Intervista a Gabriele Del Mese, progettista

di Mario Avagliano

Forse non c’era bisogno di scomodare l’architetto catalano Oriol Bohigas, per riprogettare l’assetto urbanistico di Salerno. C’è un ingegnere ebolitano che ha costruito grandi opere in Germania, in Inghilterra, in Iran, in Libia, ed è un punto di riferimento per i più grandi architetti del mondo. Si tratta di Gabriele Del Mese, amministratore delegato dell’Arup Italia, sezione italiana di una delle più importanti società di progettazione del mondo, che in questi mesi è impegnata nella realizzazione della nuova stazione dell'alta velocità di Firenze e del Palahockey per le Olimpiadi 2006 di Torino. Del Mese, in trentacinque anni di esperienza professionale, non ha mai lavorato nelle sue zone di origine, se non agli esordi. Da Milano, applaude alla svolta urbanistica di Salerno dell’ultimo decennio, ma avverte: “La zona che va da Eboli a Pontecagnano ha subito uno sviluppo caotico e disordinato, e si trova in uno stato di forte degrado. Bisognerebbe avere il coraggio di abbattere le case abusive e di ridisegnare il territorio”.

Com’era Eboli quando lei era bambino?
Ho lasciato Eboli quando avevo tredici anni e i miei ricordi sono un po’ sbiaditi. Fin da allora mi piaceva passeggiare nella parte antica della città e frequentare la piazza centrale, che era stata pianificata con grande lungimiranza negli anni Trenta, quando l’abitato di Eboli cominciò ad espandersi fuori dalle mura medioevali. Una piazza che trovo tuttora bellissima, e addirittura unica nel circondario.
Unica?
La piazza di Eboli è interessante dal punto urbanistico, con la sua forma ad ellissi, simile nella concezione a Piazza del Popolo a Roma. E poi, rappresenta una prova concreta di quanto la nostra professione possa influenzare la vita delle persone. A Battipaglia, a Pontecagnano e nelle altre città vicine, manca un’opera del genere, voglio dire un’agorà, un centro di ritrovo delle persone, dove divertirsi, filosofeggiare, incontrarsi, scambiare opinioni, prendere decisioni.
Come mai andò via da Eboli?
Qualcuno disse a mio padre che questo ragazzino aveva delle potenzialità, e allora m’impacchettarono e mi spedirono in un collegio in Piemonte, gestito dai salesiani.
Il distacco dalla sua città fu difficile?
A tredici anni, quando lasci la mamma, gli amici, la famiglia, sei preda di sentimenti contrastanti, un misto di trauma e di voglia di avventura. Con il senno del poi, sono grato ai miei genitori. Studiare in collegio, mi ha dato metodo e disciplina e mi ha insegnato a perseguire con rigore i miei ideali.
Il terzo liceo, però, l’ha frequentato ad Eboli.
E’ vero. Ed è stato per me un anno indimenticabile. Ho avuto la fortuna di far parte di una classe eccezionale. Sono nate amicizie che coltivo tuttora ferocemente, con grande affetto e con cura.
Quando nacque la sua passione per il progettare, per il costruire?
Subito dopo il diploma di maturità, quando mi trovai di fronte alla scelta dell’università. Molti miei amici si iscrissero a medicina, alcuni a giurisprudenza e altri ancora ad architettura. Io ero indeciso tra ingegneria e architettura. Poiché in Italia c’è la convinzione che l’ingegnere edile trovi più facilmente lavoro e sia - in fondo - anche un po’ architetto, alla fine optai per ingegneria.
Quali sono state le sue prime esperienze di lavoro?
Ho iniziato a Salerno, all’inizio degli anni Settanta, con l’ingegnere Matteo Guida, che fu uno dei primi a fidarsi di me. Mi coinvolse nella parte ingegneristica della progettazione di un paio di ospedali della provincia. Mi ha insegnato i rudimenti della professione, anche se poi, quasi subito, la mia forte ambizione mi spinse all’estero.
Come fece ad essere assunto dallo studio Arup?
Fu grazie a un colloquio un po’ garibaldino presso la sede centrale di Londra. Era il 1973 e lo studio Arup era famoso a livello mondiale, perché stava ultimando il Teatro dell’Opera di Sidney, un’opera fondamentale di ingegneria del Novecento. Io mi presentai spavaldamente, portando con me tre pubblicazioni sulla scienza delle costruzioni che avevo scritto all’Università di Padova e che andavano a ruba nella facoltà. Non conoscevo l’inglese e affrontai un colloquio di due ore armato solo della mia matita... Fu una vera sorpresa apprendere che mi offrivano un posto.
Da allora lei per anni ha vissuto in Inghilterra, spostandosi in Germania, Libia, Kuwait, Iran, Irak, Arabia Saudita e Filippine per seguire la realizzazione delle opere progettate. Qual è stata l’esperienza più bella?
Gli inizi sono stati entusiasmanti. Fui immediatamente coinvolto nella progettazione ingegneristica della nuova università della Libia e, di lì a poco, diventai capo progetto. Poi lavorai in Iran e in Arabia Saudita. Per un giovane ingegnere di trent’anni girare il mondo e costruire grandi opere, era la realizzazione di un sogno.
Qual è l’opera di cui va più fiero?
Citerei almeno tre progetti: la Chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, la Banca Commerciale di Francoforte e il Museo vicino a Cambridge, a Duxford, in Inghilterra, che fu inaugurato dalla Regina Elisabetta.
Di solito i cervelli italiani fuggono all’estero. Lei è uno dei pochi casi di intellettuali famosi ritornati in Italia. Come mai?
Negli anni Novanta, mi sono trovato di fronte a una scelta. O chiudere la mia carriera professionale a Londra, dove ho famiglia e ho una casa, oppure accettare una nuova sfida: tornare in Italia e dare il mio contributo a rilanciare la nostra professione, dopo il terribile scandalo di Tangentopoli, che ha infangato il mondo delle costruzioni. Ho iniziato ad accettare offerte da parte delle università italiane di tenere conferenze o lezioni, e dall’incontro con gli studenti, è nata l’idea di fondare una sede italiana dell’Arup, a Milano.
E’ vero che al suo studio a Milano da’ la precedenza ai ragazzi del Sud?
Nel mio studio c’è una netta preponderanza di professionisti del Mezzogiorno, in particolare della Sicilia e della Campania. Io sono del parere che bisogna sempre aiutare le persone capaci, ho seguito questo principio anche quando ero a Londra, e i giovani ingegneri e architetti meridionali hanno spesso grande talento.
Lei è un propugnatore dell’approccio multidisciplinare alla progettazione. Ci spiega di che cosa si tratta?
La società moderna è sempre più complessa. Qualsiasi opera, per poter essere realizzata, ha bisogno di un’équipe costituita, oltre che da ingegneri, anche da architetti, geologi, impiantisti ecc. Io credo che l’approccio multidisciplinare sia una necessità.
Quali sono i progetti a cui sta lavorando in questo momento?
I progetti principali che la Arup Italia ha in corso sono la nuova stazione dell'alta velocità di Firenze, il Palahockey per le Olimpiadi 2006 di Torino e il recupero dei Mercati Generali di Roma. Tre opere importanti, che sto seguendo personalmente.
Lei è stato di recente a Salerno. Che impressione le ha fatto dal punto di vista urbanistico e architettonico?
Trovo che la parte storica intorno al Duomo sia un vero gioiello. Fino a Mercatello, anche il resto della città si sviluppa bene. Oltre, invece, c’è caos e disordine.
In effetti la fascia di territorio che va da Pontecagnano a Eboli è in stato di forte degrado.
Se si percorre la statale, ci si accorge che non c’è soluzione di continuità tra un centro urbano e l’altro. Ai tempi in cui ero un giovane ingegnere, quelle città avevano un inizio e una fine, adesso hanno perso la propria identità e sono caratterizzate da orribili periferie. Nella campagna e sul lungomare sono spuntate centinaia di case abusive, che bisognerebbe avere il coraggio di abbattere. L’unica eccezione è Eboli, che ha un bel centro storico e, come dicevo prima, una bella piazza. Ho preso una casetta vicino al Castello di Eboli e ci vado volentieri, molto più che in passato. Ma fuori dal centro, anche la periferia di Eboli è un disastro.
Il Comune di Salerno ha chiamato un grande architetto come Bohigas per riprogettare la città. Che ne pensa?
Tutto il bene possibile. Nella mia esperienza ho imparato che chi viene da fuori, ha una mente più libera da pregiudizi e può dare un grande contributo progettuale, senza essere condizionato da vincoli locali.
Le piacerebbe realizzare un’opera a Salerno o a Eboli?
Mi piacerebbe moltissimo, ma ad alcune condizioni: la credibilità del progetto, lo snellimento delle procedure e l’assunzione di un chiaro impegno a perseguire fino in fondo l’obiettivo prefissato. Non è concepibile che un progetto abbia un iter così lungo come avviene nel nostro Mezzogiorno!

