Storie – Mal d’Africa

di Mario Avagliano

  La “conquista” dell'Impero di Etiopia, datata 9 maggio 1936, è al centro dell’interesse dell’editoria. Tre libri sono usciti di recente sull’argomento, affrontandolo da diverse prospettive, e svelando con documenti coevi, memorie o la forza della narrativa il grande bluff di Mussolini.
Il saggio storico "L'ora solenne" di Marco Palmieri (Baldini & Castoldi, pp. 316) racconta come vissero gli italiani quella fase storica, in cui si registrò il massimo dei consensi per il regime fascista e per l’impresa militare, che in realtà venne compiuta al prezzo di violenti eccidi, anche con l'impiego di gas, con i ribelli che continuarono a resistere e solo una piccola parte del territorio effettivamente controllata dalle forze militari italiane.
Il romanzo storico "I fantasmi dell'Impero" (Sellerio, pp. 542), di Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, ha come filo conduttore un'inchiesta del magistrato militare Vincenzo Bernardi (che prende spunto dalla figura reale del capo della giustizia militare dell'Africa Orientale italiana, Bernardo Olivieri) e vede dietro le quinte lo scontro tra i due super-nemici dell'epoca Graziani e Pietro Badoglio, il primo fascistissimo, l'altro legato ai Savoia. Un pretesto per narrare il "cuore di tenebra" del colonialismo italiano, mettendo a nudo i suoi orrori e le sue bassezze, e anche il conflitto sotterraneo che oppose la milizia fascista agli ufficiali dell'esercito.
Infine “Ti saluto vado in Abissinia” di Stefano Prosper (Marlin, pp. 348) descrive le esperienze di un giovane volontario, Mario Prosperi, nella guerra d’Etiopia del 1935-36, tra eccitazione, dubbi e timori davanti ad un futuro nuovo in un paese sconosciuto. Nel corso della sua esperienza africana il giovane approderà a convinzioni più nettamente antifasciste, mettendo in rilievo, con coraggio e determinazione, gli aspetti negativi di quella che si rivelò un’ambiziosa e disastrosa impresa del Regime.

(L'Unione Informa e Moked.it del 14 marzo 2017)

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L'Italia di Salò. 1943-1945

L’Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pp. 490, euro 28)

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

  Nei venti mesi che vanno dall’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943, all’uccisione di Mussolini e alla fine della guerra, nell’aprile del 1945, l’Italia non solo continuò a essere un campo di battaglia tra eserciti stranieri – gli Alleati che avanzavano da sud e i tedeschi che occupavano il centro-nord – ma diventò anche teatro di una sanguinosa «guerra civile» e «contro i civili», che vide coinvolti su fronti opposti coloro diedero vita alla Resistenza e coloro che rimasero fedeli al fascismo, aderendo alla Repubblica di Salò.

Nel dopoguerra, però, il punto di vista resistenziale è stato oggetto di innumerevoli studi e ricerche e ha rappresentato una narrativa dominante. Al contrario, la vicenda dei tanti italiani che scelsero di combattere dalla parte sbagliata è rimasta a lungo marginale, finendo per rappresentare un vuoto, un autentico tassello mancante nel panorama storiografico e della memoria di quel complesso periodo, che segnò lo spartiacque tra la dittatura fascista e la democrazia. 

In particolare, restava ancora da scandagliare in profondità lo spettro delle motivazioni che indussero oltre mezzo milione di italiani – uomini e donne, spesso giovanissimi – ad aderire e combattere, in molti casi volontariamente, per la Rsi. Cosa che fa, in modo documentatissimo, il saggio storico L’Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pp. 490, euro 28), di Mario Avagliano e Marco Palmieri.

Questa ricerca affronta sulla base delle fonti coeve disponibili – lettere, diari, testamenti ideologici, posta censurata, relazioni sul morale delle truppe e sullo spirito pubblico, notiziari della Gnr, note fiduciarie, carte di polizia e dei servizi segreti – e della memorialistica postuma, scevra dai condizionamenti politici che l’hanno caratterizzata e dalla pregiudiziale politico-ideologico-culturale che ha portato molti testimoni a tenere a lungo nascoste le tracce di un passato inconfessabile.

La cesura del 25 luglio prima e dell’8 settembre poi, infatti, per molti italiani non rappresentò un taglio netto con il precedente ventennio fascista, bensì una svolta in continuità, la cui naturale conseguenza fu la partecipazione all’esperienza della Rsi, che a sua volta non fu un evento senza propagazioni e conseguenze sulla storia politica e sociale del dopoguerra. Il ritorno sulla scena di Mussolini e la nuova chiamata alle armi, per continuare la guerra contro le potenze nemiche e intraprenderne una nuova contro i traditori, il nemico interno, i banditi, misero nuovamente gli italiani di fronte alla necessità di fare una scelta. Quali furono le principali motivazioni che animarono coloro che decisero di aderire? Quale fu il collegamento ideale col precedente regime? Quali aspettative si nutrivano nei confronti del nuovo fascismo. Perché molti giovanissimi compirono quella scelta? Che tipo di esperienza vissero sotto le armi coloro che combatterono per Salò? Cosa sapevano della Resistenza e come la giudicavano? Cosa percepivano e come metabolizzavano le stragi e le deportazioni razziali e politiche dei nazisti, alle quali molti di loro presero parte anche attiva? Quanti ebbero ripensamenti e per quale motivo? Chi rimase fedele alla causa fino alla fine e perché? 

