1943, in seguito al «colpo di stato» che aveva portato alla guida del governo il maresciallo Pietro Badoglio, l’Italia era la prima potenza dell’Asse Roma-Berlino-Tokio a cedere le armi e a capitolare. Per la nostra nazione, però, la resa siglata con gli anglo-americani – non l’8, ma il 3 settembre 1943 a Cassibile in Sicilia – non sancì la fine della guerra, poiché il territorio nazionale continuò ad essere per altri venti mesi teatro di guerra tra eserciti stranieri, nonché di una «guerra civile» tra opposte fazioni di italiani (sulla Resistenza come guerra civile vedi il saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991).
L’8 settembre, inoltre, anche a causa di una gestione approssimativa da parte dei vertici istituzionali e militari, segnò l’inizio di quello che Elena Aga Rossi ha efficacemente definito lo sbando (Una nazione allo sbando, L’armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, Bologna 1993). A questa espressione, a ben vedere, se ne potrebbe aggiungere un’altra. L’8 settembre rappresentò infatti anche l’inizio della divisione. Innanzitutto venne diviso il territorio della penisola: l’Italia centro-settentrionale venne di fatto occupata dalla Wehrmacht (che aveva già fatto affluire numerose divisioni dal Brennero prima dell’annuncio), mentre sulle regioni centro-meridionali venne progressivamente esteso il controllo degli anglo-americani. Una parte di italiani si trovò così sotto la RSI e l’occupazione tedesca, un’altra parte sotto il Regno del Sud e l’occupazione (o liberazione) degli Alleati. Nelle zone ancora sottomesse al nazifascismo, migliaia di civili, presunti oppositori, furono deportati nei campi di concentramento tedeschi. Centinaia di migliaia di militari, schierati in patria e all’estero al fianco dei tedeschi d’improvviso non più alleati, vennero rapidamente catturati, disarmati e deportati nei campi di concentramento e di lavoro coatto del Terzo Reich, dove affrontarono una lunga e dura prigionia non come prigionieri di guerra ma come Internati Militari Italiani. Un gran numero di italiani, quindi, venne messo di fronte alla necessità di scegliere – spesso sotto ricatto – se continuare a collaborare con i nazisti ed i fascisti o rifiutare rischiando la vita propria e dei propri cari.
Per questi (ed altri) motivi, l’8 settembre 1943 ha rappresentato e continua a rappresentare una data-simbolo, probabilmente unica, nella storia contemporanea italiana. Una data che come poche altre ha influenzato l’intero dibattito politico-culturale italiano del dopoguerra e che ancora oggi fa sentire i suoi effetti e il suo peso nella memoria di quegli anni e di quegli avvenimenti, nelle nuove e vecchie generazioni. Tanto è vero che, a ragione, si è parlato di «memoria divisa», mentre il panorama storiografico, a distanza di quasi settant’anni, presenta ancora molte lacune e non è stato ancora in grado di scrivere una storia complessiva dell’armistizio e delle sue conseguenze.
Se la ricostruzione degli avvenimenti dal punto di vista diplomatico-politico-istituzionale può dirsi tutto sommato acquisita – con le sue luci e le sue ombre e nonostante alcuni dettagli e retroscena che ancora attendono maggiore chiarezza – grazie agli studi fondamentali, in ordine cronologico, tra gli altri di Zangardi (1943: 25 luglio-8 settembre, Feltrinelli, 1964, Musco (La verità sull’8 settembre, Garzanti, 1965), Toscano (Dal 25 luglio all’8 settembre, Le Monnier, 1966), Aga Rossi (L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Ministero per i beni e le attività culturali, 1993 e Una nazione allo sbando), De Felice (Mussolini l’alleato, Einaudi, 1996-1998).