(La Città di Salerno, 7 novembre 2004)

Scheda biografica

Gabriele Del Mese è nato a Eboli l’8 novembre del 1939. E’ amministratore delegato dell’ufficio di Arup Milano, oltre ad essere uno dei direttori di Arup Group. Ha frequentato il liceo Classico a Torino ed Ingegneria Civile all’Università di Padova. Dopo un iniziale periodo professionale in Italia, è entrato in Arup nel 1973. Durante la sua carriera internazionale all’interno della società, è stato responsabile per la progettazione e la costruzione di un gran numero di progetti ampi e complessi, inclusi ospedali, università, teatri, impianti sportivi, edilizia terziaria ed edifici industriali. Ha tenuto conferenze in tutto il mondo, ha partecipato a numerose pubblicazioni ed è un fautore entusiasta dell’approccio multidisciplinare alla progettazione. Nel 2000 è tornato in Italia, aprendo a Milano una sede del Gruppo Arup, una fondazione internazionale che conta oltre settemila professionisti. E’ membro della Institution of Structural Engineers, ingegnere abilitato sia in Italia che nel Regno Unito e membro dell’Ordine degli Ingegneri di Salerno. Fra i progetti attuali e recenti in cui è coinvolto, vanno ricordati: il Palahockey per le Olimpiadi 2006 di Torino; la Stazione della TAV, Firenze, la Sede de Il Sole 24 Ore, Milano; il Central Park, Schio; l’American Air Museum, Duxford, UK; il Commerzbank HQ, Frankfurt.

 

Intervista a Corrado Ruggiero, scrittore

di Mario Avagliano

Ha scritto il suo primo romanzo, un giallo “napoletano-nucerinese” intitolato “Rossa malupina”, alla rispettabile età di 67 anni. Più tardi di Italo Svevo, che già aveva costituito un’eccezione nel panorama narrativo italiano. Da allora, anno di grazia 2002, il professor Corrado Ruggiero da Nocera, pensionato, una carriera ragguardevole nella scuola (è stato preside e ispettore scolastico e ha coordinato uno dei progetti didattici più innovativi del dopoguerra), non si è più fermato. Ha pubblicato altri due romanzi e si è imposto all’attenzione della critica letteraria italiana. Cesare Segre, a proposito della sua trilogia dedicata a Nocera, ha parlato di “affresco di straordinario scintillio”, plaudendo al suo “policromo impasto idiomatico”. Intervistato da la Città, Ruggiero rivela che ha appena terminato il suo quarto libro di narrativa e nega ogni paragone con Domenico Rea.