A questi interrogativi Avagliano e Palmieri, attraverso una gran mole di documenti prima in gran parte inediti o poco noti, forniscono una risposta dal basso, passando in rassegna sia le diverse esperienze militari e combattentistiche di Salò (l’esercito nazionale formalmente apolitico, le milizie di partito quali la Guardia nazionale repubblicana e le Brigate nere, le formazioni relativamente autonome come la X Mas, le sanguinarie bande irregolari e chi militò direttamente con i tedeschi come le SS italiane), sia l’esperienza quasi del tutto dimenticata degli Imi che optarono, dei prigionieri di guerra degli Alleati che non accettarono di cooperare e dei fascisti clandestini che operarono dietro le linee nemiche nelle regioni già liberate dagli anglo-americani. Tra di loro ci furono anche molti italiani che nel dopoguerra diventeranno personaggi noti della politica, della cultura, del giornalismo, dello spettacolo e via dicendo.

Uno dei tratti salienti delle risposte fornite in sede di memoria successiva, escludendo quelle di stampo dichiaratamente rivendicativo o apologetico, è stato il carattere giustificativo. Spesso, cioè, rispetto alla messa a fuoco oggettiva delle ragioni che all’epoca portarono a fare quella scelta, ha prevalso il desiderio di farla apparire comprensibile e accettabile a coloro i quali non la vissero in prima persona o si schierarono su fronti opposti. Ma in realtà, come sostengono Avagliano e Palmieri, per una generazione di italiani cresciuta fin dalle aule scolastiche nel mito del duce e forgiata da slogan fideisti, come il famigerato Credere obbedire combattere, l’adesione alla Rsi e l’impegno nella guerra civile in molti casi fu una conseguenza naturale e ovvia di quel percorso formativo.

Inoltre dal saggio L’Italia di Salò emerge che la gran parte dei combattenti della Rsi, fossero essi reclute dell’esercito regolare formalmente apolitico o membri delle formazioni di partito fortemente ideologizzate, venne impiegata prevalentemente nella guerra civile e contro il nemico interno, e che i vertici politico-militari della Rsi, il suo apparato burocratico-amministrativo e molti uomini che militarono nelle sue forze armate e di polizia presero parte al clima di violenza indiscriminata, sommaria e diffusa contro i partigiani e la popolazione civile e all’opera di cattura e deportazione degli avversari politici (i triangoli rossi) e degli ebrei.

L'Italia di Salò, la recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

Ragazzi di Salò anche in Sicilia

Un saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri sulla Rsi. Alla repubblica fascista aderirono molti futuri attori: Walter Chiari, Raimondo Vianello, Giorgio Albertazzi

di Paolo Mieli

La repubblica fascista che Benito Mussolini guidò, per volontà di Adolf Hitler, negli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale è stata ben analizzata in molti volumi tra i quali sono da menzionare la prima Storia della Repubblica di Salò di William Deakin (Einaudi), L’amministrazione tedesca nell’Italia occupata di Enzo Collotti (Lerici), La guerra civile, ultimo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (Einaudi), La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori), L’occupazione tedesca in Italia di Lutz Klinkhammer (Bollati Boringhieri ), La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti), Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri), L’ultimo fascismo di Roberto Chiarini (Marsilio). Oltre a quelli assai ben scritti di Indro Montanelli e Mario Cervi, Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Silvio Bertoldi e, sul versante reducistico, Giorgio Pisanò. Eppure ci sono ancora infiniti aspetti che meritano di essere approfonditi, tante questioni apparentemente marginali su cui è utile entrare nel merito, come dimostra un documentatissimo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, L’Italia di Salò 1943-1945, che sta per essere pubblicato dal Mulino.

Roberto Chiarini ha scritto che la riduzione dell’ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della «barbarie consumata da un manipolo di sanguinari», prima ancora di essere una forzatura intellettuale, è stata a lungo un «artificio retorico» che doveva servire alla autoassoluzione in blocco degli italiani e all’occultamento delle responsabilità collettive per quel che accadde davvero ai tempi Salò. Ed è sottile l’analisi di Avagliano e Palmieri delle due memorie contrapposte in merito a quel che si verificò nel Nord Italia tra il 1943 e il 1945, là dove vengono identificati i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata» (cosa che del resto durante la guerra civile avevano fatto gli stessi fascisti con i partigiani, chiamandoli «banditi, fuorilegge, animali»). Ciò che Luigi Ganapini ha definito il «disconoscimento totale e reciproco, non solo politico, dell’umanità dell’avversario». Per non parlare della memoria degli ex repubblichini fortemente condizionata — persino nei testi meno autoindulgenti come quelli di Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini — dall’umiliazione della sconfitta.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmieri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime», nella speranza, condivisa anche da diversi squadristi della prima ora, che la Repubblica recuperasse le parole d’ordine del fascismo delle origini e segnasse una «pagina nuova». Ma attenzione: «L’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi tutto sommato in buona fede, non è stata solo frutto di una distorsione dovuta alle propensioni giustificative della memoria a posteriori; è servita piuttosto a relegare un tema arduo e scomodo in una zona d’ombra dove non fosse più di tanto necessario e richiesto fare i conti con una pagina importante del proprio passato e della propria storia nazionale».

