La Tangentopoli del Duce

di Mario Avagliano 

È una sera qualsiasi del 1975, a Genova. Sul palco si esibisce l’attore Walter Chiari e all’improvviso lancia una provocazione al pubblico. «Quando Mussolini fu appeso per i piedi a Piazzale Loreto – afferma -, dalle sue tasche non cadde nemmeno una monetina. Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle tasche di lor signori!» La cronaca non ci dice se la sua battuta venne accolta dagli applausi, ma non c’è dubbio che l’attore, che aveva trascorsi giovanili nella Repubblica Sociale, esprimeva un luogo comune sulla presunta onestà del duce e del regime fascista che è ancora diffuso in Italia.

Una “fake-news”, si direbbe oggi, che viene fatta a pezzi dal prezioso lavoro di ricerca di Mauro Canali e Clemente Volpini in «Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo» (Mondadori). Un saggio che, attraverso documenti inediti provenienti dal Ministero delle Finanze, versati all’Archivio Centrale dello Stato e messi solo da poco a disposizione degli studiosi, ci fornisce un’impietosa radiografia del malaffare in camicia nera, facendo i «conti in tasca» ai gerarchi. A partire dal capo assoluto del fascismo, che nel 1919 aveva fondato il suo movimento anche per combattere i profittatori di guerra (i cosiddetti “pescicani”), e che invece quando il 25 luglio 1943 perde il potere, è un uomo ricco, proprietario di numerosi terreni e immobili di pregio, molti dei quali prudentemente intestati alla moglie Rachele, e di un imponente complesso tipografico. Beni che saranno valutati, nel 1950, circa 2 miliardi. I vent’anni di potere assoluto hanno reso il «povero maestrino» e la «contadina sempliciona e rozza» di Predappio due ricchi borghesi.

La ricerca storica di Canali e Volpini prende le mosse all’indomani della caduta di Mussolini. È il 5 agosto e da pochi giorni il maresciallo Pietro Badoglio si è insediato al Viminale col suo governo tecnico-militare che ha spodestato il duce dopo un ventennio di regime, mettendolo agli arresti anche se, pudicamente, i giornali hanno parlato di "dimissioni". Quel giorno, però, bando alla prudenza: quasi tutti i quotidiani riportano una notizia sensazionale. Il governo Badoglio ha istituito una commissione con il compito d’indagare sulle fortune accumulate dai gerarchi: i cosiddetti illeciti arricchimenti del fascismo. Una vera e propria Tangentopoli ante litteram. Il duce e i ras del regime, un tempo intoccabili, temuti e riveriti da stampa e opinione pubblica, vengono sbattuti in prima pagina con l’accusa di corruzione e concussione.

Quello che il libro scoperchia è un autentico verminaio. Una storia di tangenti e appalti, di capitali che trovano riparo all’estero, di raccomandazioni, di festini e di sesso, di cricche e di prestanome; un intreccio perverso tra politica e affari, alla faccia del rigore e dell’onestà tanto proclamati dalla propaganda fascista. Vicende a tratti grottesche, con fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni del water, tesori sepolti in giardino. Verbali di sequestro dettagliati e scrupolosi che testimoniano gli illeciti arricchimenti del fascismo: ville favolose, palazzi, pellicce, arazzi, gioielli scintillanti, fino al numero di posate in argento, all’ultima pantofola, calza e mutanda dei gerarchi inquisiti. Solo in piccola parte questi patrimoni torneranno nei bilanci dello Stato.

