Al voto come settant’anni fa ma ora il paese è diviso in tre

di Alfredo Doni

Settant’anni fa l’Italia si trovò sull’orlo di una guerra civile che fu scongiurata, ma che lasciò un segno profondo in un paese già duramente provato, e diviso, dalla seconda guerra mondiale. Due poli, diremmo oggi, si contrapponevano: uno guidato dal Partito comunista, l’altro dalla Democrazia cristiana. Nel 2018 la storia si ripete, ma i fronti sono tre: al centrosinistra e al centrodestra si aggiunge il Movimento 5 stelle. In Italia, dove il clima è teso ma fortunatamente non come allora, si ripete un po’ quello che avvenne nel 1948. Delle vicende e delle implicazioni politico-sociali che scandirono quei mesi infuocati parla il libro dal titolo “1948. Gli italiani nell’anno della svolta” (il Mulino), scritto da Mario Avagliano e Marco Palmieri. Un volume di 452 pagine, già disponibile nelle librerie, che viene presentato oggi a Roma (ore 18) dagli autori nella sede della Associazione Civita (piazza Venezia 11). Parteciperanno Adolfo Battaglia, Giorgio Benvenuto, Aldo Cazzullo e Simona Colarizi. Modera Ruggero Po. “L'Italia del 1948 è un paese povero, con una popolazione di quasi 47 milioni di abitanti stremata dal ventennio fascista, da cinque anni di guerra mondiale e due di guerra civile. Innumerevoli case sono ancora diroccate e un sondaggio Doxa rivela che nel 25% delle abitazioni manca l'acqua corrente, nel 67% il gas e nel73% addirittura il bagno”.

Tensioni sociali

E’ una ricostruzione minuziosa e particolarmente documentata quella che viene proposta da Avagliano e Palmieri, un libro di storia che restituisce al lettore il clima di tensione in cui gli italiani si trovarono, il 18 aprile del 1948, a votare per l’elezione del primo Parlamento dopo l’entrata in vigore (1 gennaio dello stesso anno) della Costituzione. Due i blocchi che si contendevano la vittoria: quello dei partiti di sinistra, il Fronte democratico popolare con a capo il Pci con a capo Palmiro Togliatti, e la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi. In quel periodo storico vi è “l'attitudine a considerare la lotta politica anche come lotta armata, esacerbata oltremodo dalla violenza diffusa e fuori controllo della guerra. Si spiega così quanto reale e concreto sia, nel corso del 1948, il pericolo che le accese tensioni possano portare di nuovo italiani contro italiani a imbracciare le armi, che peraltro erano ancora disponibili e nascoste in gran numero, proprio in vista di eventuali necessità future”.

Verso il voto

“La campagna elettorale si svolge in un clima teso, segnato da violenze verbali, scontri fisici, fatti di sangue, organizzazione di formazioni paramilitari e sospetti reciproci di piani eversivi e insurrezionali. Alle tensioni interne si aggiungono quelle di derivazione internazionale, che inducono a temere ingerenze e perfino interventi armati di forze straniere”. Reduci dai successi ottenuti alle recenti elezioni amministrative, i partiti di sinistra, cacciati dal governo nel 1947, sono praticamente certi di avere la meglio sulla Dc.

Il trionfo della Dc

“Dalle urne, tuttavia, esce un risultato diverso, che consegna il paese alla Dc (che ottiene un irripetibile 48% dei voti (...), col concorso rilevante di alcuni fattori esterni: la mobilitazione capillare della Chiesa cattolica e delle sue emanazioni (...); il supporto americano, basato sull'influenza culturale dei suoi miti e modelli (...), ma soprattutto sull' elargizione di ingenti aiuti materiali con l'implicita minaccia di escludere il paese dai benefici del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre; l'impatto emotivo delle notizie internazionali, come il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia e la promessa anglo-franco-statunitense di restituire Trieste all' Italia”.

Governo De Gasperi

Il concreto avvio della macchina istituzionale si ebbe con l'elezione, l'11 maggio 1948, di Luigi Einaudi alla carica di primo presidente della Repubblica. Qualche giorno dopo, il 23 maggio 1948, nasceva il quinto governo De Gasperi, sulla base di una coalizione tra i partiti di centro.