Un dato interessante è la grande quantità di futuri personaggi dello spettacolo (oltre a Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che erano già molto famosi ed ebbero un ruolo attivo nella lotta ai partigiani) che tra il 1943 e il 1945 in un modo o nell’altro militarono dalla parte di Mussolini e dei tedeschi: Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, Dario Fo, Mario Castellacci, Leonardo Valente, Ugo Tognazzi, Mario Carotenuto, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Marco Ferreri, Fede Arnaud Pocek (più moltissimi altri che ebbero ruoli marginali). Tra le giustificazioni addotte — molti anni dopo la fine della guerra — è prevalsa la presa di distanza da questa giovanile adesione alla repubblica di Mussolini. Disse Dario Fo: «Aderii alla Rsi per ragioni pratiche, cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle». E Giorgio Albertazzi: «Non sono mai stato fascista; la mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale». Forse la spiegazione più articolata fu quella di Raimondo Vianello, che raccontò di aver deciso d’impulso di andare volontario nella Rsi «per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: “Vianello, si salvi chi può!”». I giovani che «andarono a Salò», proseguì Vianello, «erano spinti dall’idea di non abbandonare la battaglia». Pur se consapevoli d’essere «destinati a perdere». Per cui, concluse l’attore, «condannare in toto questo capitolo storico non mi sembra giusto».

Il libro dedica pagine particolarmente interessanti al «primo fascismo clandestino» dei giorni successivi al 25 luglio del 1943; alla «resa dei conti» interna al fascismo; ai prigionieri degli Alleati «non cooperanti», in particolare quelli del campo texano di Hereford; ai «tormenti e ai cambi di fronte» nella Repubblica sociale; al confronto generazionale tra coloro che aderirono alla Rsi; ai loro ultimi scritti e «testamenti ideologici»; al difficile rapporto con i «camerati tedeschi»; al razzismo e all’odio contro gli Alleati; all’illusione finale di un «colpo di coda» mussoliniano. Ricco di particolari inediti è il capitolo dedicato al fascismo clandestino nell’Italia liberata. Si trattò di una consistente «rete dietro le linee nemiche», che si appoggiò a movimenti spontanei ai quali presero parte soprattutto giovani che non accettavano il cambio di alleanze del governo Badoglio. Movimenti spontanei che hanno inizio in Sicilia, nel luglio del 1943, subito dopo lo sbarco e le prime vittorie dell’esercito alleato. Prima cioè della notte del Gran Consiglio in cui il Duce fu messo in minoranza o comunque a ridosso della caduta di Mussolini (25 luglio). La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo - Movimento per l’italianità della Sicilia» fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante il 27 luglio, appena quattro giorni dopo l’ingresso in città delle truppe angloamericane. Pochi mesi dopo il gruppo viene scoperto, arrestato e processato da una corte alleata: tra i giovanissimi portati alla sbarra, Maria D’Alì, figlia dell’ultimo vicefederale di Trapani che i giornali di Salò definiscono «la Giovanna d’Arco della Sicilia». Qualcuno li considera, più che dei nostalgici, come ragazzi che reagiscono contro il fenomeno non marginale dei loro concittadini (tra breve connazionali) che si mettono in fila per salire sul carro del vincitore. Non sopportavamo, racconterà Salvatore Claudio Ruta, leader del gruppo dei giovani fascisti di Messina, «che l’italiano fosse additato come il tipico voltagabbana, mandolinista e mangia spaghetti». «Si è trovato un gruppo di fascisti in Sicilia — esulta il 20 dicembre 1943 nel suo diario Giuseppe Prezzolini — meritano un monumento! Un fascista che ha tenuto a dichiarare la sua fede è grande quanto un democratico che non cambiò bandiera sotto il fascismo». Tra i loro avvocati difensori, notano Avagliano e Palmieri, «spicca il nome di Bernardo Mattarella». Il processo, a Palermo, si concluderà con pene severissime e addirittura una condanna a morte: per Bramante, accusato di «sabotaggio» (ma il generale Alexander commuterà immediatamente la pena a vent’anni di carcere).

In concomitanza con questo processo nasce a Palermo il «gruppo Costarini» (dal nome di uno dei primi caduti della Rsi) — fondato da Angelo Nicosia, Lorenzo Purpari, Aristide Metler e Nicola Denaro — che pubblica il giornale ciclostilato «A noi!». Copie di «A noi!» vengono gettate, nel gennaio 1944, dal loggione del teatro Biondo nel corso di una proiezione del Grande dittatore, il film satirico su Hitler (e Mussolini) di Charlie Chaplin, che più volte e in più parti dell’Italia liberata verrà interrotto da questo genere di manifestazioni. A Cisternino, in provincia di Brindisi, quando in un cinegiornale vengono proiettate le immagini della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, un militare dice ad alta voce: «Sì è un po’ sciupato ma è sempre lui! Battiamogli le mani». Molti spettatori si alzano, applaudono e intonano Giovinezza. A Milazzo vengono lanciati manifestini che promettono il ritorno in Sicilia di Mussolini con i tedeschi i quali «faranno vendetta»: «Ci sarà il Vespro Siciliano!», annunciano. A Ficarra fa proseliti l’ex segretario federale fascista Giuseppe Catalano. A Caltanissetta viene fondata la «Lega Italica» alla quale aderiranno Faustino La Ferla e Francesco Paolo Ayala (padre del magistrato Giuseppe). In sostanza la prima regione italiana ad essere liberata, la Sicilia, sarà anche quella in cui si verrà a creare la più forte, motivata e duratura, componente neofascista.

Sempre in Sicilia, nella fase finale della guerra si sviluppa una protesta contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Strane alleanze destinate a ripresentarsi nella storia siciliana. Ci si batteva — con lo slogan «Non si parte» — per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi, negli ultimi, decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sacrestano Giovanni Criscione. Nel dopoguerra, la Occhipinti sarà eletta deputata del Pci. A Comiso i neofascisti del «Non si parte» creano addirittura una «Repubblica indipendente» (per ottenere lo sgombero gli Alleati minacceranno un bombardamento aereo). A Vittoria occupano le caserme dei carabinieri e della guardia di finanza, così come avevano già fatto, guidati da Vittorio Dell’Agli, a Giarratana, dove erano state date alle fiamme le carte dell’ufficio di leva. A Modica il municipio viene dato alle fiamme.