Alla ribalta salgono nomi eccellenti. Si scopre ad esempio che Alessandro Pavolini, il Robespierre nero, ministro del Minculpop, boss del cinema di regime, è pronto a tutto, anche a cambiare le leggi, pur di far felice l’amante, l’attrice e icona sexy Doris Duranti (la prima, assieme a Clara Calamai, ad apparire sullo schermo con il seno nudo). L’integerrimo Roberto Farinacci, l’ideologo della purezza fascista, ha accumulato un patrimonio di centinaia di milioni: niente male per un ex ferroviere diventato avvocato copiando la tesi di laurea. Edmondo Rossoni, ex leader sindacale, considerato «la migliore forchetta del regime» e non solo perché usa pasteggiare con posate d’oro, si è invece costruito nel Ferrarese un vero e proprio impero immobiliare. Il mercimonio e la corruzione non risparmiano neppure le pratiche per ottenere l’arianizzazione: diversi ebrei per sfuggire in questo modo alle leggi razziste sono costretti a versare ai gerarchi fascisti pesanti tangenti. C’è poi Mussolini e i suoi «affari di famiglia», con gli intrallazzi di Galeazzo e Edda Ciano, l’avidità di donna Rachele e la rapacità del clan della famiglia della sua amante Claretta Petacci.

Un libro necessario quello di Canali e di Volpini, che smitizza una volta di più le presunte virtù del fascismo italiano, che fu un regime dittatoriale, guerrafondaio e razzista e non brillò neppure per integrità morale, lasciando all’Italia repubblicana una triste e penosa eredità di corruzione della politica e della burocrazia.

(Il Mattino, 26 agosto 2019)

 

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'1938. Diversi': ecco il documentario sulle leggi razziste contro gli ebrei

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2018, a pag. 32, con il titolo "Quando l’Italia capì di essere razzista", la recensione di Natalia Aspesi.

Prima fuori concorso alla Mostra, poi su Sky Arte, "1938. Diversi" il film di Levi e Treves per non dimenticare la vergogna di quei tragici eventi Quell’anno, il 1938, segnò il tempo del massimo consenso per il Duce: chi si aspettava da lui il riscatto, il predominio, la felicità, riempiva le piazze, persino più dei salviniani di oggi. La minoranza altra si occultava, spaventata, colpevolizzata, ridicolizzata ancor più di adesso, e allora in pericolo di vita. In un clima di tale asservimento entusiasta, bastarono cinque mesi, da luglio a novembre, per dividere gli italiani di serie A di "razza ariana" (in realtà molto miscelata), da quelli di serie B, perché di "razza ebraica". «Sono impressionanti le immagini di Benito Mussolini che nella Trieste del 18 settembre (in agosto era stato pubblicato il "manifesto della razza", ndr) raggiunge il palco da cui instaura l’antisemitismo come un fondamento dell’ideologia di regime».

Lo dice Sergio Luzzatto, storico e saggista, nel documentario di Sky Arte 1938- Diversi (il 4 settembre in anteprima fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia). «Per ricordare, per sapere, per capire, per risvegliare l’interesse dei giovani con un linguaggio diretto», dice il regista Giorgio Treves. «Anche io ne sapevo poco. I miei genitori avevano lasciato l’Italia nel 1940 con l’ultima nave diretta negli Stati Uniti, io sono nato a New York nel 1945. Della vita familiare a Torino mio padre non parlava mai». Il produttore Roberto Levi c’era, nel 1938 aveva 4 anni, ma la sua famiglia riuscì a fuggire in Svizzera prima dell’invasione nazista e l’inizio delle deportazione nel novembre del 1943. La velocissima campagna antiebraica si conclude il 14 novembre ’38 in parlamento dove, ricorda la storica Liliana Picciotto, «l’approvazione di questi decreti-legge avviene in un’atmosfera di consenso furibondo a Mussolini. In pochi minuti si decise la sorte degli ebrei d’Italia». 80 anni fa, uno dei nostri tanti, tragici, vergognosi anniversari. Da un diario, letto dall’attore Roberto Herlitzka: «La maestra chiamò il mio nome, e disse, "Bassi esci dalla classe". Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz. Solo, e scoppiai a piangere».

