Gli ebrei italiani e quel 16 ottobre

di Mario Avagliano

Il 16 ottobre è la vera “giornata della memoria” per gli ebrei italiani. Quel tragico sabato di ottobre del 1943 vennero rastrellati nel Ghetto di Roma 1259 ebrei. Le SS di Kappler li andarono a prelevare casa per casa. Due giorni dopo 1023 di essi furono deportati nel lager di Auschwitz (compreso un bambino nato dopo l’arresto della madre). Solo 17 sopravvissero. Fu la prima e la più imponente retata dei tedeschi in Italia nei confronti degli ebrei, messa in atto con il silenzio (e la complicità) delle autorità italiane della neonata Repubblica Sociale guidata da Benito Mussolini, e segnò l’inizio di una fase ancora più violenta della persecuzione razziale nel nostro Paese.

A distanza di 56 anni, l’Italia non ha ancora fatto i conti con questo lato oscuro della sua storia. La persecuzione degli ebrei del 1938-45 è stata vista e giudicata dai più come un fatto estemporaneo, quasi un corpo estraneo, indotto dall’esterno (Hitler) nelle nostre vicende nazionali.

La verità dei fatti fu ben diversa: a partire delle infauste leggi razziali del 1938 il governo di allora e gli italiani (che, pur nell’ambito della dittatura, espressero un vasto consenso di massa al fascismo e alle sue politiche, anche di discriminazione) intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei, sia pure nel quadro di un avvicinamento politico-militare oltre che ideologico con la Germania nazista, e la perseguirono con sistematicità, determinazione e - purtroppo - efficacia.

Il prezzo pagato dagli ebrei in Italia fu altissimo. E se la persecuzione delle vite umane tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 fa parte della storia più generale della Shoah (secondo gli studi di Liliana Picciotto provocò la morte di almeno 7.241 ebrei, pari a oltre il 22% della popolazione ebraica italiana), la persecuzione dei diritti subita dagli ebrei tra il 1937-38 e il 1943, costituita di umiliazioni, separazione dagli altri, segregazione, perdita di uguaglianza, cacciata dalle scuole e dai posti di lavoro, razzia di beni e proprietà, sofferenze e suicidi, resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere.

Il sistema persecutorio italiano fu il più articolato d’Europa dopo quello tedesco e in quegli anni alcune misure furono addirittura più gravose e vessatorie di quelle attuate dai nazisti. L’apparato amministrativo e burocratico statale si impegnò a fondo e con accanimento nell’applicare le leggi razziali. E così migliaia di professori, maestri, studenti, dipendenti pubblici, militari, impiegati privati, professionisti, da un giorno all’altro furono espulsi dalle scuole, dalle università, dagli uffici pubblici, dalle aziende, dalle forze armate, per il semplice fatto di essere ebrei.

Ma la responsabilità dell’Italia non riguarda solo le leggi razziali e la persecuzioni dei diritti. L’Ordine di Polizia della RSI numero 5, emanato il 30 novembre 1943 e trasmesso il giorno seguente alla radio, annunciò che tutti gli ebrei – «a qualunque nazionalità appartengano» - sarebbero stati arrestati e inviati ai campi di concentramento, fatta eccezione per quelli gravemente malati o di età superiore ai settant’anni. Di conseguenza, la maggior parte degli ebrei che poi trovarono la morte nei lager nazisti, come ha rilevato Michele Sarfatti, fu arrestata dalle autorità italiane e consegnata ai tedeschi. Alcune prefetture e comandi – ha scritto Renzo De Felice – ci misero «uno zelo veramente incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di violenza, di rapacità». Tutto l’apparato burocratico italiano fu coinvolto. La «caccia» durò fino alla fine: il 25 aprile 1945, un gruppo di militi fascisti in fuga verso la Francia, si fermò a Cuneo per prelevare sei ebrei stranieri e ucciderli, gettando i loro corpi sotto un ponte. Come dimenticare questo capitolo della nostra storia?

 

(E Polis, 17 ottobre  2009)

 

  • Pubblicato in Articoli

'1938. Diversi': ecco il documentario sulle leggi razziste contro gli ebrei

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2018, a pag. 32, con il titolo "Quando l’Italia capì di essere razzista", la recensione di Natalia Aspesi.