Qualcosa si muoverà anche in Sardegna. Il 3 dicembre 1943 viene fermato al largo dell’arcipelago della Maddalena un motoscafo partito da Olbia e diretto a Orbetello. Alcuni carabinieri infiltrati nell’equipaggio arrestano su quel natante l’ex console generale della Milizia Giovanni Martini, che porta con sé il verbale della costituzione del Partito fascista repubblicano sardo, che si propone di staccare l’isola dalla madrepatria per sottometterla al regime di Salò. Nel marzo del 1944 ad Olbia vengono tratti in arresto i componenti del gruppo che fa capo ad Antonio Pigliaru, Gavino Pinna, Giuseppe Cardi Giua e al sottotenente Ugo Mattone, che riuscirà a fuggire. Il Tribunale militare territoriale di guerra — pubblico ministero è Francesco Coco (il giudice che nel 1976 sarà ucciso a Genova dalle Brigate rosse) — li farà condannare tutti e la pena più alta, undici anni, sarà per il latitante Mattone. Che però cambierà nome, diventerà un apprezzato sceneggiatore e da quel momento in poi simpatizzerà per il Pci: da questo momento si chiamerà Ugo Pirro e il primo film al quale darà il proprio apporto sarà (nel 1951) Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani dedicato all’epopea della lotta partigiana.

In Calabria e a Napoli sarà assai attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, comandante degli arditi nella Grande guerra, rivoluzionario in Messico, capo di una formazione di russi bianchi impegnati a combattere i bolscevichi, presente nella guerra di Etiopia e in quella civile spagnola. Tra i suoi progetti, il rapimento a Sorrento di Benedetto Croce che avrebbe dovuto essere portato a Genova da un sommergibile tedesco, per essere poi trasferito a Milano dove sarebbe stato costretto a commemorare Giovanni Gentile ucciso dai partigiani. In seguito Croce avrebbe dovuto assumere la presidenza dell’Accademia d’Italia. Ma il 27 aprile del 1944 Pignatelli, dopo che sua moglie aveva attraversato le linee per parlare direttamente con Mussolini e il feldmaresciallo Kesserling, viene arrestato. Sarà Bartolo Gallitto a raccogliere la sua eredità operativa. Ma del progetto di sequestro del filosofo non si parlerà più.

A Roma, poco dopo la liberazione, il 10 giugno 1944 comincia a trasmettere Radio Tevere, che in realtà ha sede al Nord. Direttore è Mario Ferretti, futuro radiocronista sportivo, collaborano attivamente Gorni Kramer e il Quartetto Cetra. Sigla di apertura è l’Inno a Roma di Puccini, in chiusura la canzone Tornerai, con un’evidente allusione/invocazione a Mussolini. A fine 1944 nasce il giornale clandestino «Onore», al quale fa capo un gruppo di cui fanno parte anche commercianti, operai e persino contadini. Non sono moltissimi, ma è una rete clandestina assai insidiosa, che viene sgominata grazie ad un giovane tenente che riesce ad inserire un infiltrato: Carlo Alberto dalla Chiesa. Il quale sperimentò contro i neofascisti di «Onore» tecniche che avrebbe riproposto, alcuni decenni dopo, per sgominare terroristi rossi che si proclamavano eredi dei partigiani.

(Corriere della Sera, 7 marzo 2017)

 

La nuova tappa di un itinerario nelle tragedie del Novecento

Esce in libreria il 16 marzo L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino, pagine 496, e 28). Si tratta di una nuova tappa del viaggio che i due autori hanno intrapreso nella storia italiana con diversi volumi: Gli internati militari italiani (Einaudi, 2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 2011); Voci dal lager (Einaudi, 2012); Di pura razza italiana (Baldini & Castoldi, 2013), Vincere e vinceremo! (il Mulino, 2014). A Salò sono stati dedicati molti libri, come La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini (Garzanti, 1999) e La storia della Repubblica di Mussolini di Aurelio Lepre (Mondadori, 1999). Tratta della Rsi l’ultimo volume, incompiuto, della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, La guerra civile (Einaudi, 1997), Se ne occupava anche Claudio Pavone nel suo libro sulla Resistenza Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991).

 

Storie – Il progetto del museo a Predappio

di Mario Avagliano

   Oggi alla trasmissione “La Radio ne parla” su RadioRai, insieme ad altri studiosi di storia, ci siamo confrontati sul progetto del comune di Predappio, paese natale di Benito Mussolini, in provincia di Forlì-Cesena, di allestire un’esposizione permanente sul fascismo nell’edificio dell’ex Casa del Fascio.
La realizzazione del museo è stata affidata all'Istituto Parri di Bologna, diretto da Luca Alessandrini, e a un comitato scientifico di cui fanno parte diversi storici, tra cui ad esempio Marcello Flores, anche lui presente in trasmissione.
Su questo tema, come spesso accade in Italia, si è scatenato un dibattito che, come ha detto Carlo Greppi, ha assunto i caratteri del “tribalismo” e del tifo da stadio (vedi referendum).
La nascita di un museo dedicato alla storia del fascismo comporterebbe fare i conti su quella fase storica, cosa che l’Italia ha fatto ancora troppo poco, a differenza ad esempio della Germania. Io credo allora che invece che interrogarsi sul “se” fare il museo, bisognerebbe interrogarsi sul “come” si realizzerà quel progetto.
David Bidussa l’ha definita giustamente una sfida culturale. Uno storico contrario al progetto, Giovanni Sabatucci, intervenendo in trasmissione, ha invece adombrato i rischi che il museo possa inconsapevolmente avere un intento celebrativo.
Se però esso racconterà con immagini, video, parole le violenze squadriste, la soppressione delle libertà, le leggi fascistissime, la persecuzione degli ebrei e le leggi razziste del 1938, le stragi compiute dagli italiani in guerra, la complicità con il nazismo, tale pericolo sarà scongiurato. E anche i nostalgici che ciclicamente si recano a Predappio per celebrare il duce, se ne torneranno a casa con un pugno metaforico allo stomaco.