Professore, partiamo delle sue origini nocerine.
Io sono nato a Carbonara di Nola, un paesino ai piedi del Vesuvio, tra Nola e Palma Campania. Mio padre Giovanni era di Sessa Aurunca, e faceva il vicebrigadiere dei carabinieri. Mia madre era originaria di Gragnano. Quando avevo quattro anni, la mia famiglia si trasferì a Nocera Inferiore, dove sono cresciuto, dove ho frequentato tutte le scuole fino al liceo classico, e dove sono vissuto ininterrottamente fino al 1990, quando ho messo casa definitivamente a Milano.
La Nocera dei suoi anni verdi era diversa da quella di oggi?
Era molto diversa. A metà degli anni Cinquanta, purtroppo Nocera cambiò volto, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista sociale, come accadde peraltro in diverse città del Mezzogiorno. In questo quadro di degrado e di involuzione, le speculazioni edilizie costituivano solo il pugno nell’occhio più eclatante, poiché allo sfregio urbanistico si accompagnò anche lo sfregio alla vita sociale e civile, con il dilagare della criminalità.
Il degrado toccò pure l’economia cittadina?
Eccome! Se negli anni Venti erano fallite le prime fabbriche di maccheroni, negli anni Cinquanta chiusero i battenti anche le ultime fabbriche di “pummarole”. Nocera diventò una città parassitaria, di professori, di impiegati, di medici, caratterizzata da una marea di ragazzi che andava a scuola per non imparare niente, in attesa di qualcosa che - nella maggior parte dei casi - non arrivava.
Che intende per città parassitaria?
Mi riferisco all’economia, ma anche all’ambiente sociale e culturale di Nocera. Il nocerino che aveva quattro soldi, passava la serata a Cava, non certo nella sua città. E se era un “signore”, si recava a prendere il caffè a Salerno. Cava e Salerno erano assai più stimolanti. In particolare, c’era una subordinazione psicologica dei nocerini nei confronti di Cava. La cavesità veniva percepita come qualcosa di superiore. Voglio dire che se un giovane di Nocera trovava una ragazza “cavajola” che se lo pigliava, toccava il cielo con un dito. Figurarsi se era invitato a ballare al Circolo del Tennis di Cava. Era il massimo!
Quando nacque in lei la passione per la scrittura?
Avevo 17 anni quando scrissi la mia prima novella, che era un po’ sullo stile di Cesare Pavese. La inviai ad Arrigo Benedetti, allora direttore dell'Espresso. Mi rispose per iscritto. Mi fece i complimenti per la mia “padronanza del racconto” e m’invitò ad andarlo a trovare a Roma. Non avevo neppure i soldi del biglietto del treno, e restai a casa. Non lo dico per patetismo. C'era forse anche un'ombra di naturale accidia o pudore o ritrosia o mancanza di spirito d'avventura che mi bloccavano.
E così si dedicò ad altre cose.
Mi laureai in giurisprudenza all’Università di Napoli e, successivamente, anche in filosofia. Tra l'una e l'altra laurea, ho lavorato due anni nell'Olivetti. C'era ancora il patron Adriano ed ebbi la ventura di conoscere alcuni notevoli personaggi: Ottiero Ottieri, Giancarlo Lunati ed altri. L'Olivetti si avviava al tramonto, per cui mi diedi - come ripiego - all'insegnamento. Ricordo che a uno dei concorsi, ebbi modo di incrociare Giorgio Petrocchi, uno dei più insigni dantisti di questo secolo. Insegnando, venni faccia a faccia con ciò che veramente amavo: il mondo delle parole e, in particolare, delle parole quando si organizzano in una favola.
Vent’anni di insegnamento, fino alla nomina a preside.
Ho insegnato presso il Magistrale di Nocera fino al 1982. Quell'anno ebbi ben cinque nomine a preside, avendo vinto 5 concorsi per esami. Scelsi l'Itc "Pucci" di Nocera, dove sono rimasto per poco più di due anni. Spero di non aver lasciato un cattivo ricordo di me. Pensi, avevamo ogni anno 2.500 alunni. Per risolvere il problema del sovraffollamento delle aule, feci istituire due nuovi istituti, uno a Sarno e uno ad Angri. Organizzai conferenze con filosofi del livello di Aldo Masullo, incontri con giuristi importanti come il professor Bonifacio, che era stato Presidente della Corte Costituzionale, e anche concerti di musica classica, con la collaborazione di una società di musicofili di Nocera. Tenne un concerto per noi anche il flautista di fama internazionale Severino Gazzelloni. Un’attività culturale notevole, che mi procurò molte ostilità e invidie.
Fu lei a organizzare la prima manifestazione pubblica a Nocera per Domenico Rea.
In tanti anni, a Nocera, non era stato mai organizzato un incontro pubblico con don Mimì. Con l’aiuto del sindaco Mario Stanzione, che conoscevo da ragazzo, lo invitai all’Itc insieme a Giuseppe Marrazzo, un altro nocerino illustre. Marrazzo, grazie alle inchieste sulla camorra, era diventato un giornalista molto noto, ma in quell’occasione si acconciò ad essere un comprimario.
