Libri e giornali, l'ossessione del Duce

di Mario Avagliano

L’abitudine delle note a margine a matita blu, da pedante maestrino di provincia, e la forma mentis da giornalista, Benito Mussolini non le perse mai, neppure quando l’Italia divenne un “Impero”. Anzi, durante tutto il Ventennio il duce coltivò una vera e propria ossessione per l’editoria. E forse anche per appagare le sue ambizioni d’intellettuale autodidatta, riservò una parte della sua attività quotidiana al monitoraggio della stampa e dei libri in uscita. Nessun capo del governo europeo e nessun dittatore, compresi Hitler, Stalin e Franco, dedicarono una simile attenzione (come rilevò anche il capo della polizia Carmine Senise) alla produzione editoriale del proprio paese.

Insomma il duce si comportò da severo controllore dell’editoria italiana, sempre attento a cosa si diceva e soprattutto a cosa si scriveva, come ci racconta Guido Bonsaver nel suo nuovo libro Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza, pp. 231, euro 18). E così, quando riceveva segnalazioni su libri da parte dalle strutture ministeriali, le esaminava con cura e vergava il suo responso, seguito dall’iniziale «M». Oppure ordinava alle prefetture l’immediato sequestro di un volume o che il funzionario di turno comunicasse a editori e scrittori la sua volontà.
L’apparato censorio diretto dal duce ebbe come prima vittima l’opposizione intransigente di Piero Gobetti e dell’editoria di parte socialista. Gobetti, che aveva fondato l’omonima casa editrice e dirigeva il periodico “La Rivoluzione Liberale”, era considerato da Mussolini uno dei suoi più pericolosi nemici. Il duce si occupò ripetutamente di lui, chiedendo al prefetto di Torino di rendergli la vita “difficile”, fino all’atto finale: la “diffida a cessare da qualsiasi attività editoriale”, che costrinse il suo giovane oppositore ad emigrare a Parigi.
A partire dal 1925-1926, quando il potere di Mussolini si fu consolidato, egli strinse rapporti controversi con gli editori più importanti, da Arnoldo Mondadori (che finanziava il suo movimento fin dal 1919) a Bompiani, e con personalità della cultura italiana, come Brancati, Moravia, Pirandello, Vittorini e altri. Ma continuò ad esercitare con pignoleria un’opera di censura, per motivi di opportunità politica, di decoro morale e, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, anche di razzismo.
Nel 1934 fu la pubblicazione di Sambadù, amore negro della scrittrice Maria Volpi (in arte Mura) a provocare la sua sdegnata reazione e la direttiva a tutte le prefetture di sorvegliare le pubblicazioni che avvenivano nei territori di competenza sotto il profilo della decenza morale.
Ma la storia di Mussolini censore non è la storia di contrapposizione tra un regime burbero e liberticida e gli intellettuali oppositori. Già nel 1975, lo storico italo-americano Philip Cannistraro, nel saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass-media, si soffermò sulle enormi dimensioni della «zona grigia» della cultura italiana, cioè di quell’ambigua, larga fascia di intellettuali che navigavano a metà tra collaborazionismo e opposizione. Un caso interessante è quello di Elio Vittorini, l’autore del più famoso romanzo censurato nell’Italia fascista, Conversazione in Sicilia, di cui Bonsaver ricostruisce il sofferto passaggio dalla militanza fascista, con la protezione di Alessandro Pavolini, sino alla disillusione e all’aperto antifascismo.
Questo saggio ci aiuta a capire, una volta di più, che durante il fascismo, anche nel settore dell’editoria il regime godette dell’apporto di schiere di intellettuali, chi in convinta militanza, chi per quelle inevitabili incrostazioni di parassitismo che ogni centro di potere chiama a sé, chi semplicemente accettando di fare il proprio lavoro nel contesto di un’Italia fascista. In un simile quadro, i concreti atti di protesta da parte di personaggi come Piero Gobetti, Roberto Bracco, Benedetto Croce e gli editori Laterza risaltano ancor di più, proprio perché appaiono come “picchi isolati in una distesa di piatto conformismo e di compromessi opportunistici”.
La censura riguardò tutti i campi del vivere civile e toccò il suo culmine con le leggi razziali del 1938 e la successiva “bonifica” dalle librerie, dalle biblioteche e dai programmi scolastici dei testi di autori ebrei e il divieto per questi di pubblicare libri. Negli anni di guerra, poi, oggetto del controllo del duce e dei suoi funzionari fu anche quello che oggi si chiamerebbe politically correct. Così quando nel gennaio 1941 Luigi Pirandello chiese l’autorizzazione a una trasmissione radiofonica della sua commedia Come tu mi vuoi, oltre al passaggio dal “lei” al “voi”, gli fu ordinato di eliminare ogni riferimento alla brutalità dei soldati austriaci e tedeschi durante la prima guerra mondiale. Per riguardo all’alleato Adolf Hitler, che con le sue truppe uncinate stava mettendo a ferro e a fuoco mezza Europa.
Dopo la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e la violenta stagione di Salò, “l’Italia del libro – come osserva Bonsaver – sopravvisse al proprio dittatore-censore e dimenticò presto i propri trascorsi durante il Ventennio”. Editori e intellettuali si rifecero la verginità e molti di loro passarono nelle file dell’antifascismo più acceso, cancellando le tracce del loro oscuro passato.

