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Orlando si confessa: "Voglio fare un film sulla mia città"

di Mario Avagliano
 
Anche dal vivo, Angelo Orlando, l’attore e regista salernitano, ora mattatore del "Maurizio Costanzo Show", ha la voce flebile dell’indimenticabile personaggio di "Pensavo fosse amore invece era un calesse", diretto e interpretato da Massimo Troisi. In questi giorni a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli, sta andando in scena, con grande successo di pubblico, la sua nuova commedia, "Barbara", che vede tra i protagonisti Valerio Mastandrea. Ma Orlando, che in appena quattordici anni, dall’88 ad oggi, ha macinato già 17 film come attore, 2 film come regista, 3 film come sceneggiatore, 6 commedie teatrali come autore, 2 libri, più svariate partecipazioni a fiction e varietà televisivi, rivela di sentirsi ancora "quel ragazzo che tirava calci a un pallone in un campetto di Torrione". Poi ricorda due grandi del cinema italiano con i quali ha lavorato, Federico Fellini e Massimo Troisi, e annuncia: "Mi piacerebbe raccontare una storia, magari un film, e ambientarlo tutto a Salerno..."
 
Com’era Angelo Orlando da ragazzo?
Per me ogni cosa ha origine in quel periodo. Prima d'intraprendere qualsiasi iniziativa, devo chiedere il permesso al ragazzo che sta ancora lì, in una grande pianura piena di facce di ragazzi che, come me, vivevano giorno per giorno nel quartiere di Torrione, inventandosi mille modi per passare la giornata. La cornice era quella classica: una vecchia fabbrica abbandonata, la Marzotto, due binari della ferrovia, un campetto polveroso e, tutt'intorno, un agglomerato di mistero, perché il mio mondo si fermava lì, in quel quartiere.
Ha trascorso tutta l’adolescenza a Torrione?
No, i miei si trasferirono e io mi ritrovai, da un quartiere metropolitano come Torrione, nel deserto che era la litoranea a metà degli anni settanta. I vecchi compagni di quartiere, con i quali avevo condiviso giochi e sogni, non li rividi più. Per me cominciò un periodo più riflessivo. Mi ricordo che a scuola, quando mi chiedevano: "dove abiti?" e io rispondevo "sulla litoranea!", i miei compagni di classe facevano una faccia come se gli avessi detto: "a Belgrado!".
Che scuola frequentava?
Il Liceo Ginnasio "Tasso", a Piazza San Francesco. Fu in quel periodo che cominciai a scoprire Salerno. Certe mattine non andavo a scuola apposta perché volevo girarla tutta. Facevo lunghe passeggiate che duravano l’intera mattinata, poi andavo a casa dei miei nonni, insieme ai miei fratelli. Mio padre ci veniva a prendere e ci riportava nell’inverno solitario della litoranea. I miei compagni di classe non li frequentavo. Mi sentivo molto solo. Fui bocciato ma, per fortuna, l'anno successivo, nella nuova sezione, le cose andarono meglio. Ci fu qualcosa che si sbloccò dentro di me. Legai moltissimo con i nuovi compagni e, con tanti di loro, sono ancora in contatto.
Negli anni del liceo s’iscrisse alla scuola di recitazione di via delle Botteghelle. Chi erano i suoi compagni?
In via delle Botteghelle eravamo una ventina di ragazzi. Molti di loro non hanno proseguito, altri invece continuano ad occuparsi di teatro, come Rossella Valitutti e la sua associazione "traccedombra", oppure sono diventati registi apprezzati, come Bruno Montefusco, che è stato uno dei primi a portare in scena una delle mie commedie, o come Pasquale De Cristofaro, un altro bravo regista che ho ritrovato qualche anno fa a Salerno al Teatro Nuovo. Ci accomunava la passione per il teatro, forse l'età, eravamo tutti giovanissimi, insieme alla convinzione che, per riuscire a far qualcosa in più, bisognava andar via da Salerno. Io devo molto a Gianni Caliendo, che aveva fondato la scuola e la dirigeva. In quel periodo, per me, più che maestro fu una specie di faro.
Perché un faro?