Gli spari a Togliatti

“La mattina di mercoledì 14 luglio l'aula di Montecitorio è semivuota. Le cronache riferiscono che, approfittando della bella giornata, senza avvertire la scorta Togliatti e Nilde Iotti, che da molti mesi è la sua compagna anche se ancora non ufficialmente, escono dalla Camera, come di consueto, da un'uscita secondaria su via della Missione. Ma all'uscita lo aspetta lo studente universitario Antonio Pallante. Il ragazzo, originario di Bagnoli Irpino, un anticomunista fanatico, appassionato lettore degli scritti di Mussolini”: Pallante esplode tre colpi di pistola contro Togliatti che rimane esanime a terra. Rischia la vita, ma se la caverà.

Si teme la guerra civile

La notizia dell'attentato si diffuse rapidamente nel paese, suscitando immediate e spontanee reazioni da parte dei militanti comunisti. Nei centri industriali venne proclamato uno sciopero generale che bloccò il lavoro nelle fabbriche, alcune delle quali vennero occupate. "A Mario Spallone, suo medico personale, come ha confermato Giulio Andreotti, Togliatti ‘dette incarico di tranquillizzare il Governo sulla… non rivoluzione. Fui tramite di questo messaggio. Ed anche il giorno successivo ricevetti da Spallone una telefonata di sollecito perché la radio desse per intero i bollettini che i medici redigevano con molta cura e preoccupazione di tranquillizzare la massa’. La guerra civile non ci fu, ma la divisione nel paese divenne profonda e destinata a restare tale per decenni.

(Corriere Arezzo, Corriere dell'Umbria, Corriere di Rieti, Corriere di Siena, Corriere di Viterbo del 2 febbraio 2018)

Alle radici della Repubblica. Il 1948 fu l’anno della svolta

di Gianluca Veneziani

È interessante comprendere cosa accadde in Italia perché il 1948 non si trasformasse in un 1984 in senso orwelliano, o non degenerasse, come invece auspicava Nenni, inunnuovo1848, l’anno rivoluzionario per eccellenza. Quell’anno, come ben ricordano Mario Avagliano e Marco Palmieri nel documentatissimo 1948. Gli italiani nell’anno della svolta (Il Mulino, pp. 435, euro 25), fu segnato da due eventi destinati a incidere profondamente nella futura storia repubblicana del nostro Paese: l’affermazione della Democrazia Cristiana nelle elezioni di aprile, e l’attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti in luglio.

Se il trionfo della prima su comunisti e socialisti non fu nient’affatto scontato, gli effetti del secondo furono del tutto imprevedibili e non sfociarono in episodi ancora più gravi solo per una serie di circostanze. La vittoria così netta della Dc, fanno notare gli autori, fu possibile grazie all’intervento di poteri esterni (gli Usa e il Vaticano, su tutti),ma anche grazie a un’astuta campagna elettorale che contrapponeva “noi” e “loro”, creando un “nemico interno” e associando il rischio di una dittatura comunista alla dominazione straniera di un secolo prima: la falce e martello come l’aquila asburgica del 1848…

Quel trionfo (la Dc ottenne il 48% dei consensi) fu determinante anche nella successiva collocazione dell’Italia nello scacchiere geopolitico: fino a quel 18 aprile lo Stivale rientrava sì nell’area interessata dal Piano Marshall, ma era pur sempre Stato di confine con il blocco sovietico e Paese con uno dei più forti partiti comunisti d’Europa. Da quel giorno non ci sarebbero stati più dubbi: il bipolarismo interno tra filo-americani e filo-sovietici si sarebbe risolto a vantaggio dei primi. Ma, se non attraverso le urne, l’Italia avrebbe potuto trasformarsi comunque in uno Stato a guida comunista attraverso la violenza delle piazze. All’indomani del tentato omicidio di Togliatti da parte di Antonio Pallante, in tutto il Paese si scatenarono rivolte sanguinose, portate avanti da operai ed ex gappisti, che provocarono in soli due giorni 16morti, di cui 9 appartenenti alle forze dell’ordine, e in quasi due anni 62 lavoratori uccisi e circa 74mila arrestati tra gli appartenenti al Pci.

Così come l’attentato a Togliatti non ebbe ufficialmente mandanti, allo stesso modo quel fuoco rivoluzionario non fu appiccato direttamente dai vertici del Pci, ma fu una «rivolta senza padri», come l’ha definita Paolo Mieli. Alla mancata svolta insurrezionale contribuirono altri fatti, come la salvezza di Togliatti, uscito miracolosamente vivo dall’operazione, e la vittoria al Tour de France di Gino Bartali, che favorì un clima di pacificazione nazionale. Di certo, tuttavia, gli scontri che infiammarono il 1948 furono un precedente che avrebbe anticipato i fatti ben più cruenti di un trentennio dopo, sdoganando l’idea che la lotta politica potesse diventare sinonimo di lotta armata.