Altrettanto, però, non si può dire di altri aspetti, a cominciare da quello militare. In questo ambito, infatti, i principali studi basati sui documenti custoditi negli archivi delle diverse armi sono rappresentati esclusivamente da pubblicazioni «ufficiali» volute e condotte dagli stessi Uffici Storici: Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943 dello Stato maggiore dell’Esercito (1975), La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto e La marina, gli armistizi e il trattato di pace della Marina (1971 e 1979), L’aeronautica italiana nella guerra di liberazione. 8 settembre 1943-8 maggio 1945 dell’Aeronautica (1950) e I carabinieri nella Resistenza e nella guerra di Liberazione dei Carabinieri (1978). Questi lavori, ai quali va comunque riconosciuto il merito di aver fatto conoscere fonti militari importanti, non sempre sono però esenti da intenti giustificazionisti e comunque, proprio per via del loro carattere di «relazioni ufficiali», non sono sufficienti a colmare la lacuna lasciata dalla latitanza degli storici sul tema, con poche eccezioni tra cui il lavoro di sintesi e di inquadramento generale L’Armistizio dell’8 settembre 1943, scritto da Giorgio Rochat per il «Dizionario della Resistenza» di Einaudi.
La storia militare dell’8 settembre, del resto, non è facile e richiederebbe una ricerca capillare e approfondita per le quali non sempre esistono le fonti. Si tratta infatti di una vicenda dai mille rivoli e risvolti, che ha un punto di partenza chiaro e certo – la mancanza di direttive e ordini precisi – dal quale discendono però innumerevoli situazioni differenti, da zona a zona, da reparto a reparto e addirittura per singoli militari.
Provando a tracciare un quadro schematico della situazione, la prima differenza va fatta tra le truppe schierate in Italia e quelle all’estero. Per le prime, bisogna distinguere tra Italia meridionale (da dove era più facile trovare riparo dietro le linee alleate o tra la popolazione civile in attesa dell’arrivo degli inglesi e degli americani) e Italia settentrionale (saldamente presidiata dai nazisti e quindi dove la principale alternativa alla cattura e alla deportazione era la fuga sui monti con le nascenti bande partigiane). Tra i militari che inizialmente si diedero alla macchia e diedero vita o ingrossarono le file della Resistenza, in questa prima fase, inoltre, bisogna distinguere tra coloro che condussero la lotta partigiana fino alla fine della guerra e coloro che invece vennero catturati, si consegnarono o riuscirono ad imboscarsi. Da non dimenticare, infine, la scelta di segno opposto di coloro che per convinzione politico-ideologica, per un certo senso del dovere e dell’onore militare, per opportunismo, paura o ricatto accettarono immediatamente di continuare a combattere la guerra al fianco dei tedeschi e sotto la bandiera della neonata RSI.
All’estero la situazione fu ancora più complessa, perché le opportunità di scampare alla cattura e alla deportazione erano quasi azzerate dalla lontananza dalla madrepatria, dal fatto di essere schierati fianco a fianco con i tedeschi, dalla minore disponibilità della popolazione civile ad aiutare forze che fino al giorno prima erano d’occupazione e dalla confusione generata dall’assoluta mancanza di informazioni sulla situazione generale. Le alternative furono allora le seguenti: consegna delle armi e delle posizioni ai tedeschi (per decisione dei comandi sul campo o spontaneamente da parte delle truppe), fuga con i partigiani locali, tentativi di resistenza armata collettiva da parte di interi reparti (finiti però nel sangue come a Cefalonia per via della superiorità di fuoco e di organizzazione dell’ex-alleato).
Per dare un contributo alla storia militare dell’8 settembre e delle sue conseguenze, in questi ultimi anni abbiamo condotto una ricerca approfondita in tutta Italia sulle lettere e i diari degli Internati Militari Italiani (IMI), ormai conclusa, di prossima pubblicazione nella collana storica della casa editrice Einaudi. Ma non è solo l’aspetto militare dell’armistizio a presentare lacune o autentici buchi neri in sede di ricostruzione storica. Nella storia complessiva dell’armistizio ancora da scrivere, infatti, andrebbero considerati, oltre agli avvenimenti, anche gli stati d’animo, le emozioni, le sensazioni e le convinzioni che da esso maturarono e che furono poi alla base delle diverse «memorie» di quegli avvenimenti che si sono sedimentate nella cultura italiana del dopoguerra.
Ed è per questo che una storia complessiva dell’armistizio, sarebbe il punto di partenza indispensabile e propedeutico ad una storia complessiva italiana, dalla fine della guerra ai giorni nostri.
("Rassegna", ANRP, n. 9/10/11, Anno XXIX, settembre-novembre 2007)
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