Gianni era tornato dopo essersi diplomato all'Accademia Silvio D'Amico a Roma e voleva creare qualcosa d'importante a Salerno. Era pieno di entusiasmo, ma soprattutto aveva qualcosa in più, che mi disorientava: era serio. Mi ricordo che una volta non mi fece partecipare alle lezioni perché ero arrivato con dieci minuti di ritardo. Aveva una passione che gli usciva dagli occhi. Non vedevo l'ora di andare a seguire i suoi corsi. Tutto era rivoluzionario per me e mi scuoteva nell'intimo: le tecniche di respirazione e di rilassamento, il recupero dei sentimenti. Mi avevano sempre detto che fare l'attore era qualcosa che riguardava il talento e basta. Lì, ai corsi e alle lezioni di Gianni, apprendevo e constatavo che il talento da solo non poteva bastare. C'era bisogno di educarlo, giorno per giorno.
E' vero che la svolta della sua carriera fu dovuta a un corso di animazione della Regione Campania?
No, il corso di animazione organizzato dalla Regione Campania è stato solo uno scossone nella mia vita. Era un periodo che non sapevo cosa fare. Ero finito in un vortice di pigrizia. I sogni erano troppi e l'immaginazione aveva preso il sopravvento. Passavo i giorni davanti alla tv e ogni mese andavo a timbrare il cartellino al collocamento. Mi ero iscritto all'università ma procedevo per inerzia. Un giorno mi chiamò un amico e mi propose di fare un colloquio per un corso di animatore turistico. Mi disse che era il lavoro del futuro: "mare, vacanze, tante donne e ti pagano pure!".
Che c’entrava il corso per animatori con il cinema?
Tra le materie c'era anche Cinema. Mi ricordo che aspettavamo con ansia l'arrivo del professore che però, durante l'anno scolastico, si presentò una volta sola. Era Claudio Gubitosi, l’attuale direttore del Festival di Giffoni. Ci fece una lezione unica di cui non capimmo neanche una parola, ma che ci coinvolse totalmente. Ci parlò di macchine da presa, di inquadrature, di sceneggiatura e di un festival che stava organizzando da qualche anno. Poi non lo vedemmo più. Ci dissero che era troppo occupato e che tanto, il cinema non c'entrava molto con l'animazione. Probabilmente neanche Claudio Gubitosi sa che la prima lezione di cinema me l'ha data lui.
Come avvenne il suo distacco da Salerno?
In modo graduale. Direi quasi con il contagocce. Andavo via d'estate perché dovevo fare la stagione nei villaggi turistici. Poi tornavo ad ottobre, frequentavo i corsi di lingue alla vecchia università di via Vernieri, davo qualche esame, ma poi, arrivava un'altra estate e ripartivo. Quando cominciai a fare l'animatore anche d'inverno, il distacco fu quasi completato, ma non ho mai sentito un vero allontanamento, neanche quando mi sono trasferito definitivamente a Roma. Salerno l'ho sentita più vicina proprio nel momento in cui ho capito che l'avevo lasciata.
Come nasce l’Angelo attore e regista? Quali sono i suoi inizi?
L'inizio è sempre una favola, almeno nel ricordo. In questo caso, la favola è Roma nella primavera del 1986. Era da un po' che avevo in mente di voler provare a fare il comico sul serio. Fino ad allora lo avevo fatto solo nei villaggi turistici. L'inverno precedente ero andato a fare un provino al Derby di Milano, ma Arturo Corso, il direttore artistico del Derby, mi disse che non bastava essere "napoletano" per far ridere. Questa cosa mi umiliò un po' ma mi diede più coraggio.
E che cosa fece?
Cominciai a guardare tanto cabaret e a studiare la comicità di quel periodo. Erano i tempi in cui c'erano Aldo e Giovanni senza Giacomo, Marco Milano, Enzo Jacchetti, Giobbe che lavorava in coppia con Victorhugo. Tornai a fare l'animatore e l'anno successivo ci riprovai. Questa volta a Roma. Mi avevano parlato di un locale dove non c'era bisogno di provini per salire sul palco e affrontare il pubblico. Questo posto si chiamava "Alfellini" e il direttore artistico era Marcello Casco. Marcello Casco era un tipo grande e grosso e dal tono burbero: appena mi vide mi disse che per lui non c'erano problemi, se avessi avuto il fegato di esibirmi nel suo locale, lo potevo fare a mio rischio e pericolo. Mi spiegò che ad un certo punto della mia esibizione si sarebbe accesa una luce e solo in quel preciso istante, se la mia esibizione non fosse stata gradita al pubblico, avrei potuto essere il bersaglio di un fitto lancio di sacchetti di segatura di cui la gente era dotata. Io accettai.
