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Intervista a Bruno Venturini, cantante

di Mario Avagliano
 
 
Ancora una volta nel segno di Caruso. Bruno Venturini non poteva che scegliere Sorrento e la magica atmosfera del ristorante Museo Enrico Caruso, per festeggiare i “primi trent’anni di canzoni per Napoli”, circondato dall’affetto del sindaco Mario Fiorentino, degli amici e di tante personalità della cultura, della musica e della politica. Quella di ieri è stata una serata di ricordi e di emozioni forti, e si è conclusa proprio in quei luoghi dove il grande tenore napoletano trascorse gli ultimi giorni della sua vita, prima di chiedere alla moglie Dorothy di essere trasportato a Napoli per vedere per l’ultima volta il sole della sua città. E’ davanti al Golfo di Sorrento che Bruno Venturini si è raccontato a la Città di Salerno, ripercorrendo un quarto di secolo di dischi e di esibizioni per personaggi come Papa Wojtyla, Breznev, Deng-Xiao-Ping, Bill Clinton, Gorbaciov, Jacqueline Kennedy, Grace Kelly. 
 
Lei è originario di Pagani.
Mio padre Raffaele era napoletano, aveva un negozio di tessuti al Rettifilo. Mia madre Vittoria, invece, era originaria di Angri, nipote del beato Alfonso Maria Fusco, il fondatore delle suore di S. Giovanni Battista. Durante la seconda guerra mondiale, il negozio di mio padre fu scassinato e gli derubarono tutta la merce. Dopo il conflitto, mio padre fu costretto a ricominciare daccapo a Pagani, dove viveva mio nonno Giuseppe. Abitavamo in una strada colorata e vivace, via Lamia, che era un po’ la Forcella di Pagani. I primi anni di vita li ho trascorsi lì, in mezzo ai vicoli, giocando con lo strummolo e avendo, non di rado, scontri fisici con gli altri ragazzi. Come Caruso, sono stato uno scugnizzo di strada. 
Poi nella seconda metà degli anni Cinquanta si trasferì a Salerno.
Sì, mio padre ebbe fortuna con la sua attività e venne a Salerno, dove aprì un negozio in via Velia. Avevo dieci anni. Prendemmo casa in Piazza Luciani, di fronte al Teatro Verdi. Purtroppo mio padre si ammalò di cirrosi epatica. In due-tre anni, tra medicine e assistenza, ci mangiammo tutto il patrimonio di famiglia. Ricordo che lo portammo anche in una clinica a Roma, ma fu tutto inutile. Però, durante quel lungo soggiorno romano ebbi modo di conoscere i grandi tenori Beniamino Gigli e Mario Lanza.
Come andò?
Io e mio fratello Peppino eravamo alloggiati in una pensione a Montemario, da Sora Stella. Per mantenerci, andavamo a vendere maglie a Porta Portese e io, prima di iniziare la vendita, mi esibivo con un repertorio di canzoni napoletane. Un giorno, al mercato, giravano le scene di “Arrivederci Roma”, con Mario Lanza. Il tenore, quando mi sentì cantare, si avvicinò e disse in un italiano americanizzato: “Uagliò, tu canti molto buono, ma devi studiare”. E mi regalò dieci dollari che conservo ancora con il suo autografo. Quanto a Gigli, il marito di Sora Stella, che si chiamava Sor Gigetto, era il suo maggiordomo. Volle portarmi a conoscere il grande tenore il quale, dopo che mi ebbe ascoltato, esclamò: “Questo ragazzo ha una gran voce!”. 
Come iniziò la sua carriera musicale?
Io frequentavo l’Istituto tecnico commerciale, che era sito nel palazzo Ischitella. Il canto per me era una passione, per così dire, solo casalinga. Finché venne ad abitare nell’appartamento accanto al nostro un intendente di finanza di Napoli. La moglie, la signora Fanale, ai suoi tempi era stata un grande soprano e aveva cantato anche con De Lucia al Teatro San Carlo di Napoli. Un bel giorno bussò alla nostra porta e chiese a mia madre chi era che sentiva cantare la mattina. “E’ mio figlio Bruno”. “E perché non lo fate studiare?”. Mia madre, poverina, le fece capire che non potevamo permettercelo. “Non vi preoccupate – replicò lei - Ci penso io”. E così mi presentò a Franz Carella, che dirigeva il liceo musicale di Porta Nova, e ad Alfredo Giorleo, che aveva una scuola a Piazza Ferrovia. Loro due sono stati i miei primi maestri di canto.
Quale fu il momento di svolta?
Avevo 15 anni, ma ero alto e ben piazzato e ne dimostravo 18-20, e così pensai di partecipare al Festival Voci Nuove che si teneva a Napoli, nell’ambito della manifestazione Porta Capuana in Festa. Mio fratello Peppino conosceva un fabbricante di calzini, il signor Visconti, il quale era grande amico del patron della festa, don Raffaele Russo, e mi procurò un’audizione con lui e con il maestro Felice Genta. Questi rimase entusiasta di me e convinse don Raffaele che, nonostante la giovane età, dovevo esibirmi tra i professionisti e non tra i dilettanti. E così mi trovai a cantare con big come Claudio Villa, Sergio Bruni, Achille Togliani, Franco Ricci.
Un bel parterre.
Io poi allora ero povero in canna. Non avevo neanche l’abito. Andai da Franco, un sarto amico di famiglia, e gli feci rivoltare il vestito nero da sposo in vigogna di mio padre. Gli arrangiamenti musicali li confezionò il maestro Giorleo. Un tipografo di Salerno, Ciccio Rufolo, stampò 500 mie fotografie e me le regalò. La signora Fanale, invece, mi scelse il nome d’arte: Bruno Venturini.