Che tipo era Domenico Rea dal punto di vista umano?
Era un personaggio carnale, istintivo, esplosivo, a volte incontenibile, ricco di vivacità e di verve. Sono contento che di recente abbia avuto anche la definitiva consacrazione letteraria, con il saggio critico che gli ha dedicato Maria Corti.
Nel 1985 lei vince il concorso per dirigente superiore per i servizi ispettivi del Ministero dell’Istruzione e sbarca a Milano.
E’ stata una bella esperienza. Negli anni Ottanta ho collaborato alla redazione dei programmi di studio e di esami degli istituti professionali e al Progetto ’92 di aggiornamento a distanza per i docenti, che è stato uno dei progetti più riformatori della scuola italiana e che, dietro mia iniziativa, vide tra i protagonisti uno dei più eccellenti linguisti italiani, Raffaele Simone.
Nel 2002 il professor Ruggiero pubblica il suo primo romanzo, "Rossa malupina".
Non è che io mi sono svegliato un giorno e ho scritto di getto un romanzo. Ho studiato per anni, ho riflettuto, ho pubblicato saggi di critica letteraria e di linguistica applicata.
D’accordo, ma l’idea come l’è venuta?
L’idea di “Rossa malupina” è nata per stizza e per dispetto. Dispetto al mio dentista che s’era schiaffato in testa di scrivere un romanzo giallo e che io dovessi subire i suoi trapani e, insieme, i suoi esercizi letterari. Per ripicca, aprii il frigorifero e tirai fuori Fielding Sterne Manzoni Leopardi Eliot Joyce e, poi, Basile e tutta la rigatteria alta e bassa che ho accumulato studiando insegnando per trent’anni, facendo il preside per due anni, il dirigente ispettivo per diciassette, e soprattutto vivendo. Ho messo tutte queste cose in un frullatore napoletano-nocerinese e ho frullato il nostro caos quotidiano. Col Vesuvio che chiude tutto.
Il suo primo romanzo ebbe un buon successo.
Sì, anche se camminò solo con i suoi piedi. Ricordo che quando l'edizione era oramai esaurita, pur non avendo goduto di alcuna seria diffusione, attirò l'attenzione di un critico letterario del calibro di Cesare Segre, che mi parlò di "chiari valori letterari" e di "impasto linguistico innovativo e fascinoso". Da quella proustiana tazza da tè sono, poi, venuti fuori altri due romanzi: "Ballata nucerinese" e "Nuova Nocera York".
C’è qualche parentela tra la Nocera dei suoi romanzi e la Nofi di Domenico Rea?
Credo proprio di no. E’ evidente che per un narratore è più facile ambientare le proprie storie in luoghi che conosce meglio e che è più capace di descrivere. Però Rea chiama Nocera Nofi, io la chiamo per nome e “cognome”, Nocera Inferiore, anzi Nucera. Così come chiamo i suoi abitanti nuceresi, perché considero la parola nocerini l’intromissione dell’italiano standard sul termine dialettale.
E’ solo una differenza terminologica?
La differenza terminologica cela anche una differenza di obiettivi narrativi. Rea ha vissuto nel periodo del realismo e sentiva l’esigenza di essere fotografico. La mia Nocera, invece, non è la Nocera anagrafica, ma una città metaforica. Non a caso Joyce diceva che gli veniva più facile scrivere Dublino che Londra. Lo stesso accade a me. Poiché è chiaro l’uso metaforico di Nocera, e poiché so che è metafora e non fotografia, posso permettermi il lusso di conservarne il nome.
Pensa mai a Nocera con nostalgia?
Le potrei rispondere con una frase di Benedetto Croce. Io mi sono sempre illuso di essere filius temporis, e non filius loci. Per me Nocera è una dimensione del tempo che non appartiene a un luogo preciso ma a un luogo dell’anima. Detto questo, ho una moglie nocerina nocerina, e due figli ancora più nocerini di lei. Il primo, Giovanni Maria, è medico-psichiatra di discreta fama in Europa, e la seconda, Simonetta, è – dicono - un architetto di notevoli qualità.
Sta lavorando a nuovo romanzo?
L’ho terminato, oramai. Proprio l'altro giorno mi ha telefonato un alto responsabile di una grossa casa editrice che ha letto con attenzione tutti e tre i miei romanzi rimanendo "ammirato" e mi ha detto che erano interessati a pubblicare il quarto. Ma, saputo che ho accresciuto la "Rossa Malupina" di circa 40 pagine e che ne ho rivisto, senza stravolgerlo, l'impianto linguistico e grafico, ha allargato il suo interesse anche al primo romanzo. Ci vedremo nei prossimi giorni.
Insomma, sta vivendo una seconda giovinezza...
La mia vita è stata una vita semplice, e semplici sono state le cose che ho fatto. Come a volte succede, ora stanno maturando tanti avvenimenti inaspettati, fino a far diventare eccitante il finale di partita che sto giocando.