Come andò?
Bene. Fu un sollievo sentire la gente ridere fin dalle prime battute. La luce si accese e invece dei sacchetti, fui sommerso dagli applausi. Marcello Casco a fine serata, mi disse che ero stato promosso e che ero entrato a far parte della sua compagnia. Nel locale di via Carletti ci passai due anni. Ero troppo contento di esibirmi tutte le sere. L'Alfellini era una vetrina incredibile. Alla fine delle serate ci fermavamo tutti a mangiare lì e Marcello ci deliziava con i suoi aneddoti che ci facevano sbellicare dalle risate. Era un periodo di grande entusiasmo ma anche di sacrifici enormi. Ero sempre senza una lira. Certe notti, in tasca non c'erano neanche i soldi per comprare il biglietto del notturno, perciò ero costretto a tornare a casa a piedi e, dato che abitavo in un casolare dall'altra parte di Roma, partivo nel cuore della notte e arrivavo a casa all'alba.
Nel 1989 arriva l’incontro con Federico Fellini, in "La voce della luna". Come conobbe Fellini e che le è rimasto di quella straordinaria esperienza?
Alla fine degli anni ottanta avevo già lavorato in diversi varietà televisivi. Avevo formato un duo di cabaret con un mio amico e collega dell'Alfellini. Ci chiamavamo Orlando & Russoniello e stavamo cominciando a far parlare di noi, perché facevamo un cabaret strano e folle. Entravamo in scena e parlavamo a raffica, esasperando il linguaggio con due modi di essere decisamente fuori dalle righe. Attorno a noi si era formata una certa curiosità, ma relegata all'ambiente. Non eravamo ancora conosciuti al grande pubblico. Il nostro agente ci propose di fare la rassegna di Riso in Italy che si sarebbe tenuta al teatro Sistina. La prima sera, dopo il nostro sketch, si aprì all'improvviso la porta del nostro camerino e apparve Fellini. Era emozionato come un bambino e ancora si asciugava gli occhi dalle lacrime. Ci disse addirittura che non aveva mai riso così in vita sua. Ci disse che due pazzi così non li aveva mai incontrati e voleva sapere tutto di noi. Voleva sapere qualsiasi cosa. Io non riuscivo a crederci, ma Fellini era più emozionato di noi. Lo giuro. Sembrava che avesse trovato finalmente quello che cercava da tempo. Ci disse che stava preparando un film e che voleva assolutamente affidarci un ruolo.
Fu ingaggiato subito?
Dopo qualche giorno lo andammo a trovare negli studi sulla Pontina, dove stava allestendo il set. Ci raccontò tutto il film. Quando cominciò a raccontarmi il personaggio che voleva affidarmi, mentre mi parlava disegnava con matite colorate su un foglietto di carta. Poi mi fece vedere il disegno e io capii che ero diventato un personaggio felliniano. Mi veniva quasi da piangere. Mi sembrava una specie di sogno. Alla fine ci riaccompagnò alla macchina. Dallo specchietto vidi che stava ancora lì, in piedi che ci guardava allontanarci. Mi voltai verso Roberto e gli dissi: "Fellini sta ancora lì che ci saluta!".
Due anni dopo la chiama Massimo Troisi e recita al suo fianco in "Pensavo fosse amore e invece era un calesse", che le frutta anche il Premio David come migliore attore non protagonista.
Le riprese di quel film furono una vacanza a Napoli. Massimo Troisi era un uomo gentile e delicato. Per me è stato il calore di un incontro. La gioia e la consapevolezza di aver sfiorato una grande energia. Era qualcosa nello suo sguardo, forse era un attimo di silenzio in più... forse era qualcosa che aveva a che fare con la comprensione che custodiscono dentro di loro i personaggi straordinari. Era la sua attenzione e il suo modo di parlarti che ti metteva a nudo. Con Massimo era tutto più semplice perché lui era così, un uomo semplice. Un mago della semplicità. Quando vinsi il David di Donatello mi chiamò e mi disse: "l'ho sempre saputo!".