Come ricorda il suo debutto sul palcoscenico?
Era la sera di ferragosto. Presentava Corrado. C’era un’orchestra di cento elementi, diretta a turno da Luigi Vinci e da Giuseppe Anepeta. Il primo a cantare fu Gino Latilla, con “Giumbalabei”. Un’esibizione strepitosa. Il pubblico si spellava le mani. Quando Corrado venne dietro il palcoscenico, e chiese a chi toccava, nessuno fiatava. Io alzai la mano e lo seguii. Presentai “L’ultimo raggio ‘e luna”, del maestro Vian. Fu un trionfo. Chiesero il bis, e così cantai “Passiggiatella”. Sotto al palco c’erano due giornalisti salernitani del Mattino, Clodomiro Tarsia e Gino Liguori, che gridavano come degli ossessi: “Chist’ è ‘i Salierno!”. Quando terminai, ai piedi della scalinata mi aspettava don Amerigo Esposito, della Phonotype, la più antica casa discografica napoletana. “Uagliò, mi siete piaciuto. Domani venite a via Mezzocannone. Se risultate fonogenico, vi faccio il contratto”.
Così incise il primo disco.
Don Amerigo scelse due brani: “N’ coppa all’onne” di Acampora e “Margherita ‘e fuoco”. L’orchestra dal vivo era diretta dal maestro Mario Festa. Ricordo che quando andavo a scuola, gettavo un occhio al mio disco nella vetrina del negozio D’Aniello, in via Duomo, con la mia fotografia. Era un’emozione! Però il mio primo grande successo fu nel 1959, con una cover di Sanremo, “Io sono il vento”, cantata da Arturo Testa, che aveva fatto un exploit al Festival, classificandosi secondo. Il suo discografico tardò a stampare il disco, e così la gente quando andava nei negozi e diceva il titolo, trovava il mio e l’acquistava. Fu così che approdai alla Durium.
La famosa casa discografica milanese.
Durium significava cantare per radio nazionale ogni giorno. Avevano una sede pure a Napoli, sempre in via Mezzocannone. Il loro agente, Raffaele Palma, mi contattò attraverso il negoziante di dischi D’Aniello. Prima di firmare con loro, però, chiesi di avere l’autorizzazione della moglie di don Amerigo, che nel frattempo era morto. A Milano conobbi Mina e mi proposero di cimentarmi con il rock. La canzone che cantai, “Colpevole”, ebbe un grande successo nei juke-box.
Nel 1964 volò in Usa e cantò, tra l’altro, per il clan dei Kennedy.
Capitò che Jacqueline Kennedy venisse in villeggiatura sulla Costiera amalfitana, a Villa Rufolo a Ravello. L’indimenticabile avvocato Mario Parrilli, allora presidente dell’Ente per il Turismo, che era innamorato della musica napoletana classica e scriveva anche canzoni, mi convocò nel suo ufficio a via Velia e mi chiese di cantare in una serata di gala in onore della signora Kennedy, alle Arcate ad Amalfi, vestito da marinaio e con l’accompagnamento di un mandolino. Le piacqui tanto che l’ente per il turismo mi scritturò per tutta la durata della vacanza amalfitana della signora. Qualche giornale scrisse perfino: “La Kennedy ha perso la testa per lo scugnizzo napoletano”.
E l’esperienza americana?
Sulla scia degli articoli sulla Kennedy, gli agenti dell’Organization Great Show, quando vennero in Italia per una tournée di cantanti italiani negli Stati Uniti, mi contattarono, insieme a Sergio Bruni. Mi portai dietro anche un ragazzino di talento, Massimo Ranieri, che allora si chiamava Gianni Rock. Ebbi l’onore di cantare nel tempio americano della musica lirica, l’Academy of Music di Brooklyn, oggi teatro-museo, dove si era esibito pure Caruso. Fu un trionfo straordinario e in quell’occasione conobbi Bob Kennedy. 
Nel 1966 partecipò al suo primo Festival della canzone napoletana.
Partecipai in coppia con Jenny Luna, rockstar romana, con il brano “Tu iste a Surriento”, musica di Mario Festa e testi di Cutolo. Ancora oggi, quando incontro i miei amici Tullio De Piscopo, Tony Esposito e Pino Daniele, mi ringraziano. Fui il primo a portare il rock nel festival napoletano, rompendo gli schemi del passato.
Lei è impegnato da anni per la riabilitazione artistica e musicale di Caruso. Come mai tanta passione per il grande tenore?
Una notte mia moglie Mena lo ha sognato: “Io sono Caruso. Di’ a tuo marito che nessuno parla più di me. Mi deve fare un omaggio e io lo ripagherò”. E così nel 1988 è nato il tour “Omaggio a Caruso”, che poi è diventato anche un disco di grande successo, pubblicato dalla Saar. Da allora, è come se fosse mio padre. Parlo quotidianamente con lui. Ogni anniversario della sua nascita, il 25 febbraio, mi reco alla sua cappella. I suoi eredi, invece, si sono dimenticati di lui. 
Trent’anni di carriera sono un traguardo importante. Come lo sta celebrando?
Credo che l’avvenimento più significativo, a parte questo di Sorrento, sia stato a Napoli, all’Archivio Sonoro della Canzone Napoletana, al quale ho donato la mia intera discografia, composta da 650 incisioni. Ho inciso tutta la storia della canzone napoletana. Non c’è nessun altro artista che abbia fatto altrettanto. Poi ho festeggiato il trentennale cantando a Napoli, in via Caracciolo, a Paestum, a Maiori, all’Arena del Mare a Salerno, e sono stato a Domenica In, da Mara Venier, e a Uno Mattina, dove mi ha intervistato Paolo Mosca. Infine il sindaco di Salerno De Biase e l’assessore Ermanno Guerra vorrebbero tenere una serata di gala al Teatro Verdi di Salerno e il Presidente della Regione Bassolino ha intenzione di organizzare una grande festa finale al Teatro San Carlo. Sarà una festa dedicata alla mia carriera ma soprattutto dedicata a Caruso. Ripeto, io sento che il mio compito è quello di riabilitare la sua figura. 