(Libero, 2 febbraio 2018)

«1948», quando l’Italia scelse di schierarsi con l’Occidente

Nel libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri dall’affermazione della Dc all’attentato a Togliatti

di Antonio Angeli

«Il 1948 è stato un anno cruciale nella storia italiana, che ha segnato profondamente l’evoluzione dell’assetto politico-istituzionale e socio-culturale del nostro paese per il mezzo secolo successivo», inizia così il saggio storico «1948 - Gli italiani nell’anno della svolta» (editore Il Mulino, 25 euro, 435 pagine corredate da belle illustrazioni), frutto del lavoro di ricerca di due storici e giornalisti acuti: Mario Avagliano e Marco Palmieri.

Il giorno dell’entrata in vigore della nuova costituzione, il 1° gennaio del 1948, il leader socialista Pietro Nenni scrive sull’«Avanti!» che bisogna «adeguare il 1948 al 1848», da sempre riconosciuto come l’anno della rivoluzione. E in quei giorni, che segnarono il momento di svolta dopo la dittatura fascista e la seconda Guerra Mondiale, la Nazione italiana, offesa e ferita, ma con una lucida volontà di futuro, fece una scelta di campo fondamentale per la restante metà del secolo.

La consultazione elettorale di quell’anno segnò la decisiva affermazione della Dc, alla testa di una coalizione centrista composta da liberali, repubblicani e socialdemocratici e sostenuta dagli Stati Uniti e dal Vaticano. Una scelta decisa e drammatica descritta e spiegata nel libro di Avagliano e Palmieri in tutti i suoi particolari e le sue sfaccettature. Momento cruciale fu l’attentato a Palmiro Togliatti, leader comunista, che rischiò di far precipitare il Paese nella guerra civile. Il testo, fondamentale per la comprensione di quei giorni, sarà presentato domani, venerdì, presso l'Associazione Civita, a Roma.

(Il Tempo, 1° febbraio 2018)

1948, quando gli italiani scoprirono la politica

Avagliano e Palmieri ripercorrono l’anno della svolta: fu l’inizio della partecipazione popolare alla vita pubblica

di Luigi Mascilli Migliorini

Non è certamente all’altezza del suo fratello maggiore, il1848, la primavera dei popoli che squassa le nazioni e impone ovunque se non nuovi poteri, almeno nuovi linguaggi: libertà, democrazia, persino socialismo se, come tutti ricordiamo, è allora che Karl Marx racconta nel suo Manifesto che uno spettro ( il proletariato oppresso) ha cominciato ormai ad aggirarsi in Europa. Ma il fratello minore, cent’anni più tardi, un posto importante nel calendario della storia se lo è guadagnato. È intorno al1948, infatti, che si dispongono le pedine principali, in Europa e nel mondo (basti pensare alla nascita dello Stato di Israele) di quel sommario equilibrio planetario post secondo conflitto mondiale che ci ha accompagnato fino alla caduta del muro di Berlino: la Guerra Fredda, insomma.

In Italia quelle pedine vanno più o meno a posto il 18 aprile di quell’anno, quando nelle elezioni politiche la Democrazia cristiana ottiene il 48% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi inaugurando una egemonia politica che, con alterne vicende, sarebbe durata fino al 1992, quando, cioè, le ragioni di ordine internazionale che ne avevano aiutato il successo e la durata nel tempo crollavano, come il muro a Berlino, (le date sono in questo senso eloquenti) fragorosamente. Sono le prime vere elezioni per il Parlamento della nuova Italia repubblicana, dopo quelle che due anni prima avevano dato vita all’Assemblea Costituente e che si erano svolte in un clima di festoso ritorno alla democrazia, nella forte contrapposizione della scelta tra Monarchia e Repubblica e, dunque, con una attenuata percezione (le condizioni oggettive erano, peraltro, assai diverse da quelle del 1948) dello scontro tra le forze politiche.