Liliana Segre, senatrice e sopravvissuta ad Auschwitz: «Molto spesso venivano in casa i poliziotti, ci trattavano da nemici della patria, con un atteggiamento di disprezzo, rude, di sospetto, che mi dava vergogna e paura, soprattutto paura». Aldo Zargani, scrittore: «Mi accorsi di essere ebreo, che stava cominciando qualcosa di terribile, il giorno in cui mio padre fu licenziato dall’orchestra dell’Eiar e diventammo una famiglia miserabile». Poco a poco, studenti e insegnanti ebrei vengono allontanati da ogni ordine scolastico: vietati i testi di autori ebrei, via dagli impieghi pubblici, via dall’esercito, via dal partito fascista (anche quelli fascistissimi che avevano partecipato alla marcia su Roma e si erano iscritti ancora prima), proibiti i matrimoni misti, allevare piccioni, avere una cameriera cattolica, affittare le stanze ai non ebrei, poi anche andare al mare. Su certi negozi c’era il cartello "vietato agli ebrei" ricordano senza stupore Luciana Castellina, Picciotto e altri. La minoranza ebraica italiana (uno su mille) era molto integrata soprattutto da quando, nel 1848 lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia — lo racconta lo storico Alberto Cavaglion — aveva concesso ogni diritto, compresa la fine dei ghetti, agli ebrei. Allora, si chiede il film, in che modo Mussolini, il fascismo, sono riusciti a "inoculare" negli italiani l’antisemitismo? Con l’incessante propaganda al cinema, alla radio, coi manifesti, con le parate, con le canzonette, con i giornali, con le esibizioni a torso nudo del Capo, persino con la moda e il lusso per i ricchi e la battaglia del grano per i contadini; tutti in divisa, adulti e bambini, libro e moschetto (adesso forse il moschetto, ma non il libro), con il martellamento sulla superiorità fisica e intellettuale degli italiani, anche se allora in parte analfabeti e stroncati dai lavori faticosi. Una festa continua, una festa nel 1935 con la guerra d’Etiopia, spiega lo storico Mario Avagliano, e il razzismo rancoroso contro i "negri", gli africani (che del resto è rimasto una bella eredità). Poi con la guerra di Spagna contro i comunisti, oggi molto dormienti, e Mussolini che dichiara: «Quando finirà la Spagna, inventerò qualcosa d’altro. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento». E inventa gli ebrei. Il documentario rappresenta la nostra pericolosa acquiescenza e fiducia al capo decisionista, in un tempo in cui non esistevano né tweet né selfie. Sfatata per l’ennesima volta l’idea degli italiani brava gente, perché se ci fu chi nascose e aiutò gli amici ebrei, tanti approfittarono della loro persecuzione o stettero zitti, come molti intellettuali. Non Toscanini, però e neppure papa Pio XI: morì prima che la sua enciclica antirazzista potesse uscire, ma disse «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui noi cristiani non dobbiamo aver nulla a che fare. Spiritualmente siamo tutti semiti». Hanno ragione gli autori a definire il film necessario perché «quegli eventi sia pure in modo diverso tornano a minacciare il nostro futuro. Abbiamo il dovere di mobilitarci e impedirlo». Con l’ultima immagine confusa di un carro bestiame verso il nulla, il doc si ferma sull’abisso del Dopo, per raccontare le responsabilità del Prima.

(pubblicato su informazionecorretta.com)

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#Venezia75 – 1938 Diversi, di Giorgio Treves

di Fabio Fulfaro

Oggi il mondo ci è precluso, siamo soli nello spazio che per noi è divenuto freddo e la sua ricca vastità ci è inaccessibile. Siamo terribilmente soli
Espulsi dall’ambiente, accettati nell’incertezza dei senza patria. Siamo soli come due ebrei soltanto possono essere soli.
Enzo Arian