(L’Unione Informa e Moked.it 1° novembre 2016)

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Farmaci militarmente preziosi così si drogava la Germania nazista

di Mario Avagliano 

  Guerra e droga sono un binomio antico. I vichinghi andavano all’assalto dei nemici sotto l’effetto di funghetti, i guerrieri incas masticando le foglie di coca, i soldati della guerra civile americana dopati con la morfina, mentre durante la Grande Guerra i nostri soldati si davano coraggio bevendo la grappa, per non parlare del conflitto in Vietnam. Un best seller mondiale, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, dello scrittore Norman Ohler, già tradotto in 18 lingue e appena uscito in Italia (Rizzoli pp. 383, euro 22), ricostruisce in modo documentato l’uso e l’abuso di metilanfetamine tra i soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale, in particolare il Pervitin, assunto anche dal generale Rommel e dallo stesso Adolf Hitler.
Il Pervitin venne sviluppato dallo scienziato Fritz Hauschild, che era rimasto strabiliato dagli effetti delle benzedrine sugli atleti americani in gara alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Brevettato dagli stabilimenti Temmler nel 1937, divenne in breve tempo di moda nella Germania nazista, che febbrilmente inseguiva il sogno di conquistare il mondo, perché bastava ingurgitare alcune pasticche «rivitalizzanti» per rimanere svegli ed euforici per ore e ore.
Il capo dei medici del Reich, Otto Ranke, lo considerava «un farmaco militarmente prezioso!», poiché consentiva ai soldati di tirare avanti per oltre due giorni senza provare stanchezza e sonno e aveva effetti anche sul sistema inibitorio. E così quando la Germania invase la Polonia, fu lo stesso quartier generale della Wehrmacht a distribuirne dosi massicce ai soldati tedeschi, assieme al rancio quotidiano.
Le pilloline miracolose si rivelarono particolarmente utili nel maggio del 1940, in occasione della conquista del Belgio e del blitzkrieg in Francia, in quanto assumendo una pasticca al giorno e due di notte i panzer nazisti poterono procedere a tutta velocità attraverso le Ardenne, non fermandosi mai per quattro giorni di filato, macinando centinaia di chilometri. Un’impresa che lasciò esterrefatti i francesi e contribuì in modo determinante alla loro disfatta.

Il saggio di Ohler, pubblicato in Germania con il titolo “Der totale Rausch”, ovvero “La totale euforia”, e basato su documenti degli archivi tedeschi e americani, dimostra che gli psicofarmaci furono uno dei fattori di costruzione del mito della macchina da guerra del Terzo Reich, accanto all’ideologia nazista e alla disciplina del popolo tedesco. Il Pervitin era largamente diffuso tra i tedeschi, nonostante che, ufficialmente, le droghe fossero state bandite dal nazismo. Lo prendevano sportivi, cantanti, studenti sotto esame e massaie e venne sperimentato anche da scrittori del calibro di Heinrich Böll, Gottfried Benn, Klaus Mann e Walter Benjamin.
Ogni giorno in Germania si producevano 833 mila compresse e nel 1944, quando le sorti della guerra erano segnate, la Wehrmacht ne ordinò quattro milioni di confezioni.  Altre droghe furono sviluppate dai medici nazisti, che le sperimentarono sui prigionieri dei lager, come in quello di Sachsenhausen.
Il primo a farne uso era il «paziente A» Adolf Hitler che, come emerge dalla lettura delle carte del suo medico personale Theodor Morell, da quasi vegetariano e non fumatore, col tempo divenne sempre più dipendente dalle metilanfetamine e, non contento, passò poi al consumo dell’Eukodal, un derivato dell’oppio più potente dell’eroina (nel periodo di Salò, Morell somministrò psicofarmaci anche a Mussolini, definito il «paziente D»).  
Ohler calcola che tra il 1941 e il 1945, Hitler fece almeno 800 iniezioni di sostanze chimiche, inghiottendo più di 1.100 farmaci in forma di pillola.
Grazie all’Eukodal, il Führer appariva sempre fresco e allegro, trasmettendo fiducia ai suoi uomini. Morrell rivelò che gliene iniettò una dose anche il giorno del famoso convegno di Feltre del 19 luglio 1943, quando il Führer invasato e sovraeccitato parlò per tre ore di fila e mise verbalmente kappaò Mussolini che voleva sfilarsi dalla guerra.
Dopo il fallito attentato del luglio 1944 che gli provocò danni permanenti al timpano, Hitler iniziò anche a sniffare cocaina e nella primavera del 1945, rinchiuso nel bunker di Berlino, finì la sua vita come un tossico, con la bava alla bocca e il tremore alle mani, soffrendo di allucinazioni e con le vene rovinate dai buchi.

(Il Messaggero, 29 novembre 2016)

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Intervista a Ágnes Heller: “Basta con i muri. Occorre rispetto nell’Europa divisa”


di Mario Avagliano

  “L’Europa è ammalata di bonapartismo. Ogni volta che si trova in crisi, come quella attuale dell’ondata migratoria, ricasca nella tentazione dell’uomo forte. Così si spiega il successo dei partiti populisti in molti Paesi europei”. Ágnes Heller, filosofa ungherese allieva di Lukács, pochi giorni fa a Trieste per il festival èStoria, è preoccupata. E indica la strada “americana” dell’integrazione per uscire dal tunnel e far ritrovare all’Unione Europea l’anima perduta.