Stavolta, invece, è proprio questo scontro a dominare la scena e a far riconoscere che in quel momento si offre all’attenzione degli italiani un sistema dei partiti che la Carta costituzionale aveva aiutato a prendere forma e che –come sistema dei partiti o non di partiti - era destinato, appunto a fare da cornice e guida politica dell’Italia uscita dalla catastrofe della guerra e messasi sulla strada dello sviluppo da grande potenza economica fino a quella che, non a caso, molti hanno voluto chiamare «fine della prima Repubblica». Nei suoi termini generali la storia di quell’anno esso pure–come il fratello- «mirabile» è stata più volte raccontata.

Ma il libro che hanno scritto ora Mario Avagliano e Marco Palmieri a settant’anni di distanza da quei giorni ha una originalità tutta particolare, rivelata più che dal titolo, quasi obbligato, dal sottotitolo: 1948. Gli Italiani nell’anno della svolta. Il tentativo, ben riuscito, è quello, dunque, di sorprendere la società italiana in quel momento per essa così decisivo e mettere il lettore di oggi in condizione di avvertire le correnti mobilissime che attraversarono quella società messa di fronte ad una scelta alla quale essa giungeva fresca, certo, dell’entusiasmo collettivo esploso all’indomani della caduta della dittatura e della fine della guerra, ma anche sostanzialmente impreparata. Nel libro, infatti, si insiste molto sulla maggiore capacità organizzativa dei partiti della sinistra, il Pci in particolare, il legame più forte con il territorio, l’esperienza maggiore ereditata dai decenni dell’antifascismo clandestino e poi della lotta resistenziale.

Si poteva prevedere, dunque, una vittoria del Fronte popolare e questo, forse, come percezione diffusa non è sempre immediatamente compresa da chi oggi, conoscendo lo straordinario successo riportato dalla Democrazia cristiana, è portato a credere ad una illusione da parte degli sconfitti e a una marcia trionfale da parte dei vincitori. Non fu né l’uno né l’altro. Fu piuttosto un corso acceleratissimo di politicizzazione a cui parteciparono tutti gli Italiani, anchilosati da una lunga dittatura e avviliti da una guerra persa, obbligati, però, ad apprendere in fretta quelle regole elementari di comportamento – discussioni, polemiche giornalistiche, comizi, propaganda e, dunque, partecipazione- senza le quali una democrazia rappresentativa si trasforma in una minestra scipita.

La ginnastica della politicizzazione permette ovviamente tutto, o quasi: promesse di redenzione sociale e minacce di dannazione eterna, zelanti amplificatori del paradiso sovietico e Madonne che lacrimano per le strade d’Italia temendo l’arrivo dei cosacchi in piazza San Pietro. Anche colpi bassi, come l’attacco apoplettico di cui–si racconta per qualche giorno- è vittima il leader socialista Pietro Mancini durante un comizio contro il quale si era scagliata la maledizione di un sacerdote, uno di quei sacerdoti-propagandisti di cui parla–lo si legge nel libro-la minuta informativa di un prefetto. È in questa dimensione, ricostruita qui con il prezioso ricorso a fonti sempre poco utilizzate, come appunto i resoconti sull’ordine pubblico regolarmente stilati dai prefetti - che matura – mi verrebbe da dire - una riemersione alla politica delle classi medie italiane che non è stata mai adeguatamente finora e correttamente messa in luce.

La calma, la tranquillità a cui quelle classi quasi inerzialmente ambiscono e che i prefetti mettono tante volte in evidenza nei loro rapporti, quella calma e quella tranquillità che sono, nel 1948, anche il prodotto di una stanchezza collettiva che è un sentimento pervasivo non meno delle ansie di rinnovamento da cui quell’anno è attraversato, non vengono, per di così, lasciate a casa. Sono obbligate, dalla eccezionalità della condizione, a uscire per strada, a misurarsi con le forme della politica, a diventare obiettivo militante. Assai più di tanti altri, giusti elementi, il 1948 appare, così, l’anno di un’Italia che sceglie l’affezione alla politica e la conserva stretta lungo i decenni migliori della sua storia repubblicana. Da lontano oggi, quella battaglia rissosa, quella propaganda e quelle parole d’ordine quasi ingenue nella loro perentoria aggressività, ci appaiono, così, il battesimo di una democrazia repubblicana che fatichiamo a ritrovare nelle pagine del presente. Il libro sarà presentato oggi, alle 18, a Roma, presso l’associazione Civita, in piazza Venezia.  

(Il Mattino, 2 febbraio 2018)

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