Nella sua carriera di attore, oltre che da Fellini e Troisi, lei è stato diretto da Monicelli, Nichetti, Nanni Loy, Maurizio Ponzi, e anche da giovani registi come Farina, Apolloni. A chi deve di più? Oppure, chi l’ha colpita di più?
Ogni regista con cui ho lavorato ha lasciato una traccia dentro di me. Non ho mai vissuto il set da semplice attore. Non mi sono mai chiuso in roulotte, ma sono sempre stato attento a quello che mi succedeva intorno. Un regista con cui lavorerei di nuovo è Enzo Decaro e, al di là del fatto che mi chiami a lavorare con lui, io spero che ritorni presto dietro la macchina da presa, perché credo che il cinema abbia bisogno di lui e della sensibilità di un artista come lui. Un altro regista con cui ho lavorato e che mi piacerebbe facesse un film dietro l'altro, se non altro per la dedizione e il "troppo amore" con cui affronta ogni sua iniziativa, è Francesco Apolloni.
Nel suo curriculum, figura anche la televisione: Doc International Club, con Renzo Arbore, e ora il Maurizio Costanzo Show. Meglio Arbore o Costanzo? Che differenza c’è tra le due esperienze?
Tra le due esperienze, la sostanza che rende la vera differenza, è il tempo. Comunque, apparire in televisione mi dà sempre un po' di fastidio perché devo essere identificato in quello che fa quella cosa. Identificare qualcuno in qualcosa è sempre sbagliato perché uno non è mai così come appare.
L’Orlando di oggi è soprattutto regista e scrittore di testi teatrali e di sceneggiature di film. In questi giorni, a Roma, sta andando in scena una sua esilarante commedia, "Barbara". Di che parla?
Barbara è la storia di un'attesa. E' un microcosmo dove imparare a riconoscere una presenza da un'assenza. Barbara è anche poesia, ma può diventare dolore e tortura. Barbara è la necessità di imparare ad aspettare, ma è anche esasperazione di un'attesa dove ogni cosa portata al limite, diventa un gioco dell'assurdo.
Sarà programmata anche al Teatro Verdi di Salerno?
Sarebbe un altro sogno che si realizza.
Tra i tanti testi che ha scritto per il cinema e per il teatro, ci sono riferimenti autobiografici o riferimenti a Salerno?
Salerno è tutto quello che appartiene al cuore ed il cuore è la sede di ogni emozione. Devo sempre fare i conti con il cuore prima di raccontare qualcosa. E Salerno e il suo ricordo è sempre lì che mi aspetta. Mi piacerebbe raccontare una storia, magari un film e ambientarlo tutto a Salerno. Prima o poi lo farò...
A proposito di Salerno, ha nostalgia della sua città? E se sì, di che cosa?
La nostalgia ha un odore preciso. E la nostalgia di Salerno, ha l'odore del ritorno. Certe notti, passando in macchina dall'autostrada, e vedendo le luci della città in cui sono nato, mi sono commosso. Devo dire grazie a questa commozione perché per ogni goccia di sentimento speso per la mia città, il mio cuore si alimenta e sento che dentro di me nasce qualcosa d'importante che mi fa dire: "è bello essere nati proprio qui!".
Ha amici a Salerno che frequenta ancora?
I miei amici sono andati quasi tutti via. Comunque torno spessissimo a Salerno perché mio padre e mia madre vivono ancora lì.
Nell’ambiente dello spettacolo, ci sono salernitani promettenti?
Lo scenografo di molti miei lavori teatrali è salernitano. Si chiama Paki Meduri ed è un giovane promettente, nonché un artista di grande talento. Gli artisti salernitani sono molto stimati a Roma: penso ad alcuni musicisti che nell'ambiente sono considerati come dei veri maestri, come i fratelli Deidda. Ci sono giovani attori emergenti, come Beatrice Fazi e Yari Gugliucci. Per non parlare della scuola salernitana di fumetti, che sforna talenti straordinari come Bruno Brindisi e Luigi Siniscalchi. Lo spettacolo così come il mondo artistico è pieno zeppo di salernitani che sembrano esplodere da un momento all'altro, però…
Però?