(Il Mattino, 7 aprile 2013)

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Storie - La strada a Salerno intitolata a Sabato Visco primo firmatario dell'infame Manifesto della razza

di Mario Avagliano

“Cancellare le tracce” s’intitola un libro di Pierluigi Battista edito nel 2007 da Rizzoli. E in effetti alcuni dei protagonisti del razzismo e dell’antisemitismo di marca fascista hanno così bene celato o corretto il loro passato, che dopo la loro scomparsa sono stati celebrati con tutti gli onori dai loro territori di origine o dalle università o accademie in cui avevano operato.

È il caso di Sabato Visco, nato a Torchiara, in provincia di Salerno, il 9 aprile 1888 e morto a Roma il 1° maggio 1971, che non fu solo un illustre fisiologo e nutrizionista (direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e dell'Istituto nazionale di biologia del Cnr) ma anche uno dei dieci scienziati firmatari del documento “Il Fascismo e i problemi della Razza”, pubblicato il 14 luglio 1938, conosciuto anche come “Manifesto della Razza”, e uno dei principali teorici della corrente nazional-spiritualistica del razzismo fascista.
Dal marzo 2006 una strada di Salerno è a lui intitolata, nel quartiere di Pastena, nella zona orientale della città, tra via San Leonardo e via Gandhi, per decisione dell’allora giunta municipale di centrosinistra guidata dal sindaco Mario De Biase, con tanto di avallo della Soprintendenza Baaas, della Società di Storia Patria e, ovviamente, della commissione toponomastica.
Visco fu una figura di primo piano dell’antisemitismo fascista: fu capo dell'Ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop e membro del Consiglio superiore della demografia e della razza e girò in lungo e in largo l’Italia per diffondere il verbo razzista. In un intervento alla Camera, nella primavera del 1939, dichiarò che l'università italiana perdeva i docenti ebrei «con la più serena indifferenza», e che anzi ne guadagnava in «unità spirituale».
Dopo la liberazione, fu solo sfiorato dal processo di epurazione ed ebbe la faccia tosta di sostenere che si era opposto al Manifesto. Peraltro nel 1946 in difesa di Visco si mobilitarono ventidue docenti in tutta Italia, firmando un appello al ministero della Pubblica istruzione per la sua riassunzione. Non avevano fatto altrettanto nell’autunno del 1938, in favore dei colleghi ebrei espulsi dalle università.
Nel 2006 l’intitolazione della strada al “barone di razza” Sabato Visco passò sotto silenzio, senza proteste da parte di nessuno. Fino a quando, qualche giorno fa, un lettore del “Corriere del Mezzogiorno” non ha scritto al quotidiano, denunciando il fatto. E’ subito scoppiata la polemica. Nico Pirozzi e Lucia Valenzi della Fondazione Valenzi hanno immediatamente scritto all'amministrazione comunale: "Appare davvero singolare che, tra tanti nomi, che hanno reso lustro alla città di Salerno, si scelga proprio quello di un uomo moralmente responsabile della morte di migliaia di ebrei italiani, di cui almeno quaranta campani. Quel nome è un insulto alla memoria degli ebrei e di quanti hanno sofferto a causa delle leggi razziali".
È partita anche una petizione popolare on line per intitolare la strada non allo scienziato razzista ma al vigile del fuoco salernitano Marco Matteucci, morto durante le operazioni di salvataggio dell’alluvione di Sarno del 1998.
Il nostro auspicio è che l’attuale amministrazione comunale di Salerno, guidata da Vincenzo De Luca, provveda subito a cambiare il nome della strada, con pubbliche scuse. Magari organizzando in occasione del 75° delle leggi razziali (a novembre prossimo) un grande convegno, con la partecipazione delle scuole salernitane, per far conoscere chi era davvero Sabato Visco. E come è riuscito a “cancellare le tracce”.