Prima fuori concorso alla Mostra, poi su Sky Arte, "1938. Diversi" il film di Levi e Treves per non dimenticare la vergogna di quei tragici eventi Quell’anno, il 1938, segnò il tempo del massimo consenso per il Duce: chi si aspettava da lui il riscatto, il predominio, la felicità, riempiva le piazze, persino più dei salviniani di oggi. La minoranza altra si occultava, spaventata, colpevolizzata, ridicolizzata ancor più di adesso, e allora in pericolo di vita. In un clima di tale asservimento entusiasta, bastarono cinque mesi, da luglio a novembre, per dividere gli italiani di serie A di "razza ariana" (in realtà molto miscelata), da quelli di serie B, perché di "razza ebraica". «Sono impressionanti le immagini di Benito Mussolini che nella Trieste del 18 settembre (in agosto era stato pubblicato il "manifesto della razza", ndr) raggiunge il palco da cui instaura l’antisemitismo come un fondamento dell’ideologia di regime».

Lo dice Sergio Luzzatto, storico e saggista, nel documentario di Sky Arte 1938- Diversi (il 4 settembre in anteprima fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia). «Per ricordare, per sapere, per capire, per risvegliare l’interesse dei giovani con un linguaggio diretto», dice il regista Giorgio Treves. «Anche io ne sapevo poco. I miei genitori avevano lasciato l’Italia nel 1940 con l’ultima nave diretta negli Stati Uniti, io sono nato a New York nel 1945. Della vita familiare a Torino mio padre non parlava mai». Il produttore Roberto Levi c’era, nel 1938 aveva 4 anni, ma la sua famiglia riuscì a fuggire in Svizzera prima dell’invasione nazista e l’inizio delle deportazione nel novembre del 1943. La velocissima campagna antiebraica si conclude il 14 novembre ’38 in parlamento dove, ricorda la storica Liliana Picciotto, «l’approvazione di questi decreti-legge avviene in un’atmosfera di consenso furibondo a Mussolini. In pochi minuti si decise la sorte degli ebrei d’Italia». 80 anni fa, uno dei nostri tanti, tragici, vergognosi anniversari. Da un diario, letto dall’attore Roberto Herlitzka: «La maestra chiamò il mio nome, e disse, "Bassi esci dalla classe". Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz. Solo, e scoppiai a piangere».

Liliana Segre, senatrice e sopravvissuta ad Auschwitz: «Molto spesso venivano in casa i poliziotti, ci trattavano da nemici della patria, con un atteggiamento di disprezzo, rude, di sospetto, che mi dava vergogna e paura, soprattutto paura». Aldo Zargani, scrittore: «Mi accorsi di essere ebreo, che stava cominciando qualcosa di terribile, il giorno in cui mio padre fu licenziato dall’orchestra dell’Eiar e diventammo una famiglia miserabile». Poco a poco, studenti e insegnanti ebrei vengono allontanati da ogni ordine scolastico: vietati i testi di autori ebrei, via dagli impieghi pubblici, via dall’esercito, via dal partito fascista (anche quelli fascistissimi che avevano partecipato alla marcia su Roma e si erano iscritti ancora prima), proibiti i matrimoni misti, allevare piccioni, avere una cameriera cattolica, affittare le stanze ai non ebrei, poi anche andare al mare. Su certi negozi c’era il cartello "vietato agli ebrei" ricordano senza stupore Luciana Castellina, Picciotto e altri. La minoranza ebraica italiana (uno su mille) era molto integrata soprattutto da quando, nel 1848 lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia — lo racconta lo storico Alberto Cavaglion — aveva concesso ogni diritto, compresa la fine dei ghetti, agli ebrei. Allora, si chiede il film, in che modo Mussolini, il fascismo, sono riusciti a "inoculare" negli italiani l’antisemitismo? Con l’incessante propaganda al cinema, alla radio, coi manifesti, con le parate, con le canzonette, con i giornali, con le esibizioni a torso nudo del Capo, persino con la moda e il lusso per i ricchi e la battaglia del grano per i contadini; tutti in divisa, adulti e bambini, libro e moschetto (adesso forse il moschetto, ma non il libro), con il martellamento sulla superiorità fisica e intellettuale degli italiani, anche se allora in parte analfabeti e stroncati dai lavori faticosi. Una festa continua, una festa nel 1935 con la guerra d’Etiopia, spiega lo storico Mario Avagliano, e il razzismo rancoroso contro i "negri", gli africani (che del resto è rimasto una bella eredità). Poi con la guerra di Spagna contro i comunisti, oggi molto dormienti, e Mussolini che dichiara: «Quando finirà la Spagna, inventerò qualcosa d’altro. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento». E inventa gli ebrei. Il documentario rappresenta la nostra pericolosa acquiescenza e fiducia al capo decisionista, in un tempo in cui non esistevano né tweet né selfie. Sfatata per l’ennesima volta l’idea degli italiani brava gente, perché se ci fu chi nascose e aiutò gli amici ebrei, tanti approfittarono della loro persecuzione o stettero zitti, come molti intellettuali. Non Toscanini, però e neppure papa Pio XI: morì prima che la sua enciclica antirazzista potesse uscire, ma disse «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui noi cristiani non dobbiamo aver nulla a che fare. Spiritualmente siamo tutti semiti». Hanno ragione gli autori a definire il film necessario perché «quegli eventi sia pure in modo diverso tornano a minacciare il nostro futuro. Abbiamo il dovere di mobilitarci e impedirlo». Con l’ultima immagine confusa di un carro bestiame verso il nulla, il doc si ferma sull’abisso del Dopo, per raccontare le responsabilità del Prima.