Il 18 settembre 1938 a Trieste, facendosi largo tra due ali di folla in delirio, Benito Mussolini pronunciava uno dei suoi discorsi sulla inferiorità della razza ebraica e sulla necessità di mettere in atto provvedimenti che isolassero gli ebrei italiani in quanto “diversi”. Il 5 settembre e il 17 Novembre dello stesso anno venivano firmati due regi decreti che richiamavano gli odiosi comandamenti del Manifesto della Razza del precedente 14 Luglio: è la promulgazione delle leggi razziali e l’espulsione degli ebrei dalla vita pubblica.
A 80 anni da quell’infame periodo, Giorgio Treves e Luca Scivoletto con la produzione di Roberto e Carolina Levi per la Tangram Film, propongono un toccante documentario che alle interviste di diversi saggisti e storici alterna le dolorose testimonianze di chi quelle leggi le ha vissute sulla propria pelle. Attraverso il fuoco incrociato di racconti e documenti, si riesce a fare luce su uno dei momenti più oscuri della nostra storia. Uscito stremato dal primo conflitto mondiale, il popolo italiano sembra affascinato da una idea di nazione forte militarmente, cosciente della propria superiorità e desiderosa di espandersi in Africa (“libro e moschetto balilla perfetto”). Il colonialismo nostrano, che sfocia nella guerra di Etiopia, è caratterizzato da un razzismo e una intolleranza verso le persone di colore, giudicate inferiori. I discorsi populisti, le canzonette come Faccetta Nera, gli articoli tendenziosi sulla stampa e le vignette satiriche convergono tutte verso l’odio per l’africano, diventato pacco postale o merce di scambio, schiavo sessuale o manodopera da sfruttare. Finita vergognosamente la campagna coloniale africana, fallita miseramente la guerra di Spagna, Mussolini cambia obiettivo. E’ curioso pensare che prima del 1937, gli ebrei erano comunque rispettati per il loro sacrificio durante la I guerra mondiale e alcuni di loro aderivano con convinzione al Partito Nazionale Fascista. Per questioni meramente politiche (l’allineamento con il partito nazionalsocialista tedesco) proprio nel 1937 il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) aveva organizzato attraverso la stampa, la radio e il mezzo cinematografico una campagna mediatica diffamatoria che discriminava gli ebrei, dipinti come vigliacchi, avidi di denaro, traditori della patria.

Treves fa analizzare le cause di questa follia ideologica attraverso le parole apparentemente asettiche di studiosi ed esperti come Mario Avagliano, Sergio Luzzatto, Liliana Picciotto, Alberto Cavaglion, Luciana Castellina, Michele Sarfatti, Marcello Pezzetti, Edoardo Novelli, Walter Veltroni. I devastanti effetti li ascoltiamo attraverso i terribili ricordi di Rosetta Loy, di Alessandro Treves, di Roberto Bassi, di Bruno e Liliana Segre: le umiliazioni a scuola, l’isolamento dalla vita civile, le fughe precipitose in America o in Svizzera, la deportazione ad Auschwitz da quel maledetto binario 12 della Stazione Centrale di Milano.
Quando il discorso tende a farsi più personale, Treves saggiamente inserisce delle animazioni che fanno da filtro a questo materiale emozionale. Mantenere vivo il ricordo significa prevenire quello che Umberto Eco chiama l’eterno ritorno del fascismo, pronto a manifestarsi quando alla regressione economica si associa una rapida involuzione culturale. Scorre più di un brivido lungo la schiena mentre Roberto Herlitzka declama le parole di Enzo Arian o quando Liliana Segre parla di una linea nera continua che parte dalla firma di Vittorio Emanuele (il regio decreto sui Provvedimenti per la razza italiana) e si ingrossa sui binari di un treno per l’inferno.
Giorgio Treves non si limita a narrare i fatti ma propone una via per risorgere dalle ceneri di questo passato ignobile: dei ragazzi fuori dalla scuola ridono e parlano spensieratamente, forse è da loro che bisogna ripartire, perché le nuove generazioni non possono non sapere. Queste immagini e questa sofferenza devono servire a futura memoria, se la memoria ha un futuro.