Qual è l’identità dell’Europa oggi?
Un’identità europea chiara e ben delineata oggi non esiste. Nel corso dei secoli abbiamo avuto una serie di identità europee, ad esempio quella cristiana. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’Unione Europea, non l’Europa nella sua interezza, perché non si può includere in questo discorso la Russia di Putin, sta tentando di far propria la tradizione liberaldemocratica, centrata sul primato della legge e sulla divisione dei poteri. E sarebbe una cosa bella! Però sarebbe anche auspicabile che i leader europei avessero coscienza del passato storico del continente e la smettessero di far riferimento a presunti valori europei. Ogni volta che lo fanno, io mi arrabbio molto e mi domando quali siano questi valori europei, perché in realtà nel XX secolo l’Europa ha ucciso centinaia di milioni di persone con due guerre mondiali, due stati totalitari, Auschwitz e i Gulag, innumerevoli dittature.
Uno dei grandi problemi dell’Europa moderna è l’emergenza migratoria. L’arrivo di tanti migranti rischia di cambiare l’anima del Vecchio continente?
Nel Settecento in Europa si sono affermati due diritti diversi: i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino. La questione è se questi diritti siano veramente compatibili, perché sembrano non esserlo in tutti i casi: i diritti dell’uomo esigerebbero da noi per esempio di accettare tutti gli immigrati perché bisogna difendere i loro diritti in quanto uomini; il diritto dei cittadini esigerebbe viceversa di poter determinare chi lasciamo entrare in Europa e chi lasciamo fuori. Dunque ci troviamo davanti a questa condizione conflittuale che certamente sarà determinante per il futuro dell’Europa. Aggiungo che oltre a tale conflitto, dobbiamo anche considerare la reazione naturale, innata in ognuno di noi, quando ci troviamo a confrontarci con una persona che ha un’altra lingua, un’altra cultura. Il problema sorge quando un governo strumentalizza questi sentimenti per scopi più o meno nobili. Il futuro dell’Europa dipende dalla capacità dei governi europei di contemperare questi diritti.
Si torna a parlare di confini e di barriere. Un ritorno al passato?
Sono fortemente contraria a ogni tipo di recinto e di confine, però dobbiamo anche riconoscere il diritto appena menzionato del cittadino di limitare i diritti dell’uomo. A casa mia quando invito degli ospiti o anche dei parenti per qualche giorno, ci sono delle regole da rispettare: tenere pulito il bagno, non arrivare dopo mezzanotte e magari non venire accompagnati da una prostituta. I migranti dunque in Europa io li accetto volentieri, ma ci sono delle regole che anche loro devono rispettare, che sono le regole dello Stato nel quale vengono ospitati. Non c’è legge religiosa in questo mondo che possa essere superiore alle leggi dello Stato, e questo i migranti devono capirlo, altrimenti se le violano finiscono in prigione come ogni altro cittadino. Un’altra cosa difficilissima da realizzare qui in Europa, è che noi quando parliamo di integrazione spesso la confondiamo con il concetto dell’assimilazione, dunque col fatto che qualcuno diventi uguale a noi, parli la nostra stessa lingua, faccia proprie le nostre abitudini, i nostri comportamenti. Arriviamo all’estremo di esigere da loro che facciano propria la storia del paese ospitante, invece che la propria storia. Con questa confusione stiamo creando delle grandi tensioni e dei grandi conflitti. A nessuno piace assimilarsi. Un grande esempio sono di certo gli Stati Uniti, dove si parla di integrazione: tu vai a scuola e nessuno si oppone se porti lo chador o la croce, basta che studi. In Francia abbiamo invece un problema, perché lì non c’è integrazione ma assimilazione, viene insomma richiesta l’assimilazione alla cultura francese senza considerare la situazione degli immigrati. Negli Stati Uniti le cose funzionano molto meglio perché c’è vera integrazione, e non assimilazione; quando di recente Obama ha legalizzato la situazione di circa tre milioni di cittadini, questi sono scesi subito tutti nelle piazze, felici, a sventolare bandiere americane. Una cosa del genere non possiamo immaginarla in Francia, dove i musulmani francesi non lo farebbero mai perché non amano il paese che li ospita, il paese nel quale loro stessi sono cittadini, anche se discriminati.
La cultura dell’odio e dell’esclusione può vincere?
Il rafforzamento dei sentimenti nazionalisti e populisti in Europa non è causato dalla crisi migratoria di adesso, ma risale soprattutto alla crisi economica e finanziaria che ha avuto inizio nel 2007-2008. L’immigrazione non ha fatto altro che rafforzare questi fenomeni. Una causa storica che spiega in Europa il rafforzamento di tali tendenze è l’intolleranza europea nei confronti del fenomeno della frustrazione, ovvero: quando abbiamo un problema in Europa, iniziamo a gridare aiuto invece di cercare di risolverlo da soli. Purtroppo la storia testimonia che nei momenti di crisi l’Europa, invece di attenersi agli ideali liberali, è tornata ogni volta al bonapartismo.
Che cosa intende per bonapartismo?
Di fronte alle situazioni di crisi, in Europa c’è la tendenza ad invocare l’aiuto di un leader forte, scegliendo la strada della dittatura e dando vita a stati militarizzati. Questo è accaduto in Germania, in Italia, in Spagna, in Grecia, dappertutto. Bonaparte è stato solo il primo di una serie di leader provenienti dal basso, molto ambiziosi e che promettevano di salvare il popolo. Esempio storico: quando negli anni Venti è scoppiata la crisi economica in Europa e nel mondo, la crisi americana è sfociata nel New Deal, quella europea ha portato Hitler, Mussolini e altri tiranni. Dunque, ogni volta che c’è un problema noi europei cerchiamo l’aiuto di qualche tiranno, invece negli Stati Uniti cercano di riprendersi e di risolvere i problemi. Questo è ciò che io chiamo l’“intolleranza della frustrazione”, di fronte alla sofferenza, non riusciamo ad fronteggiare la frustrazione e questo porta ad un rafforzamento del populismo che gioca sempre la carta che porta voti, ed è la via più facile. La crisi dei migranti ne è un esempio. Vorrei citare a tal proposito le parole di Istvàn Bethlen, nobile politico ungherese, che ha detto: “l’odio avvelena l’anima della nazione che odia” e io condivido pienamente le sue parole.
È questo il motivo del successo dei partiti populisti o nazionalisti?
Fomentando odio, diversi leader populisti hanno raggiunto grandi consensi e sono riusciti a rafforzare la base politica. E così tutti gli immigrati di questi paesi sono identificati come terroristi e vengono proposti nuovi muri. Fatto sta che il paragone con il Muro di Berlino non regge pienamente, perché queste nuove mura non sono completamente impermeabili. Il Muro di Berlino lo era, non lo si poteva attraversare se non con il rischio di finire fucilati. I nuovi muri invece sono permeabili, ci sono categorie che possono passare: dipende soltanto dal governo di quel paese decidere quanti e quali categorie lo possono fare, sempre in base ai propri interessi. Allo stesso tempo, va riconosciuto che i leader europei si sono trovati ad affrontare le grandi masse di migranti completamente impreparati.
Finora l’America, come lei ha detto, è stata un po’ un’Arca di Noè in grado di accogliere e integrare i migranti, a vantaggio anche della sua economia. Con Donald Trump potrebbe cambiare qualcosa?
Credo che Donald Trump abbia poche chance di vincere, ma se per ipotesi diventasse presidente degli Stati Uniti, certamente non sarà un bonapartista. È impossibile che lui metta in discussione la costituzione americana e dunque il sistema del bilanciamento dei poteri; è impossibile che lui, come chiunque, metta questo in discussione perché c’è il Congresso, il Senato e al primo tentativo verrebbe cancellato con un impeachment. L’unico rischio che vedo della politica di Donald Trump è nella politica estera, dove il controllo del bilanciamento dei poteri non è così forte come nella politica interna.
Lei ha vissuto due persecuzioni, come ebrea e come anticomunista. C’è ancora una pulsione antisemita in Europa e nel mondo?
Si ho subito le persecuzioni di uno stato totalitario per la mia opposizione allo stato comunista. Per quanto riguarda l’antisemitismo, io non dispongo di analisi tali da poter affermare che l’antisemitismo stia crescendo. Credo comunque che oggi in Germania, Francia e Inghilterra il 30% della popolazione viva ancora forti sentimenti antisemiti. L’antisemitismo di oggi però lo chiamerei odio per Israele, essendo assai diverso dal tradizionale antisemitismo europeo.
C’è ancora bisogno di Unione Europea? Quali sono i passi da fare per una migliore integrazione?
L’Unione Europea può vantare una identità economica ed anche culturale, ma niente che possa essere considerato come assunto una volta per tutte dai vari popoli che la compongono. Non solo i governi infatti, ma direttamente i popoli stessi, perseguono spesso interessi nazionali, veri o presunti, ai danni della solidarietà europea. Insomma, l’Unione Europea esclude per principio il bonapartismo, ma certo può poco contro forme di sua subdola riproposizione, dal momento che non c’è ancora qualcosa come una Costituzione europea. E anzi proprio questo impedisce all’Unione di sancire come anticostituzionali determinate scelte di politica interna, come nel caso della piegatura bonapartista cui sono oggi soggetti alcuni Paesi, come ad esempio l’Ungheria. Nietzsche descriveva gli stati come bestie egoistiche, bisogna ammettere che questa regola, nonostante da tempo gli stati nazionali abbiano sostituito gli imperi, rimane ancora valida.