(pubblicato su informazionecorretta.com)

  • Pubblicato in News

#Venezia75 – 1938 Diversi, di Giorgio Treves

di Fabio Fulfaro

Oggi il mondo ci è precluso, siamo soli nello spazio che per noi è divenuto freddo e la sua ricca vastità ci è inaccessibile. Siamo terribilmente soli
Espulsi dall’ambiente, accettati nell’incertezza dei senza patria. Siamo soli come due ebrei soltanto possono essere soli.
Enzo Arian

Il 18 settembre 1938 a Trieste, facendosi largo tra due ali di folla in delirio, Benito Mussolini pronunciava uno dei suoi discorsi sulla inferiorità della razza ebraica e sulla necessità di mettere in atto provvedimenti che isolassero gli ebrei italiani in quanto “diversi”. Il 5 settembre e il 17 Novembre dello stesso anno venivano firmati due regi decreti che richiamavano gli odiosi comandamenti del Manifesto della Razza del precedente 14 Luglio: è la promulgazione delle leggi razziali e l’espulsione degli ebrei dalla vita pubblica.
A 80 anni da quell’infame periodo, Giorgio Treves e Luca Scivoletto con la produzione di Roberto e Carolina Levi per la Tangram Film, propongono un toccante documentario che alle interviste di diversi saggisti e storici alterna le dolorose testimonianze di chi quelle leggi le ha vissute sulla propria pelle. Attraverso il fuoco incrociato di racconti e documenti, si riesce a fare luce su uno dei momenti più oscuri della nostra storia. Uscito stremato dal primo conflitto mondiale, il popolo italiano sembra affascinato da una idea di nazione forte militarmente, cosciente della propria superiorità e desiderosa di espandersi in Africa (“libro e moschetto balilla perfetto”). Il colonialismo nostrano, che sfocia nella guerra di Etiopia, è caratterizzato da un razzismo e una intolleranza verso le persone di colore, giudicate inferiori. I discorsi populisti, le canzonette come Faccetta Nera, gli articoli tendenziosi sulla stampa e le vignette satiriche convergono tutte verso l’odio per l’africano, diventato pacco postale o merce di scambio, schiavo sessuale o manodopera da sfruttare. Finita vergognosamente la campagna coloniale africana, fallita miseramente la guerra di Spagna, Mussolini cambia obiettivo. E’ curioso pensare che prima del 1937, gli ebrei erano comunque rispettati per il loro sacrificio durante la I guerra mondiale e alcuni di loro aderivano con convinzione al Partito Nazionale Fascista. Per questioni meramente politiche (l’allineamento con il partito nazionalsocialista tedesco) proprio nel 1937 il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) aveva organizzato attraverso la stampa, la radio e il mezzo cinematografico una campagna mediatica diffamatoria che discriminava gli ebrei, dipinti come vigliacchi, avidi di denaro, traditori della patria.