(pubblicato su sentieriselvaggi.it)

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“1938. Diversi” di Giorgio Treves è tra i vincitori dei Nastri d’Argento per i Documentari 2019

Il film documentario “1938. Diversi” di Giorgio Treves è stato premiato durante la cerimonia di consegna dei Nastri d'Argento per i Documentari 2019 come "Miglior Documentario - Cinema del reale".

Prodotto da 
Tangram Film in collaborazione con Sky ArteMibactAB Groupee AAMOD, e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund, “1938. Diversi” mostra come articoli, vignette, fumetti e filmati contribuirono a trasformare, in pochi mesi, gli ebrei dapprima in "diversi" e poi in nemici della nazione. La voce di alcuni testimoni diretti, la ricostruzione di episodi realmente accaduti e il contributo di importanti studiosi di storia (tra cui Mario Avagliano, Michele Sarfatti, Sergio Luzzatto e Alberto Cavaglion) aiutano a comprendere il ruolo decisivo che i mezzi di comunicazione di massa ebbero in una delle vicende più tragiche dell'umanità.

Nastri d'Argento sono l’iniziativa più importante nel calendario delle manifestazioni organizzate dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani
Riconosciuti dal 
MiBACT Premio di Interesse Culturale Nazionale, sono il più antico riconoscimento per il cinema italiano, secondi nel mondo, per ‘anzianità’, solo agli Academy Awards: i giornalisti cinematografici iscritti al SNGCI li assegnano infatti dal 1946, attraverso un voto con scrutinio notarile, che premia ogni anno i migliori film, autori, interpreti, produttori e tecnici.

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Quando Mussolini incantò Hemingway

di Mario Avagliano
 
Il grande bluff del fascismo e di Benito Mussolini abbagliò non solo milioni di italiani, ma anche buona parte della stampa internazionale (oltre che politici di lungo corso o alle prime armi, da Winston Churchill al giovane John Kennedy). I corrispondenti americani nel Belpaese, dopo la marcia su Roma, per diversi anni fecero a gara a intervistare il dittatore italiano ed espressero la loro ammirazione per il duce dal “famoso cipiglio stampato sul volto”, come lo definì nel 1923 lo scrittore Ernest Hemingway, futuro premio Nobel per la letteratura.
 
Lo stesso Hemingway, che anni più tardi in Spagna si scaglierà con veemenza contro i fascisti di Franco, già nel giugno del 1922, dalle colonne del “Toronto Daily Star”, aveva difeso Mussolini dagli attacchi di violenza politica: “È un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi, non è il mostro che è stato dipinto, non è come viene descritto, non è un rinnegato socialista, ha avuto molte buone ragioni per lasciare il partito”.
 
E se Hemingway fu tra i primi a capire chi fosse realmente Mussolini e a ritrattare le sue posizioni, stigmatizzandolo come «il più grande bluff d’Europa», ci fu invece chi rimase a lungo ottenebrato dal duce e ne tessé le lodi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, come racconta il saggio di Mauro Canali intitolato “La scoperta dell’Italia” (Marsilio, pp. 480), vincitore del Premio Fiuggi Storia.
 
In effetti il movimento fascista, inventato in Italia (spesso ci si dimentica di questo non invidiabile primato nazionale) e poi esportato all’estero, fenomeno nuovo e sconosciuto alla cultura politica del mondo occidentale, si rivelò agli occhi della stampa estera un enigma difficile da decifrare e narrare. E diversi giornalisti presero lucciole per lanterne, ignorando la soppressione delle libertà imposta dal regime fascista ed arrivando ad attribuire a Mussolini una riforma del capitalismo unita all’umanitarismo sociale, almeno prima che la guerra in Etiopia e le leggi razziste del 1938 rivelassero la vera identità del fascismo.
 