(La Città di Salerno, 3 ottobre 2004)

Scheda biografica

Corrado Ruggiero è nato il 28 settembre del 1935 a Carbonara di Nola (Napoli). E’ cresciuto e si è formato a Nocera Inferiore, dove si trasferì con la famiglia all’età di quattro anni e dove ha frequentato tutte le scuole. Laureatosi in Giurisprudenza e in Filosofia all’Università di Napoli, ha lavorato all’Olivetti prima di dedicarsi all’insegnamento. Docente di italiano e di storia fino al 1982, presso l’istituto magistrale di Nocera, ha vinto poi il concorso a preside e, nel 1985, quello per ispettore scolastico. Si è trasferito a Milano nel 1990, e ora vive a Peschiera Borromeo. In passato ha collaborato alla terza pagina di "Paese Sera", e a "Brescia Oggi", "La Provincia" di Como, "Il Messaggero Veneto". Ha scritto diversi saggi sulla didattica dell'italiano e di analisi di problemi letterari, occupandosi di Edoardo Sanguineti, di Pirandello, di Wittgenstein e di Manzoni. Attualmente collabora a "la Repubblica". Ha pubblicato finora tre romanzi: "Rossa malupina" (2002), "Ballata nucerinese" (2003) e "Nuova Nocera York" (2003).