(L'Unione Informa, 16 aprile 2013)

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Storie - La guerra di Claudio, il finanziere buono

di Mario Avagliano

Nel pieno della bufera razzista e della caccia agli ebrei, in Italia vi furono funzionari delle forze dell’ordine che con dignità, altruismo e coraggio si opposero al disegno nazifascista. Una figura poco conosciuta è quella del finanziere Claudio Sacchelli, al quale di recente il Museo Storico della Guardia di Finanza ha dedicato una monografia, “La guerra di Claudio”, a cura di Luciano Luciani e Gerardo Severino.

Sacchetti, dopo l’8 settembre del 1943, trovandosi di stanza a Villa di Tirano, in Valtellina, in territorio di frontiera, aderì alla brigata partigiana locale “Gufi” e collaborò con l’organizzazione clandestina di assistenza agli ebrei messa su da Armida Morelli e Arturo Borserini, aiutando diversi perseguitati politici e molti profughi ebrei, quasi tutti provenienti da Balcani e internati tra il 1941 e il 1943 ad Aprica, ad espatriare nella vicina Svizzera, per sfuggire alla cattura da parte delle SS e della polizia fascista. Il finanziere inoltre ospitò e nascose a casa sua due anziani coniugi israeliti, facendoli passare per i genitori della moglie.
La sua attività “antitedesca e antifascista” purtroppo fu scoperta, forse su delazione anonima, e il 7 aprile 1944 Claudio Sacchetti fu arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso in carcere. Quindi fu deportato nel campo di concentramento di Fossoli, il 21 luglio trasferito a Bolzano, nel blocco D, destinato ai deportati politici con il triangolo rosso, e infine il 5 agosto destinato al lager di Mauthausen, dove morì il 1° maggio 1945, pochi giorni prima della liberazione.
A Claudio Sacchetti è stata concessa l’anno scorso la medaglia d’oro al merito civile alla memoria dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un partigiano da ricordare, alla vigilia del 25 aprile.

(L'Unione Informa, 23 aprile 2013)

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Storie - Il caso Palatucci e il compito della storiografia

di Mario Avagliano

La storia non si fa né con le glorificazioni improvvisate né con i giudizi sommari. La storia richiede una lunga attività di scavo e di ricerca, non solo negli archivi, che tenga conto dei documenti e delle testimonianze disponibili e anche del contesto in cui si svolsero i fatti. Lo dimostra la vicenda del funzionario di polizia irpino Giovanni Palatucci nel periodo della persecuzione degli ebrei, tra il 1938 e il 1944, oggetto di attenzione in queste ultime settimane da parte dei principali quotidiani nazionali.
Palatucci è il classico esempio di come, senza opportuni studi ed approfondimenti, un personaggio possa essere considerato, a seconda dei punti di vista, “santo” o “criminale”. Dal riconoscimento di Giusto tra le Nazioni dello Yad Vashem e il processo di beatificazione da parte della Chiesa cattolica, alle accuse del New York Times di collaborazionismo con i nazisti.
Uno dei primi a sollevare dubbi sul salvataggio da parte di Palatucci di migliaia di ebrei fu, nel 2008, lo studioso Marco Coslovich, nel libro Giovanni Palatucci. Una giusta memoria. Ora a riaprire il dibattito è stata la presa di posizione del Centro Primo Levi di New York, a seguito di uno studio su circa 700 documenti di vari archivi internazionali, tra i quali quello della città di Fiume.