(versione più sintetica pubblicata su Il Messaggero, 27 maggio 2016)

Storie - La Memoria degli internati militari

di Mario Avagliano

  La legge istitutiva della Giornata della Memoria del 2000 riguarda, oltre che la Shoah e la persecuzione degli ebrei, anche i deportati politici e gli internati militari. All'indomani dell'8 settembre 1943, infatti, le truppe naziste nell'occupare l'Italia, scatenarono una caccia all'uomo nei confronti degli ebrei, con la complicità del redivivo fascismo di Salò, ma anche una feroce repressione dell'opposizione politica e sociale, con la deportazione di antifascisti, resistenti civili, partigiani, operai scioperanti. Inoltre l'esercito tedesco catturò e disarmò in Italia e sui vari fronti di guerra (dalla Francia ai Balcani alle isole greche) circa 1 milione di ufficiali e soldati italiani, spesso con l'inganno e non di rado con la collaborazione di nostri connazionali immediatamente schieratisi con la Germania a seguito dell'armistizio.
Di questo milione di soldati, circa 100 mila aderirono subito alle Ss tedesche o alla Rsi e altri 190 mila riuscirono a fuggire o vennero rilasciati.
In 710 mila vennero internati nei campi del Reich e posti di fronte all’alternativa se entrare nell’esercito della Repubblica Sociale, guidata da Benito Mussolini, oppure restare in prigionia, soffrendo la fame e sopportando gli stancanti e snervanti turni di lavoro. La maggior parte di loro, circa 600-630 mila, disse di “no” all’adesione, in nome della fedeltà all’Italia, al re e all’ideale di libertà, anche se una quota non irrilevante (oltre 100 mila) optò per la Rsi.