Intervista a Carlo Rienzi, presidente Codacons

di Mario Avagliano

“Il carovita è un dramma per gli italiani. Ci sono milioni di famiglie che non arrivano a fine mese con gli stipendi”. L’atto di accusa è di Carlo Rienzi, salernitano, classe 1946, presidente del Codacons, una delle associazioni più combattive dei consumatori. Quando nel maggio scorso l’avvocato Rienzi si presentò in mutande alla conferenza stampa della Lista dei consumatori per protestare contro l’aumento vertiginoso dei prezzi, in molti pensarono a una boutade. A distanza di quattro mesi, il presidente del Codacons non rinnega quel gesto. “E perché mai! – afferma - Non è cambiato nulla da allora. Il patto Governo-commercianti sui prezzi è un falso. I consumatori non risparmieranno niente”. Rienzi non è nuovo a proteste clamorose. Come quando fumò il sigaro nei locali del Ministero della Sanità, ottenendo che finalmente si controllasse il divieto di fumo negli uffici pubblici. O come quando fu processato (e assolto) perché con una telecamera nascosta aveva ripreso i vigili urbani di Roma che non facevano il proprio dovere. Intervistato da la Città, il presidente del Codacons ci anticipa in esclusiva che la Lista dei Consumatori si presenterà alle elezioni regionali e sceglierà le alleanze in base ai programmi, anche se non nasconde una maggiore sintonia con il centrosinistra. E su Salerno dice: “E’ una città che ha fatto grandi passi in avanti, pure nella tutela dei diritti dei consumatori”.