In  trent’anni ha venduto più di 80 milioni di dischi ed è stato in tournée in tutto il mondo. C’è chi parla di lei come “l’ambasciatore della canzone napoletana all’estero” e il New York Times l’ha definita addirittura “one of the great tenors of our days” (uno dei primi tenori dei nostri giorni). 
Fu il Presidente Pertini a definirmi così e senza false modestie credo di aver meritato questo appellativo. Sono stato il primo artista occidentale ad essere invitato a Pechino, in Cina, nel 1984. Ho cantato a Piazza Tien An Men, davanti a due milioni di persone. Pensi che ancora adesso in Cina, assieme agli spaghetti “Marco Polo”, si trova la pizza “Bruno Venturini”. Poi sono stato il terzo cantante italiano a fare una tournée in Russia, dopo Claudio Villa e Domenico Modugno. Mi sono esibito al Teatro dell’Opera di Vienna, in Giappone, in Canada, negli Usa, in Australia, in Brasile, in Argentina, in Germania e in tutta Europa, e perfino ad Anchorage, in Alaska, per le truppe americane della base Nato. 
Tra i tanti personaggi famosi che ha avuto modo di conoscere da vicino, a quale è più legato? 
Papa Giovanni Paolo II e Grace Kelly. Il Papa lo conobbi nell’84, prima del mio viaggio in Cina. Poi lo rividi nell’ottobre del 2001, in occasione della beatificazione di Alfonso Maria Fusco, quando ebbi l’onore di cantare in San Pietro sull’Altare Maggiore il canto liturgico “Panis Angelicus”, un privilegio concesso in passato solo al tenore Beniamino Gigli. Dopo la cerimonia, mi inginocchiai davanti a lui, sicuro che non mi avrebbe riconosciuto. E invece lui mi guardò, sorrise e disse: “O sole mio… Figlio, tu quando canti, preghi due volte…”. Mi strinse forte e mi benedì. Non mi lasciava più andare…
E Grace Kelly?
La conobbi  alla “corte” di Jacqueline Kennedy. Era una donna di straordinaria eleganza e signorilità. Quando diventò principessa di Monaco, rimasi in contatto con lei tramite la sua segretaria Luisette Grillo. E così, quando mi sposai e andai in viaggio di nozze in Costa Azzurra, fui suo ospite al Palazzo Reale…
C’è qualche vip che si è innamorato sulle note delle sue canzoni?
Ce ne sono tanti. Per esempio Gorbaciov e la moglie Raissa. Quando nel ‘97 furono ospiti a Giffoni Valle Piana, rivelarono di essersi innamorati ascoltando una mia interpretazione di “Dicitancello vuie” e chiesero come regalo di poter assistere a un mio concerto. Cantai per loro a Villa Siniscalchi, in un’esibizione privata. 
Qual è il segreto di una voce come la sua, inalterata nel tempo?
Il segreto è studiare, studiare, e ancora studiare, non risparmiarsi mai. E’ un lavoro che non ha mai fine. Chi si sente arrivato, è uno stupido.
Quali nuovi progetti sta preparando?
Nel 2006 usciranno due miei nuovi cd, “Notturno d’amore” e “Eternamente”, nei quali canto romanze, brani lirici, temi di film e pezzi della grande canzone popolare italiana, accompagnato dall’orchestra sinfonica diretta dal maestro Alberto Baldambembo. Li sto incidendo con la Saar, l’ultima casa discografica italiana a capitale italiano, lo scriva. Speriamo che non se la comprino gli stranieri. In questo mondo globalizzato, rischiamo di perdere la nostra cultura e le nostre tradizioni musicali. 
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Io amo moltissimo sia Salerno che Cava. Salerno è la mia città, è bellissima, a misura d’uomo, e non la abbandonerò mai. Cava è la città di mia moglie Mena e dove sono nati due dei miei figli. Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola quando aspiravo a diventare un artista, ma non ero ancora nessuno. Mi sono sposato alla Chiesa di San Francesco, nel 1968, con Sergio Bruni testimone di nozze e il ministro Fiorentino Sullo compare d’anello.
Nel panorama musicale italiano e napoletano, c’è un erede di Bruno Venturini?
Non mi pare proprio. Anche perché a Napoli - sembra assurdo, ma è vero - non esistono scuole di canto napoletano. I giovani cantanti inseguono l’America, ignorando che gli americani hanno copiato le nostre sonorità e il nostro swing popolare. Ricordo che anni fa ne parlai con John Denver alla “Notte delle stelle” a Innsbruck, e lui concordava sul fatto che il folk-country avesse preso spunto dalla tarantella napoletana. In questo quadro così buio, è difficile individuare un erede. La mia unica speranza è mio figlio Salvatore. Ha venti anni, una voce ancora più bella della mia ed è dotato di una grande versatilità. Canta da baritono, da tenore e da basso. Se s’impegna e capisce che questa professione è fatta di lavoro, di passione e di sacrifici, credo proprio che potrà seguire le mie orme!
 