Furono numerose le testate statunitensi, dal Chicago Daily News al Chicago Tribune, dal Public Ledger di Filadelfia al New York Herald Tribune al New York Times, che ospitarono articoli favorevoli al fascismo, come risulta dalla ricerca di Mauro Canali. Anzi l’arrivo al potere del fascismo indusse molte agenzie e giornali ad aprire uffici di corrispondenza a Roma (sottoposti peraltro a sorveglianza dal regime). II duce venne descritto dai giornalisti americani come un dittatore buono, un vero “Man of People”, un uomo di governo abile, spregiudicato e dinamico, conquistando anche corrispondenti di sicura fede democratica, come Walter Lippmann, vincitore poi di due premi Pulitzer e schieratosi negli anni Sessanta contro la guerra in Vietnam; Ida Tarbell, detta la «rossa radicale» per la vicinanza alle posizioni del movimento socialista americano; Anne O’Hare McCormick, che sul supplemento domenicale del New York Times definì il fascismo giusta espressione della rivolta dei giovani «stanchi degli armeggi dei parlamenti»; e perfino la marxista e femminista Louise Bryant, moglie di John Reed, che era stata con lui in Russia nei giorni della Rivoluzione d’Ottobre.
 
Per molti anni Mussolini, si legge nel saggio di Canali, “godette di grande popolarità presso la stampa americana”, che esaltò il decisionismo, l’iperattivismo e la ferrea volontà del giovane dittatore nell’imporre regole a un popolo che in fondo consideravano anarchico, paragonandolo addirittura a Theodore Roosevelt. Le cause dell’abbaglio? Il merito attribuito al duce di aver salvato l’Italia dal “red scare”, il pericolo rosso, e di averla modernizzata, ma anche la scelta del regime fascista dell’intervento statale nell’economia, sul modello del New Deal di Roosevelt, e della risoluzione dei conflitti sociali attraverso il corporativismo.
 
Ma vi fu anche chi non cadde affatto nella trappola verbale di Mussolini, come il romanziere Francis Scott Fitzgerald, che giunto a Roma nel 1924 con la moglie Zelda, parlò subito di Italia come una terra morta e criticò lo pseudodinamismo del duce, definendolo un “tiranno”.
 
(Il Mattino, 22 febbraio 2018)

Storia degli italiani che a Salò si schierarono dalla parte sbagliata

di Concetto Vecchio

Cosa spinse migliaia di uomini e donne, spesso giovanissimi, ad aderire, a fascismo caduto, alla Repubblica sociale di Salò? Lo fecero per un’estrema convinzione ideale, per patriottismo, per fede nel Duce, certo; ma anche per “proteggere la famiglia”; “per non perdere il posto”; “per evitare l’internamento ideale”, come emerge dal campione di motivazioni riportato da Mario Avagliano e Marco Palmieri in L’Italia di Salò 1943-1945, edito da Il Mulino. Un saggio rigoroso che fa i conti con questi italiani che decisero di combattere dalla parte sbagliata, per mettersi, dopo il Ventennio, e i disastri della guerra, ancora una volta al servizio di Mussolini.

A lungo la Rsi fu un tabù per gli studi storici. Da un lato i reduci diedero vita a una storiografia spesso di parte o apologetica. Nel campo antifascista si negò ogni dignità a coloro i quali, dopo l’8 settembre, militarono nella rifondazione fascista: i fascisti, durante la guerra civile, li avevano etichettati come banditi, fuorilegge e animali. Ma a pesare, nella valutazione del campo antifascista, c’erano le indicibili violenze di cui gli aderenti alla Rsi si macchiarono contro la popolazione civile e i partigiani nel crepuscolo della loro esperienza. Avagliano e Palmieri mettono in fila le impressionanti cifre, tratte dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 1943-45: furono uccisi 23662 civili per un totale di 5626 episodi violenti e criminali. A questa macabra contabilità i militari della Rsi contribuirono nella misura del 20 per cento.