Salerno è ancora nel suo cuore?
Le mie radici sono a Salerno. I miei genitori erano salernitani, io ho sposato una salernitana (Maria Rosaria Bove, n.d.r.), la maggior parte dei miei parenti e dei miei migliori amici vive a Salerno. Devo continuare?
No, magari meglio sfogliare insieme l’album dei ricordi.
Nei miei anni verdi, Salerno era via dei Mercanti, i vicoli sporchi e cadenti, da evitare, perché vi albergavano la delinquenza e la prostituzione. Salerno era la tragica mancanza di infrastrutture di trasporto efficienti, l’assenza di luoghi nei quali divertirsi. Ma era anche Piazza San Francesco, i circoli il Ridotto e la Scacchiera, dove si organizzavano le feste e si giocava a ping pong, le lunghe passeggiate al lungomare per rimorchiare ragazze...
Aveva successo?
Macché! Allora era difficile per tutti.
Anche lei è un ex alunno del Liceo classico Tasso.
Ho ancora vivo il ricordo del Liceo Tasso e del suo straordinario corpo docente: il professor Coppola di latino e greco, il professor Lazzaro di italiano, la professoressa Amendola di matematica. Mi dilettavo a scrivere sul giornale scolastico. Rammento una poesia che s’intitolava “Amo la pioggia”. Mi sono diplomato con la media del 9, e in quel periodo vinsi anche un concorso nazionale di cultura religiosa (il concorso Veritas).
Dopo il diploma, lei si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Roma e fa in tempo a partecipare al Sessantotto.
Erano gli anni della contestazione, anni di conflitti e di scontri duri, ma anche di battaglie giuste per riformare la scuola e un Paese ammuffito. Io frequentavo il collettivo politico giuridico.
Nei primi anni Settanta lei partecipa alle battaglie in difesa degli sfrattati, dei senza casa, dei precari della scuola. Da che cosa nasce la sua passione civile?
In parte nasce da un fatto caratteriale: sono del segno zodiacale della Bilancia, e non posso sopportare le ingiustizie. E poi ha contato molto l’educazione familiare. Mio padre Vincenzo è una persona che ha sempre lottato per i più deboli e fondò il primo sindacato autonomo della scuola, lo Snals, che attualmente è il più grande organismo di rappresentanza degli insegnanti. Io stesso, come avvocato, ho difeso migliaia di precari, ottenendo la famosa sentenza n. 249 che sancì l’immissione in ruolo di oltre 5000 precari.
In quel periodo lei collaborò anche con Magistratura democratica e Psichiatria democratica.
E’ stata una bella stagione di lotte. Abbiamo ottenuto risultati importanti. Quello di cui vado più fiero, è il grande processo al manicomio giudiziario di Aversa. Riuscii a passare a un internato una telecamera e delle bobine vergini, per riprendere le terribili violenze che venivano praticate all’interno dell’istituto. Io ero l’avvocato di dieci internati e grazie a quelle immagini, che ebbero grande risalto su tutti i mass media, ottenemmo un risarcimento di 10 milioni per ciascuno di loro, che all’epoca erano una cifra notevole. Purtroppo il direttore del manicomio si suicidò. Ricordo che il giorno della sentenza, i telegiornali aprirono con due notizie, quella di Aversa e quella del sequestro di Moro.
Nel suo curriculum vanta anche numerose battaglie in difesa dell’ambiente.
Ho collaborato con il WWF, Lega Ambiente e Italia Nostra: dalla chiusura delle fabbriche pericolose (come la Farmoplant di Massa) al blocco dell’autostrada della Valle D’Aosta, priva di valutazione di impatto ambientale; dal fermo della cementificazione di Ponte Galeria alla copertura dello stadio Olimpico; dalla restituzione all’uso archeologico dell’area di Caracalla alle mobilitazioni di Montalto di Castro che bloccarono il nucleare. In materia ambientale, ho ottenuto anche la sentenza del Tribunale Penale che dispose il sequestro di Radio Maria, che emetteva onde elettromagnetiche superiori alla norma.
Trent’anni di iniziative spesso clamorose a tutela dei consumatori. Un aneddoto curioso da raccontare?
Potrei raccontare di quando, agli inizi della mia carriera, annotavo le targhe dei Tir che viaggiavano la domenica, in barba ai provvedimenti ministeriali di divieto. Dopo alcune denunce alla polizia stradale, ottenni che il divieto fosse rispettato. Mi piace ricordare la battaglia vinta per ottenere un provvedimento del Giudice Amministrativo che anticipò l’obbligo di indossare le cinture di sicurezza in tutto il Paese. E poi, è per me motivo di orgoglio anche la sentenza del TAR Lazio del 1998, che ha disposto, in relazione alla questione igienica dell’apertura delle lattine “stay on tab”, l’aggiunta dei tappi a protezione delle stesse.
Ha mai rischiato procedimenti giudiziari a suo carico?
Diverse volte. Scherzando, mi definisco un “delinquente abituale”. E infatti fui processato, e assolto, per aver calunniato i medici di “Regina Coeli” che picchiavano i detenuti. Fui processato, e assolto, per aver costretto una farmacia, con un blitz, ad interrompere lo sciopero dei ticket. Fui processato, e assolto, per aver definito la 15^ ripartizione del Comune di Roma, che si vendeva le licenze al metro cubo, una “bottega male odorante”. Sono stato sottoposto a otto procedimenti disciplinari per aver utilizzato la mia funzione di avvocato difendendo i cittadini, ma sono stato sempre assolto.
E’ cambiato qualcosa nella burocrazia italiana, oppure siamo ancora nella situazione degli anni Settanta?
Negli anni Novanta sono state varate nuove normative che hanno agevolato molto i cittadini. Mi riferisco in particolare alle leggi Bassanini sull’autocertificazione, che hanno limitato al minimo indispensabile il rapporto tra cittadini e sportelli pubblici.