Sul caso Palatucci, inviterei a leggere le interviste di Michele Sarfatti a Panorama e all’Huffington Post e le sue dichiarazioni al Corriere della Sera.
Sarfatti, che ha partecipato alla ricerca del Centro Primo Levi ed è uno storico di grande spessore e serietà scientifica, dopo aver affermato che dai documenti esaminati non sono emerse «evidenze storiografiche del salvataggio di migliaia di ebrei da parte di Giovanni Palatucci» e che il ruolo del funzionario irpino è stato «ingigantito», ricorda però che fu deportato a Dachau per attività antitedesca e spiega che la sua vicenda merita rispetto e ricostruire il suo operato non significa spostarlo «nel campo dei cattivi».
Quanto alle accuse di collaborazionismo con i tedeschi, Sarfatti precisa testualmente: “resto perplesso su una frase della giornalista del NYT, secondo la quale Palatucci avrebbe ‘aiutato i tedeschi a identificare gli ebrei da rastrellare’. Frase che attribuisce ai ‘ricercatori’, senza specificare chi. Ma di questo non esiste prova alcuna”.
Ma il ruolo di salvatore di Palatucci è stato del tutto inventato? Un’affermazione del genere sarebbe scorretta. Nella pratica di riconoscimento dello Yad Vashem ci sono prove che Palatucci soccorse una donna ebrea, Elena Aschkenasy. E, come aggiunge Sarfatti, ci sono in suo favore testimonianze “che in linea generale ritengo fondate, ma devono essere vagliate con attenzione studiando le carte”. Ad esempio quella sul salvataggio dei due coniugi Salvator e Olga Conforty (la figlia Renata Conforty lo ha ricordato sul Corriere della Sera del 23 giugno).
Il problema è che, come osserva Sarfatti, “i riconoscimenti pubblici a Palatucci hanno preceduto la ricerca storica”. Ora lo Yad Vashem ha avviato un processo di riesame del suo caso sulla base della nuova documentazione. E, come propone il direttore del Cdec, anche in Italia si potrebbe nominare un gruppo di lavoro per fare chiarezza sulla vicenda.
Aggiungo che mi trovo d’accordo con Anna Foa sul fatto che, probabilmente, in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati e alcuni eventi andranno riletti, ma va tenuto conto che la necessaria segretezza di un’attività di questo tipo non rende semplici le verifiche e comunque anche aiutare o salvare solo alcune persone è un fatto rilevante e meritevole di ricordo, di riconoscimento e di apprezzamento.

(L'Unione Informa 26 giugno 2013 e Portale Moked.it)

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Storie – Il tennis ai tempi del Führer e una partita epica per la vita

di Mario Avagliano

Lo sport a volte racconta la tragicità della storia. È il caso della partita che si tenne il 20 luglio 1937 a Wimbledon, in quel meraviglioso campo che Giorgio Bassani definiva “il Vaticano del tennis”. Anche quel giorno d’estate di settantasei anni fa, ci racconta il libro “Terribile splendore” di Marshall Jon Fisher (editore 66tha2nd, pp. 376), la tribuna di Wimbledon era gremita di folla e di autorità e il campo centrale «verde e teso come un panno da biliardo». La svastica sventolava sui pennoni dello stadio insieme alla bandiera inglese e a quella americana, mentre nel Royal Box gli ufficiali nazisti sorseggiavano del tè in compagnia di esponenti della casa reale.

È il giorno della finale interzone di Coppa Davis, Germania contro Usa, e di fronte a quattordicimila spettatori va in scena la più bella partita di tennis di tutti i tempi, quando ancora si giocava con i pantaloni di flanella lunghi e racchette di legno che sembravano mazze.
L’imberbe proletario yankee Don Budge, ex fattorino di Oakland, detto “Il Terrore Rosso” per il colore dei capelli, che ama il jazz e Bing Crosby (“datemi un suo disco e io smetto con il tennis), e impugna una pesante Wilson dal manico extralarge, affronta l’idolo del pubblico, l’elegante barone tedesco Gottfried von Cramm, di sei anni più grande, che invece utilizza una Dunlop dal manico sottile.

Alle soglie della Seconda guerra mondiale, il significato dell’incontro tra l’americano numero uno al mondo e l’aristocratico tedesco travalica i confini dello sport: Budge si batte per la gloria della sua patria, simbolo della libertà, von Cramm rappresenta la Germania hitleriana ma in realtà gareggia per la sua stessa vita.
Il barone tedesco è biondo, atletico, “gioca come giocherebbe Dio” ed è sposato con la seducente Lisa von Dobenek, ma è tutt’altro che l’archetipo dell’ariano vagheggiato da Hitler. Non si è iscritto al partito nazista ed è sorvegliato dalla Gestapo, a causa della sua omosessualità (“sintomo di degenerazione razziale”, ha tuonato il Führer) e delle sue amicizie con gli odiati ebrei. Il suo stesso amante è un ebreo galiziano, “Manny” Herbst, diciottenne.
La strategia di sopravvivenza del barone funziona sulla base dei successi collezionati sul campo. Come ha confidato al suo allenatore americano Bill Tildne (anche lui omosessuale): “Io qui mi gioco la vita. Loro sanno cosa penso e sanno di me”. Poco prima del match, arriva una telefonata imprevista: «Era Hitler, voleva augurarmi buona fortuna».