Io li osservo e gioisco quando vedo qualcuno di loro emergere, ma vorrei che non si accontentassero di avere quel successo da cui si può essere sfiorati. L'importante non è brillare, ma è sforzarsi giorno per giorno e lottare per non piazzarsi là dove la corrente ci trascina, ma provare ad andare contro corrente e mettersi sempre in discussione. Nell'arte non bisogna mai accontentarsi.
Com’è Angelo Orlando nel privato? Timido come nel film di Troisi? Ironico come con Arbore e Costanzo?
Non lo so. Anzi, so di non riuscire a saperlo. Certe volte mi stupisco da solo perché ho un atteggiamento che non avevo mai estratto dal cilindro. Sono timido ma posso essere di un coraggio estremo. Dentro di me esistono tanti comportamenti e so che metterli tutti insieme in ordine per formare qualcosa di unico, è un'impresa quasi impossibile. Di sicuro posso dire che posso essere molto diverso da come certe volte appaio.
Che ha in serbo per l’immediato futuro?
Non lo so ancora. Per il momento aspetto ancora Barbara, come i due protagonisti della mia commedia.
E sogni nel cassetto?
Svuotare questo benedetto cassetto…
 
 (La Città di Salerno, 26 gennaio 2003)
 
Scheda biografica
 
Angelo Orlando è nato a Salerno il 6 dicembre del 1962. Dopo aver frequentato la scuola di recitazione in via delle Botteghelle, con Gianni Caliendo, e l’esperienza come animatore turistico, approda a Roma, dove comincia a fare cabaret e partecipa ad alcuni varietà televisivi. Scoperto da Federico Fellini, nel 1989 recita nel film da lui diretto "La Voce della luna". E’ l’inizio di una carriera brillante, che lo porta ad interpretare 17 pellicole, tra le quali figurano "Ladri di futuro" (1990), di Enzo Decaro; "Pensavo fosse amore invece era un calesse" (1991), di Massimo Troisi; "Vietato ai minori" (1992), di Maurizio Ponzi; "Pacco, contropacco, contropaccotto" (1992), di Nanni Loy; "Soldato ignoto" (1993), di Marcello Aliprandi; "Palla di neve", di Maurizio Nichetti (1994); "Bidoni" (1994), di Felice Farina ; "Panni sporchi" (1998), di Mario Monicelli; "Le sciamane" (2000), di Anne R. Ciccone; "L'ultimo mundial" (2001), di A. Ponziani e T. Zangardi. Orlando è anche autore di sei testi teatrali di successo: "Delirimetropolitani" (1993); "Messico e nuvole" (1994); "Casamatta vendesi" (1996-1997); "Domani notte a mezzanotte qui" (1997-1998); "Cafè" (1999); "Barbara" (2003). Ha diretto due film, "L'anno prossimo vado a letto alle dieci" (1994) e "Barbara" (1998), e scritto la sceneggiatura di "L'ultimo mundial" (1998), regia di Antonella Ponziani e Tonino Zangardi; "Tobia al caffè" (1999), regia di Gianfranco Mingozzi; "Ormai è fatta" (1999), regia di Enzo.Monteleone. Ha ricevuto vari riconoscimenti, sia come attore che come autore, tra cui: il Premio David Donatello come migliore attore non protagonista (1992) per "Pensavo fosse amore invece era un calesse"; il Premio Charlot d’oro (1992) come migliore attore comico dell’anno; la candidatura al Globo d’oro e al Nastro d’argento (1998) per la sceneggiatura di "Ormai è fatta". Nelle ultime settimane, dopo la partecipazione nel 2000 e 2001 a due fiction di Rai e Mediaset ("Non lasciamoci più. 2°serie, regia di Vittorio Sindoni; "Ma il portiere non c'è mai?", regia di Carlo Corbucci e Pipolo), è tornato in tv come "opinionista" del Maurizio Costanzo Show.
 

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