Ora l’approccio degli autori è scientifico e cerca di fornire delle risposte con una prospettiva storica. «Perché molti giovanissimi compirono quella scelta, che tipo di esperienza vissero sotto le armi coloro che combatterono per Salò, cosa sapevano della Resistenza, e come la giudicavano?»: una congerie di motivazioni che Giorgio Bocca definì, con un’espressione icastica, «la pentecoste dei diversi». Quindi questo libro è anche un’indagine sugli italiani. «Ritornato dalla Francia quale fuoriuscito ritenni opportuno – confessa Luigi, classe 1892, di Lumezzane – aderire alla Rsi perché avevo otto figli e mi si disse che solo con l’iscrizione avrei potuto trovare il modo di sostenerli».

(la Repubblica, 19 giugno 2017)

 

Italia nera, Italia rossa, Italia liberata

di Andrea Rossi

Con “L’Italia di Salò” (Il Mulino, 2017), Mario Avagliano e Marco Palmieri proseguono la loro opera di scavo nel “come eravamo” della nostra nazione, e come nei volumi precedentemente editi, emergono dettagli importanti trascurati in altri studi sul passaggio traumatico dal regime fascista alla democrazia in Italia. Avevamo lasciato in Vincere e vinceremo, un paese stremato e maturo per il collasso istituzionale soprattutto a causa del crollo del fronte interno, ma con ancora fiammate di sincero appoggio al fascismo e alla guerra mussoliniana.

La scomparsa del duce dalla scena politica provoca l’ira sorda dei fascisti, i quali, a differenza di come è stato detto e scritto per decenni, non si nascondono e non si convertono, anzi, in molti casi già iniziano a pensare al “dopo” che ritengono inevitabile, ossia l’arrivo dei tedeschi per il ristabilimento dell’ordine interno e delle alleanze belliche. Se quindi il 25 luglio provoca sgomento e desiderio di vendetta fra le camicie nere e fra i tanti simpatizzanti di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre è il momento in cui, drammaticamente emergono le fratture nel tessuto sociale della nazione, seguendo fratture già “in nuce”: dittatura contro democrazia, onore contro libertà, volontarismo contro l’attendismo; il ritorno di Mussolini, la fondazione di uno stato fascista sotto l’aquila nazista e il proseguimento della guerra saranno poi le condizioni perché questo magma ribollente inizi a percorrere l’inevitabile sentiero della guerra civile.

Da nessuno voluta (almeno a parole) ma da tutti combattuta, la lotta fratricida sarà lo stigma dei seicento giorni di Salò, con gradazioni diverse di partecipazione: dai soldati in grigioverde reclutati con i bandi emessi da Rodolfo Graziani, che per evitarla diserteranno in modo massiccio, spesso verso le formazioni partigiane (ma anche semplicemente per tornare a casa), alle brigate nere che hanno nel loro dna la repressione dell’antifascismo e della resistenza.

Nel vortice finiranno tutti: uomini e donne, giovanissimi e squadristi del ’22, torturatori e galantuomini, profittatori e persone perbene: come spesso accade, nella resa dei conti conclusiva di una guerra civile, il conto sarà pagato in solido non dai più colpevoli ma quasi sempre dai meno furbi, mentre molti fra i capi riuscirono a passare indenni dalla bufera successiva al 25 aprile 1945. Avagliano e Palmieri indagano con maestria questi “cluster”, e fanno luce sulle motivazioni di alcuni protagonisti, ma soprattutto dei tanti comprimari, tratteggiando una comunità disperata e assieme orgogliosa, spietata e talvolta umanissima, che finì per trovarsi dalla parte sbagliata della storia.