Treves fa analizzare le cause di questa follia ideologica attraverso le parole apparentemente asettiche di studiosi ed esperti come Mario Avagliano, Sergio Luzzatto, Liliana Picciotto, Alberto Cavaglion, Luciana Castellina, Michele Sarfatti, Marcello Pezzetti, Edoardo Novelli, Walter Veltroni. I devastanti effetti li ascoltiamo attraverso i terribili ricordi di Rosetta Loy, di Alessandro Treves, di Roberto Bassi, di Bruno e Liliana Segre: le umiliazioni a scuola, l’isolamento dalla vita civile, le fughe precipitose in America o in Svizzera, la deportazione ad Auschwitz da quel maledetto binario 12 della Stazione Centrale di Milano.
Quando il discorso tende a farsi più personale, Treves saggiamente inserisce delle animazioni che fanno da filtro a questo materiale emozionale. Mantenere vivo il ricordo significa prevenire quello che Umberto Eco chiama l’eterno ritorno del fascismo, pronto a manifestarsi quando alla regressione economica si associa una rapida involuzione culturale. Scorre più di un brivido lungo la schiena mentre Roberto Herlitzka declama le parole di Enzo Arian o quando Liliana Segre parla di una linea nera continua che parte dalla firma di Vittorio Emanuele (il regio decreto sui Provvedimenti per la razza italiana) e si ingrossa sui binari di un treno per l’inferno.
Giorgio Treves non si limita a narrare i fatti ma propone una via per risorgere dalle ceneri di questo passato ignobile: dei ragazzi fuori dalla scuola ridono e parlano spensieratamente, forse è da loro che bisogna ripartire, perché le nuove generazioni non possono non sapere. Queste immagini e questa sofferenza devono servire a futura memoria, se la memoria ha un futuro.

(pubblicato su sentieriselvaggi.it)

  • Pubblicato in News

“1938. Diversi” di Giorgio Treves è tra i vincitori dei Nastri d’Argento per i Documentari 2019

Il film documentario “1938. Diversi” di Giorgio Treves è stato premiato durante la cerimonia di consegna dei Nastri d'Argento per i Documentari 2019 come "Miglior Documentario - Cinema del reale".

Prodotto da 
Tangram Film in collaborazione con Sky ArteMibactAB Groupee AAMOD, e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund, “1938. Diversi” mostra come articoli, vignette, fumetti e filmati contribuirono a trasformare, in pochi mesi, gli ebrei dapprima in "diversi" e poi in nemici della nazione. La voce di alcuni testimoni diretti, la ricostruzione di episodi realmente accaduti e il contributo di importanti studiosi di storia (tra cui Mario Avagliano, Michele Sarfatti, Sergio Luzzatto e Alberto Cavaglion) aiutano a comprendere il ruolo decisivo che i mezzi di comunicazione di massa ebbero in una delle vicende più tragiche dell'umanità.

Nastri d'Argento sono l’iniziativa più importante nel calendario delle manifestazioni organizzate dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani
Riconosciuti dal 
MiBACT Premio di Interesse Culturale Nazionale, sono il più antico riconoscimento per il cinema italiano, secondi nel mondo, per ‘anzianità’, solo agli Academy Awards: i giornalisti cinematografici iscritti al SNGCI li assegnano infatti dal 1946, attraverso un voto con scrutinio notarile, che premia ogni anno i migliori film, autori, interpreti, produttori e tecnici.

  • Pubblicato in News

Mussolini, quell'antico patto con l'Islam

di Mario Avagliano

Il feeling tra il fascismo e l’Islam non è una novità storiografica. Già Stefano Fabei, ad esempio, ne aveva scritto in passato nel saggio «Il fascio, la svastica e la mezzaluna» (Mursia). Un libro appena uscito, «Mussolini e i musulmani. Quando l'Islam era amico dell'Italia» (Mondadori, pp. 150, euro 19), di Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch, ci aiuta a ripercorrerne le tappe e a comprenderne le motivazioni e la pesante eredità per l’Italia di oggi, con il piglio e la scorrevolezza del «buon giornalismo storico», come scrive Roberto Balzani nella premessa.

