di Mario Avagliano
«Si aspetta l’evolversi della situazione. I combattimenti in direzione di Salerno sono traditi dal rumore degli aerei che, in continuazione, passano sulle nostre teste. Esso è ben distinto da quello dei cannoni che tuonano ad una ventina di chilometri». Così scrive nel suo diario il 9 settembre 1943 il diciottenne Pietro Sorrentino, originario di Castellabate, commentando lo sbarco degli Alleati nel golfo di Salerno, affacciato alla finestra dell’appartamento degli zii a Pagani. Alla fine dell’estate del 1943 la guerra entra in casa degli italiani, in un Paese ridotto a luogo di macerie materiali e morali.
Nella memoria degli italiani gli eventi del pur breve periodo tra il 25 luglio, che segnò la defenestrazione di Benito Mussolini, e il successivo 8 settembre, in cui in un pugno di ore l’Italia si arrese, fu spezzata in due e occupata da soldati tedeschi e anglo-americani, hanno assunto un valore cruciale, sul quale la storiografia continua ad interrogarsi. Così come il biennio 1943-1945, funestato da stragi, fucilazioni, deportazioni, fame e bombardamenti, ma segnato anche da atti eroici, lotte per la libertà e grandi pulsioni ideali.Il variegato puzzle dei sentimenti, delle angosce, delle gioie e delle passioni che animarono gli italiani di allora, divisi tra Resistenza e Repubblica sociale, è stato ricostruito dallo storico Luigi Ganapini, con la sensibilità e il rigore che gli sono propri, nel saggio Voci dalla guerra civile (il Mulino, pp. 310, euro 23), in uscita il 20 settembre in libreria. Le fonti a cui ha attinto Ganapini sono i diari e le memorie dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, vera miniera della memoria del nostro Paese. Parlano in queste pagine le tante anime di una nazione che nell’autunno del 1943 pareva destinata a scomparire. Voci diverse fra loro: uomini e donne, settentrionali e meridionali, partigiani e aderenti a Salò, deportati e internati militari, cattolici ed ebrei.
Il racconto corale parte dal 25 luglio, giorno in cui, scrive la contadina emiliana Margherita Iannelli, residente a Marzabotto, «la gente si riversò nei paesi, tutti urlavano a più non posso. Chi gettava le immagini del Duce dalle finestre e altri le calpestavano e gli sputavano sul viso. Ma l’urlo immane fu quello che tutti dicevano: “Finalmente siamo liberi e potremo parlare”». E i fascisti? «Restarono zitti – ricorda la toscana Albertina Tonarelli –, non sapevano che fare, restarono come bastonati».
I primi 45 giorni del governo guidato da Pietro Badoglio non furono memorabili. «La guerra sembra a tutti perduta – annota il romano Mario Tutino -. Si tratta di uscirne non dico col minor danno, ma senza disonore». Le cose vanno in modo differente. «Al mattino dell’8 settembre si sparse la notizia della fuga del Re e dei suoi generali», racconta il torinese Ercolino Ercole, in servizio di leva a Marina di Massa. In poche ore i tedeschi disarmano i soldati italiani, anche per la viltà degli ufficiali, ma nella notte il giovane fugge. E quando arriva a Torino, è «pieno di rabbia, conscio di essere stato fregato dal libro “Cuore”, dal re vittorioso, da “Giovinezza”, dal “Dio, patria famiglia”, da tutto quel ciarpame».
In quei giorni centinaia di migliaia di nostri soldati vengono catturati dai tedeschi, senza sparare un colpo o dopo coraggiosi tentativi di resistenza. Per tutti gli italiani sotto il tallone nazifascista, è il momento delle scelte. «Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici», annota nel suo diario la senese Bruna Talluri, che poi entrerà nella Resistenza. Tra i soldati della divisione Emilia, di stanza in Dalmazia, si apre invece un dibattito, ricorda il riminese Aurelio Bernardi: «c’è chi vuole essere fedele al duce, chi vuole seguire le direttive di Badoglio, altri pensano solo alla pelle». Bernardi sarà uno dei 650 mila militari italiani internati in Germania che dirà «no» alle proposte tedesche di aderire all’esercito della Repubblica sociale del redivivo Mussolini, pagando la sua decisione con il campo di concentramento e trascorrendo il tempo, come fa Giorgio Cranz, «non pensando altro che a roba da mangiare».
Le memorie e i diari citati da Ganapini svelano la storia di quel biennio al di là degli stereotipi. E quindi accanto ai tedeschi violenti e cattivi, vi sono anche quelli buoni e stanchi di combattere, ai quali magari regalare un bacio, anche se sono «il mio nemico», come accade alla partigiana Cesarina Veneri. Tra gli italiani c’è chi resiste sui monti, in campagna e nelle città, rischiando la vita e le fucilazioni («altri sette li hanno presi, costretti a stendersi a terra, in piazza, tra la folla atterrita: li hanno finiti scaricando loro addosso i mitra», annota nel suo diario Irene Paolisso da Trivio di Formia), e chi invece, come la torinese Zelmira Marazio, aderisce a Salò e appunta orgogliosa il distintivo sulla camicetta, salvo notare per strada sguardi «cupi, minacciosi» e «una carica di odio» da parte della gente.
Fino alla gioia della liberazione, alle «tavolette di cioccolata nera e bianca… un vero godimento», ai balli americani col grammofono, alla riscoperta della libertà «di parlare, di scrivere» e purtroppo anche alle esecuzioni sommarie, che Maria Assunta Fonda rievoca con pena e pietà. E fino al triste rientro a casa di deportati politici e di internati militari, umiliati dalla freddezza della Patria. «Addirittura il mio nome – racconta Alessandro Roncaglio – era diventato “Mauthausen” pronunciato spesso con scherno e in tono canzonatorio. Sono addolorato nel dirlo: il tempo, gli affari, la vita quotidiana della gente stava spegnendo tutto mettendo sotto la cenere ricordi, martiri e morti».
(Il Mattino, 17 settembre 2012)