La partita per la vita dura cinque set. Il tennista yankee, passato in svantaggio di due set, recupera e raggiunge l’avversario tedesco. Il quinto set è epico: von Cramm torna avanti 4-1 ma Budge rimonta e sul 7-6, al suo quinto match-point, con un rovescio in tuffo manda la pallina miracolosamente nell’angolo. È la vittoria per l’americano.
Un anno dopo von Cramm finisce in prigione per reati di natura sessuale. In quello stesso periodo in Italia, a Ferrara, Giorgio Bassani, ottimo giocatore di tennis, come il protagonista de Il giardino dei Finzi-Contini, viene espulso dal circolo del tennis in seguito alle leggi razziali. Nel 1939 il barone tedesco prova a tornare a Wimbledon ma non viene ammesso: “Moralmente non adatto”. Intanto la moglie Lisa ha chiesto il divorzio, i suoi locali preferiti sono stati chiusi e i suoi amici ebrei sono perseguitati dai nazisti. Il mondo scivola verso la catastrofe.

(L'Unione Informa e portale Moked.it del 30 luglio 2013)

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Storie – Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa

di Mario Avagliano

Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti. Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia. Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo (Francesco Brioschi editore, pp. 192) di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni. Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 6 agosto 2013)

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Storie – Il silenzio sulle leggi razziste

di Mario Avagliano

Settantacinque anni fa, giovedì 17 novembre 1938, il regime fascista varava il Regio Decreto Legge n. 1728, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 264 del 19 novembre. Due giorni prima era stato approvato il Regio decreto legge intitolato n. 1779, intitolato Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana (GU n. 272, 29 novembre 1938). Proprio in questi giorni, quindi, Benito Mussolini e il suo governo dittatoriale davano il via al pacchetto complessivo delle cosiddette leggi razziali (meglio sarebbe dire razziste).

Il 75° anniversario, però, è passato in Italia quasi sotto silenzio. Le iniziative di ricordo di quei fatti sono state organizzate quasi soltanto in ambito ebraico. A parte la significativa iniziativa del comune di Trieste del 18 settembre scorso, tra le poche eccezioni citerei il convegno “A 75 anni dalle leggi razziali. Nuove indagini sul passato, ancora lezioni per il futuro”, in programma il giorno 10 dicembre 2013, dalle ore 9,30, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre (Sala del Consiglio, I piano, Via Ostiense 161). Nel corso dell’incontro verranno presentati i volumi di Michael A. Livingston, The Fascists and the Jews of Italy. Mussolini’s Race Laws, 1938–1943 (Cambridge University Press, 2013) e di Giuseppe Speciale (ed.), Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano (Patron Editore, 2013).
Tra le rare prese di posizione dei politici, va registrata quella del sindaco di Firenze Matteo Renzi che, nel corso della cerimonia nella sinagoga di Firenze per la consegna della medaglia e dell'attestato di ''Giusto fra le Nazioni'' a Gino Bartali, ha giustamente dichiarato: "Le leggi razziali furono un'atrocità immane, che noi troppo spesso facciamo finta di dimenticare. E' vero che c'è stato il nazismo, è vero che l'ideologia folle nasce da Hitler ma è anche vero che l'Italia fu colpevole di aver proclamato delle leggi razziali che poi entrarono nel vivo della vita quotidiana".
Il 2013 non è ancora terminato. Il mio auspicio personale è che ci siano altre occasioni per riflettere sulla responsabilità dell’Italia e degli italiani in questa pagina nera della nostra storia. Un capitolo col quale dobbiamo ancora fare i conti.

(L’Unione Informa e Moked.it del 19 novembre 2013)

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Storie - L'arte di Bruno Canova e le leggi razziste

di Mario Avagliano

Si può denunciare l’orrore della Shoah, delle leggi razziste del 1938, dei fascismi e della guerra anche attraverso l’arte. Ne è uno straordinario esempio il grande incisore e pittore Bruno Canova, scomparso lo scorso anno, uno dei più importanti esponenti della Scuola romana e pioniere della riflessione autocritica degli italiani su quel periodo storico.

Canova, che nel 1944-1945 era stato prigioniero in Germania per la sua attività partigiana, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dedicò al tema della responsabilità italiana nella persecuzione degli ebrei e alla tragedia della Shoah delle opere d’arte di grande forza evocativa che oggi, grazie agli studi compiuti dagli storici, appaiono davvero lungimiranti.
A questo ciclo di dipinti, quadri e bassorilievi, alcuni dei quali realizzati con la tecnica del collage, è dedicata una mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19). Consiglio vivamente di non perderla.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 dicembre 2013)

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