Nella ricostruzione fatta da Mazzuca e Walch il rapporto di amorosi sensi tra Benito Mussolini e l’Islam ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. A propiziarlo, nel 1913, quando Mussolini era ancora direttore dell’«Avanti!» ed era del tutto a digiuno di storia islamica, fu l'affettuosa amicizia che egli intrattenne a Milano con la giornalista Leda Rafanelli, detta l’Odalisca, di fede musulmana, che vestiva spesso una gelabiat (una specie di caffettano), e alla quale il futuro duce, dopo aver chiesto con una gaffe se era buddista, promise di leggere «Nietzsche e il Corano».

Due anni prima, nel 1911, Mussolini era finito in galera assieme ad un altro romagnolo doc, Pietro Nenni, per avere partecipato alla manifestazione di protesta a Forlì contro la guerra agli ottomani sferrata da Giolitti, deciso ad annettersi i territori libici e colonizzare i musulmani. Secondo l’allora compagno Benito, si trattava di mire imperialistiche da parte italiana: un’usurpazione vera e propria nei confronti dei poveri indigeni islamici.

La simpatia per l’Islam mise altre solidi radici nell’Italia fascista degli anni Venti, attraversata da un sentimento di rivalsa verso la «vittoria mutilata» sancita dal trattato di Versailles del 1919, condiviso anche dai paesi arabi, ancora sotto il giogo coloniale franco-inglese.

Più tardi, negli anni Trenta, l’antisionismo spinse Mussolini e gli islamici a trovarsi dalla stessa parte della barricata contro il progetto di spartizione della Palestina, fino a trovare un altro terreno di comunanza ideologica nella promulgazione in Italia delle leggi razziste contro gli ebrei.

In quegli anni il duce guardò all’Islam con sempre maggiore attenzione, imponendo già nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con i paesi dell'Islam, tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano.

Il duce venne ricambiato con fervore dai paesi arabi, nei quali nacquero diversi movimenti (le Falangi libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto, le Camicie azzurre) che seguivano il fascismo con particolare interesse, come alternativa al modello della Gran Bretagna e della Francia e come scorciatoia per nazionalizzare le masse per via autoritaria, evitando i rischi della democrazia occidentale. Non a caso di recente Hamed Abdel-Samad, politologo e storico tedesco nato al Cairo, ha dato alle stampe un saggio dal titolo significativo: «Il fascismo islamico». 

La stessa guerra di conquista dell'Etiopia nel 1936, definita da Indro Montanelli, che vi partecipò, «una bella lunga vacanza dataci dal Grande Babbo in premio di tredici anni di scuola», e ottenuta anche con l’impiego dei gas tossici, venne presentata come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani. Tanto è vero che, ricordano Mazzuca e Walch, il 20 marzo 1937, testimone Italo Balbo, Mussolini fece ingresso a Tripoli su uno splendido cavallo sguainando la famosa Spada dell'Islam, un gioiello in oro massiccio, cesellato da artigiani fiorentini.

«Il Messaggero» dell’epoca, al pari degli altri giornali italiani, titolò: «La spada dell’Islam al fondatore dell’Impero», citando alcuni brani del discorso del duce: «L’Italia Fascista intende assicurare alle popolazioni mussulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam ed ai mussulmani del mondo intero». Tra i pochi commenti negativi, ci fu quello di Leo Longanesi, che sentenziò: «Sbagliando s'impera».

Balbo, da governatore della Libia, aprì nuove frontiere al mondo arabo e intensificò il dialogo con i musulmani, costruendo la via Balbia, istituendo la Gioventù araba del littorio e facendo ottenere nel 1939 la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B.

Il feeling tra il regime fascista e i musulmani, raccontano Mazzuca e Walch, proseguì anche negli anni di guerra, con il progetto di costituire in Italia una legione araba fedele alle forze dell’Asse, con la benedizione del Gran Mutfì di Gerusalemme, il quale - dialogando anche con Hitler - ambiva a creare un superstato in grado di riunire Iraq, Siria, Palestina e Transgiordania, contro britannici ed ebrei. Il progetto di una legione araba, accarezzato fin dal 1941, prese corpo nel maggio del 1942, e il primo nucleo, peraltro esiguo, di volontari musulmani giurò di «combattere contro le Forze britanniche e i loro alleati fino alla completa liberazione dei Paesi Arabi del Vicino Oriente». Saranno poi impiegati a partire dal gennaio 1943 in Africa settentrionale, accanto alle truppe italiane.