(La Città di Salerno, 18 dicembre 2005)
 
 
Carta d’identità
 
Bruno Venturini è nato a Pagani e vive a Salerno. 
Sposato con Filomena
Ha tre figli: Raffaele, Vittorio e Salvatore
Hobby: monete antiche, orologi, francobolli, sport (in particolare golf, rugby e atletica leggera)
Libro preferito: i saggi di Alberto Bevilacqua e i libri di Luciano De Crescenzo
Film: le pellicole italiane e americane degli anni Cinquanta e Sessanta 
 
Ha pubblicato decine di dischi e compilation. Tra i suoi più grandi successi figurano l’”Antologia della Canzone Napoletana” (il primo volume è del 1973), che raccoglie 450 brani dal 1500 ai giorni nostri; “Bruno Venturini sings Mario Lanza”, disco di platino per le vendite in Usa; “L’oro di Napoli”, disco di platino in Italia, “Bruno Venturini canta la Napoli di Caruso” (1988), ristampata 48 volte. 
 
Ha vinto numerosi premi, tra cui il Festival mondiale delle arti in Cina (1989 e 1990) e, più di recente, il Premio Totò a Benevento (2002) e il Premio Caruso 2004. Lo scorso anno è uscito il suo ultimo disco, “Omaggio a Caruso” (Saar records).
E’ accademico d’Italia honoris causa dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Milano, e ha avuto la cittadinanza onoraria di New York, Providence, New Haven, Sidney, Paestum, Mariori, Angri e Cetara. E’ stato nominato recentemente grand’ufficiale della Repubblica “per meriti artistici internazionali”.
 

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