 

(Orientamenti, 1° giugno 2017)

Le "ragioni" dei vinti. La recensione di Avvenire

di Angelo Picariello

La storia dei vinti raccontata da loro stessi, "dal basso", dalle memorie minime dei protagonisti, al momento di arruolarsi, o alla fine di tutto, coi plotoni di esecuzione già schierati. L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri ripercorre le vicende del biennio che divise l’Italia in due, sul piano ideologico e territoriale: dal Gran Consiglio del 24 luglio 1943 che portò alla rimozione, da parte del re, di Benito Mussolini e al suo arresto, fino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione. Passando per l’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre, ma annunciato la sera dell’8; il blitz tedesco che portò alla liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, l’annuncio della nascita della Repubblica Sociale da Radio Monaco, il 18 settembre.

Un vuoto storiografico già colmato dal racconto in chiave "reducistica" di Giorgio Pisanò, dalle ricerche di Renzo De Felice e Aurelio Lepre, dalla narrativa storica di Giorgio Bocca e Gianpaolo Pansa, dai saggi a quattro mani di Indro Montanelli e Mario Cervi. Ma questo nuovo, prolifico, binomio Avagliano-Palmieri si addentra soprattutto nella documentazione privata, nei racconti di vita vissuta sempre necessari a completare il delinearsi di un quadro storico, ma particolarmente determinanti nel definire gli eventi di un regime istituzionale provvisorio che, per forza di cose, ha lasciato poche fonti ufficiali cui poter attingere.

Vicende umane da inserire «nella temperie di una guerra totale che, in nome di contrapposte visioni ideologiche, vide scontrarsi eserciti regolari, formazioni altamente politicizzate, movimenti resistenziali, gruppi etnici, fedi religiose e non risparmiò la popolazione civile». Sullo sfondo le alterne vicende della guerra, ma anche le nuove motivazioni che fornì, appena prima del tracollo definitivo, il celebre discorso di Mussolini al teatro lirico di Milano il 16 dicembre 1944. Nomi famosi finirono dalla parte sbagliata, facendo la scelta che parve loro più coerente, come disse ad esempio l’attore Raimondo Vianello spiegando la sua, o anche solo più conveniente, come affermò candidamente Dario Fo, motivandola semplicemente con l’obiettivo di "portare a casa la pelle". Giornalisti come Enrico Ameri o Livio Zanetti, attori come Walter Chiari, Carlo Dapporto, Giorgio Albertazzi (che si definirà «non fascista» e spiegherà la sua adesione con l’idea di «orgoglio nazionale ») o Enrico Maria Salerno. Divertente il racconto di quest’ultimo che, ricorrendo ai suoi virtuosismi di guitto, tenterà di sfuggire all’arresto fingendosi matto e riempiendo di ingiurie la commissione che lo interrogava.

Tanti giovani si arruolarono convinti che il no alla monarchia asservita alle convenienze dei ceti borghesi traditori fosse la scelta giusta. «È con le lacrime agli occhi – scrive da Bologna ai suoi un giovane entrato nei bersaglieri – ma col cuore fermo che vi comunico la mia decisione. Voi mi avete educato nel culto della nostra cara Patria e mi avete insegnato ad amarla. Roma stessa è in pericolo, perciò tocca a noi giovani indomiti difenderla».

Anche la Chiesa fu attraversata da divisioni, a seguito di una precisa strategia perseguita dal fascismo repubblichino, che fin dall’assemblea di Verona del novembre 1943 si propose di «avvicinare cordialmente i sacerdoti», per «indurli a esprimersi pubblicamente con le parole e con la stampa» in favore della Rsi. Sacerdoti risposero positivamente, come don Vittorio Genta che all’inizio del 1944 invia una circolare ai parroci della diocesi di Asti affinché si attivino nel portare sulla «buona strada renitenti e disertori». E che non fu solo una storia di diverse convenienze lo dimostra il racconto minuzioso, in gran parte inedito, delle tante adesioni nelle regioni dal Sud. Sud già liberato dagli Alleati, dove il re aveva cercato riparo e dove il fascismo era da tempo un lontano ricordo.

(Avvenire, 26 maggio 2017 - pag. 13)

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