Qualche anno prima Mussolini, nel settembre del 1936, come risulta da un appunto conservato nella sua segreteria particolare, si era anche dichiarato disponibile a fornire al Gran Mutfì di Gerusalemme, postosi alla testa di un’infiammata rivolta araba, il materiale e il personale necessari per avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv, la città in cui si era stabilito il maggior numero degli ebrei arrivati in Palestina. Per fortuna il piano fu poi abbandonato, anche se al Mutfì arrivarono dal governo italiano 138 mila sterline.

(pubblicato in versione più sintetica su "Il Messaggero" del 22 aprile 2017)

  • Pubblicato in Articoli

Storie – Le spiagge razziste dei primi anni Quaranta

di Mario Avagliano

   Nella calda estate del 1940, segnata dall’entrata in guerra dell’Italia, il regime fascista impose un nuovo giro di vite agli ebrei, vietando loro perfino di recarsi in vacanza.  «25 luglio ’40. Gli ebrei allontanati dalla spiaggia adriatica», annotava Maurizio Pincherle nel suo diario. Si riferiva a Palombina sulla costa marchigiana, dove era solito ritrovarsi con i parenti durante le vacanze. Ma il provvedimento riguardava tutte le località turistiche.

Considerati «nemici della Nazione», nonché «razza inferiore», gli ebrei oltre ad essere esclusi dalle scuole e dai posti di lavoro pubblici, non ebbero più diritto neppure a recarsi nei luoghi di villeggiatura «di lusso».
Una pagina triste della nostra storia che ci viene ricordata da Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni nel libro «Spiagge di lusso. Antisemitismo e razzismo in camicia nera nel territorio riminese» (Panozzo Editore, pp. 282). Sul litorale dell’Emilia-Romagna erano considerate località off-limits per gli ebrei Cattolica, Misano Adriatico, Riccione, Rimini, S. Mauro Pascoli, Gatteo e Cesenatico. E allargando lo sguardo al resto d’Italia, come si legge nell’elenco ministeriale approntato dalla Direzione Generale per il Turismo del Ministero della Cultura Popolare del 9 giugno 1943, tra le località vietate agli ebrei figurano, tanto per citarne alcune, Senigallia, Camaiore, Cortina d’Ampezzo, Ortisei, Sanremo, Rapallo, Forte dei Marmi, Viareggio, Abano Terme, Salsomaggiore, Venezia, Alassio, Madonna di Campiglio, Recoaro Terme…
Il libro di Maggioli e Mazzoni non si sofferma solo su questa vicenda, ma racconta - con un’attenta e documentata ricostruzione dei fatti - anche la storia di molti ebrei residenti o di passaggio nel territorio riminese, tra Bellaria e Cattolica, dal 1938 al 1944, e degli episodi di razzismo e di persecuzione e di vessazione ma anche di solidarietà che si registrarono in quella parte d’Italia. Nomi, storie, fotografie, informazioni che ci restituiscono un ritratto dell’Italia razzista di quegli anni. Un ritratto per troppo tempo dimenticato.

(L’Unione Informa e Moked.it del 19 aprile 2016)