Diverse migliaia di internati morirono nei campi, per le pessime condizioni di vita e di lavoro o anche perché picchiati e fucilati. Anche la loro storia va ricordata.

(L’Unione Informa e moked.it del 26 gennaio 2016)

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Pinocchio in camicia nera

di Mario Avagliano
 
   In fondo in fondo c’è un Pinocchio in ogni politico italiano. Come recita la filastrocca di Benito Jacovitti, “fu il pupazzo di Collodi / cucinato in tutti i modi”. La fiaba senza tempo del burattino di legno è stata infatti terreno di conquista da parte della politica made in Italy, che già a partire dalla Grande guerra - a destra come a sinistra – l’ha manipolata a proprio piacimento allo scopo di denigrare l’avversario o di educare pedagogicamente gli elettori.
Così al Pinocchietto delle origini, imbevuto di ideali socialisti e inviso ai preti e al Vaticano, si è alternato il giovanotto vivace in camicia nera o in divisa di Salò, dispensatore indigesto di olio di ricino e di bastonature ai “burattini comunisti” o agli odiati inglesi. Per poi indossare nel dopoguerra le vesti del cattolico scudocrociato (dopo la rivalutazione di Collodi operata dal critico letterario Piero Bargellini) o del comunista modernista Chiodino, con tanto di falce e martello. Sempre con il Gatto e la Volpe e Lucignolo a recitare la parte dei cattivi.
Lo racconta il saggio “Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la guerra fredda” (Il Mulino, pagg. 188, euro 19). Dopo l’analisi di come nacque e si sviluppò la leggenda popolare secondo cui "I comunisti mangiano i bambini", questa volta lo storico Stefano Pivato indaga con arguzia altre iperboli favolistiche nella propaganda politica del Belpaese.
All’inizio del Novecento, l’ingresso delle masse nella politica indusse i partiti ad utilizzare un linguaggio più semplice e persuasivo, facendo ampio uso di metafore e di apologhi. Quale miglior modo di “arrivare” al popolo, compresi gli analfabeti o gli italiani di livello d’istruzione più basso, del raccontare le favole? Non solo nel senso di dir panzane. Ma soprattutto del ricorso a strutture narrative proprie della tradizione fiabesca, mescolando elementi di satira con riferimenti alla zoologia, alla miracolistica e alla fisiognomica. Senza disdegnare incursioni nel mondo del fumetto, come nel caso di Paperino fascista che si reca in Etiopia per far opera di civilizzazione.
Una tendenza che proseguì anche dopo il ventennio mussoliniano, nel clima grigio e pesante della guerra fredda e della minaccia nucleare, che ispirò la rappresentazione degli avversari quali veri e propri “mostri”. Ecco allora il lupo di Cappuccetto rosso, con le fauci spalancate, impersonare di volta in volta il segretario comunista Togliatti o viceversa l’America nell’atto di divorare l’Italietta; il leader sindacale Giuseppe Di Vittorio ritratto con l’anello al naso e due capi di Stato del livello di Truman e Stalin vestire i panni dell’Orco mangiafuoco. O ancora De Gasperi e i ministri democristiani disegnati come voraci topi roditori che affamano gli italiani o le donne dell’Azione cattolica brutte come scimmie e ricoperte di peluria, simbolo dell’antimodernità e della conservazione della Dc.
Personaggi delle fiabe, ma anche leggende metropolitane. Come quella costruita sui cosacchi che, in caso di vittoria dei comunisti, avrebbero abbeverato i loro cavalli nella fontana di San Pietro. O ancora quella legata al campione sportivo “crociato”, il  cattolico Gino Bartali, che nel 1948  grazie all’aiuto divino, vincendo il Tour de France avrebbe salvato a colpi di pedale l’Italia sull’orlo della rivoluzione in seguito all’attentato a Togliatti. Eroe positivo contrapposto al comunista Fausto Coppi e al fascista Fiorenzo Magni.
In questo tipo di racconto presenze divine e ultraterrene si sostituiscono a orchi e fate. Con le rivelazioni della Madonna di Fatima sulla rivoluzione bolscevica e le madonne pellegrine che nell’immediato dopoguerra piangono sangue per l’imminente pericolo rosso. O, sull’altro versante, con la mitizzazione del Paradiso sovietico e di Stalin come “Piccolo Padre”.
Un mondo grottesco in cui “quelle costruzioni fantastiche – come osserva Pivato – si affiancano, quando non si sostituiscono del tutto, all’argomentazione e alla discussione grazie anche alla loro facilità a trasformarsi in vulgata, invettiva e modo di dire”.
Si tratta quindi di racconti che stanno ai gradini più bassi della comunicazione, una vera e propria infantilizzazione del racconto della politica rivolto al mondo adulto. Dando ragione alla celebre opera di Ellen Key, che definì il Novecento il secolo del fanciullo.
Stereotipi e modalità di propaganda politica che peraltro resistono anche nell’era moderna dei social, ancora dominata da giaguari e pitonesse. Un’era in cui, ad esempio, l’ex comico Beppe Grillo non si fa scrupolo di apostrofare con il sempreverde nomignolo di Pinocchio sia il Berlusconi del 2008 che il Renzi di oggi, ricambiato con egual moneta con un’altra citazione dall’immortale favola di Collodi: quella del “grillo parlante”.

(Il Messaggero, 7 dicembre 2015)

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