  • Pubblicato in Storie

Storie – Il razzista Emilio Cecchi

di Mario Avagliano

   Il razzismo italiano del Novecento si abbeverò anche alla fonte avvelenata di fini letterati come Emilio Cecchi, l'autore di "Pesci rossi" (1920) e di "America amara" (1939), che per gran parte del secolo scorso fu uno dei maggiori critici italiani, recensendo la produzione letteraria specialmente sulla terza pagina del Corriere della Sera. Lo mette in luce, con ricchezza di documentazione, il saggio di Bruno Pischedda "L'idioma molesto. Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale" (Aragno, pp. 313).
Cattolico reazionario, anche se di spirito crociano, Cecchi nel 1925 firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, salvo poi piegarsi al regime fascista negli anni successivi, tanto da essere designato nell'Accademia d'Italia.
Nella ricostruzione di Pischedda, scopriamo che già agli esordi sulla Tribuna nel 1910 il critico fiorentino parla di stirpe e cita frequentemente autori stranieri razzisti, spargendo qua e là nei suoi scritti chiare espressioni o riferimenti antisemiti.
Nel 1938, l'anno delle leggi razziali, Cecchi s'imbarca per gli Stati Uniti e dal viaggio oltreoceano ricava un reportage in cui risulta evidente il terrore del meticciato e della mescolanza etnica e il forte sospetto verso la comunità ebraica, vista come un elemento parassitario e dissolvitore del mondo occidentale.
Nel 1942, poi, Cecchi prenderà la parola al convegno di Weimar voluto da Goebbels come rappresentante ufficiale dell'Italia.
Un passato scomodo che poi farà dimenticare nel dopoguerra, cancellandone in qualche modo le tracce, al pari di tanti altri illustri italiani che non furono solo complici ma contribuirono direttamente a diffondere il verbo razzista nel nostro Paese.

(L’Unione Informa e Moked.it del 12 gennaio 2016)

  • Pubblicato in Storie

Storie – Il 17 novembre, le leggi razziste e i baroni di razza

di Mario Avagliano 

  Il 17 novembre del 2013 ricorre il 75° anniversario dell’emanazione del regio decreto legge sulle leggi razziali (meglio sarebbe dire leggi razziste). Un appuntamento importante per riflettere e approfondire, anche dal punto di vista storiografico, la prima fase della persecuzione degli ebrei in Italia, quella che Michele Sarfatti ha definito la persecuzione dei diritti, un po’ messa in ombra dalla tragicità della fase successiva della Shoah.
Io credo che il 27 gennaio costituisca una data-simbolo insostituibile del calendario internazionale della Memoria. Non vi è dubbio però che quella giornata riguardi in particolare le immani responsabilità della Germania nella vicenda delle deportazioni, non solo di tipo razzista, ma anche politico e militare. E per evidenti motivi, a partire dall’altissimo numero delle vittime, nelle scuole, sui giornali, nei convegni si parla quasi esclusivamente dell’esperienza dei lager.

Il dramma universale di Auschwitz, in qualche modo, oscura il 1938. E a noi italiani, bisogna ammetterlo, in fondo questa lettura storica non dispiace, perché ci consente di autoassolverci e, come diceva Vittorio Foa, di scaricare sui tedeschi il peso storico che portiamo sulle nostre coscienze e di soffermarci sui Giusti e sugli episodi, che pure ci sono stati, di salvataggio degli ebrei.
D’altra parte l’incredibile fretta con cui, dopo la liberazione, in un clima imbevuto di logiche di amnistia collettiva, ci si precipitò ad archiviare quanto accaduto tra il 1938 e il 1943, ha impedito una vera presa di coscienza del passato e ha coperto, omettendoli, i nomi e i cognomi dei responsabili. Che non furono solo Benito Mussolini e i gerarchi fascisti.
Un bel libro appena uscito, Baroni di razza di Barbara Raggi (Editori Riuniti, 216 pagine), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Per sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della propaganda antisemita e della persecuzione. Rimasero tutti (o quasi) al loro posto. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono senza colpo ferire le dure sentenze della Storia. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che ad esempio scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza e aveva “lavorato” per dare un’inclinazione storica e culturale al razzismo fascista. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse serenamente la sua carriera col rango di professore emerito.
I francesi, com’è noto, hanno  istituito una giornata nazionale del ricordo il 16 luglio, data in cui nel 1942 fu attuato il cosiddetto Rastrellamento del Velodromo d'inverno e le milizie francesi arrestarono 13.152 ebrei, gran parte dei quali furono deportati e morirono ad Auschwitz. A titolo personale, avanzo una proposta. Perché non fare lo stesso anche in Italia, magari in coincidenza dell’anniversario del 2013, istituendo un giorno della memoria delle responsabilità nazionali proprio il 17 novembre, data di emanazione delle leggi razziali del 1938?

(L'Unione Informa, 13 novembre 2012)

  • Pubblicato in Storie
Sottoscrivi questo feed RSS