E la mala amministrazione, è sempre un cancro per l’Italia?
La tendenza a sprecare il danaro pubblico esiste ancora. Però, grazie alla legge sulla trasparenza (la 241 del 1990), che credo di aver contribuito a far approvare, ora la pubblica amministrazione è più efficiente. La possibilità di accedere agli atti da parte di tutti i cittadini, costituisce un formidabile deterrente nei confronti del vecchio costume di accumulare le pratiche sulla scrivania. Anche le privatizzazioni hanno favorito il cambio di marcia. Basti pensare a quanto è accaduto nel settore delle Poste.
Oggi qual è il problema numero uno per i consumatori?
Arrivare a fine mese. Il caro prezzi e la diminuzione del potere di acquisto delle retribuzioni hanno messo a rischio di povertà le famiglie a reddito medio-basso.
L’accordo tra Governo e commercianti non pone un argine alla corsa dei prezzi?
Assolutamente no. Eurispes ha calcolato che in media il risparmio è di appena 10 vecchie lire. La verità è che la politica del Governo di lasciar fissare i prezzi al mercato, si è rivelata un grande fallimento. Per dare ossigeno ai consumi, l’economia italiana avrebbe bisogno di una ricetta drastica: tagliare i prezzi del 10-20%. E questo vale anche per le tariffe, per la telefonia, per le polizze RCA.
Non basta liberalizzare il mercato per creare concorrenza?
I fatti dimostrano che non è così. Anche dopo le liberalizzazioni, continuano i cartelli. Prenda il caso degli sms: come mai costano tutti 0,15 centesimi, quando invece il costo industriale è 0,01 centesimi? C’è lo spazio per una reale concorrenza, ma evidentemente ai gestori conviene mettersi d’accordo.
Alle europee del giugno scorso, per difendere i consumatori, ha dato vita addirittura a una lista. Non era la sua prima volta in politica, vero?
In effetti mi ero già candidato per i Verdi, alle elezioni politiche del 1987. Fu un’esperienza terrificante, capii da vicino cos’era la politica. Pensi che un leader importante dei Verdi, originario come me del Sud, non volle la mia candidatura a Salerno. Portai un bel po’ di voti nuovi al Sole che Ride, ma il giorno dopo non ebbi neppure una telefonata di ringraziamento.
E l’esperienza delle Europee 2004, com’è andata?
E’ stata bellissima, entusiasmante. I nostri banchetti elettorali nei mercati, nelle piazze, per le strade, erano assaliti dai cittadini. Abbiamo raccolto ben 161 mila voti, pur presentandoci solo in 3 circoscrizioni su 5. Abbiamo peccato di inesperienza. Se ci fossimo presentati ovunque, avremmo eletto almeno un eurodeputato.
La Lista dei Consumatori ha chiuso bottega o continuerà ad esistere?
Le do una notizia in esclusiva: abbiamo deciso di continuare. Stiamo valutando come presentarci alle elezioni regionali, da soli, senza apparentarci con nessuno, oppure alleati - sulla base dei programmi - con il centrosinistra o con il centrodestra. Il nostro primo punto programmatico è l’istituzione di assessorati regionali per i consumatori. Il 6 ottobre ci sarà una riunione a Roma per decidere cosa fare.
Vediamo di capire chi sceglierete. Chi butterebbe lei giù dalla torre, Prodi o Berlusconi?
Butterei giù Berlusconi, non c’è dubbio. Certo, anche il centrosinistra ha varato leggi sbagliate, come la legge sui mutui usurari, ma almeno con loro si poteva discutere. Faccio un esempio concreto: dialogando con l’onorevole Vita, siamo riusciti ad ottenere una buona legge sull’elettrosmog. Al contrario, quando siamo stati ricevuti dal Ministro Gasparri, ci ha detto letteralmente: “Sono il rappresentante eletto dal popolo e di voi non me ne frego assolutamente nulla”.
Meglio la squadra economica del centrosinistra Bersani-Letta-Visco, o quella del centrodestra Siniscalco-Marzano-Tremonti?
Non c’è confronto, è nettamente superiore la squadra del centrosinistra. Mi riferisco in particolare a Bersani e a Letta. Marzano, invece, è quanto di peggio si possa augurare chi ha a cuore la tutela dei consumatori.
E a Salerno e in provincia, le amministrazioni sono sensibili alle ragioni dei consumatori?
C’è un buon ascolto da parte delle amministrazioni salernitane, di tutti i colori politici. L’attenzione è alta, e lo dimostra il fatto che il Codacons in provincia di Salerno e in Campania ha il numero più elevato di sedi che in ogni altra regione d’Italia.
Salerno nell’ultimo decennio è cambiata molto. Qual è il suo giudizio spassionato?
Quando torno, a volte stento a riconoscerla, tanto è cambiata. E’ più bella, più pulita, più accogliente. Ritengo che il sindaco De Luca sia stato davvero bravo nello spendere i soldi pubblici. Forse qualche spreco c’è stato, ma nel complesso il mio giudizio è assai positivo. Il sindaco attuale, De Biase, lo conosco meno; è più un’ombra del precedente.
Il suo legame con Salerno è rimasto immutato?
Eccome! Pensi che i miei amici più cari sono tuttora quelli della scuola media e del Tasso. Abbiamo costituito il clan degli amici di serie A. Vi fanno parte Luigi Spina, docente di letteratura greca all’Università di Napoli e residente a Bologna; Franco Silvestri, primario di cardiologia all’Ospedale di Salerno; Raffaele Mele, dirigente delle Fs a Roma; Paolo De Maio, dirigente Aeritalia che vive a Salerno; e Enrico Marchetti, responsabile del Codacons in Campania. Purtroppo, uno degli amici del gruppo è prematuramente scomparso: Carlo Lepore, che era magistrato a Potenza. Comunque sì, lo ammetto, Salerno è ancora importante per me...

(La Città di Salerno, 26 settembre 2004)

Scheda biografica

Carlo Rienzi è nato a Salerno l’8 ottobre del 1946. Vive a Roma e ha due figli (Giamila di 30 anni e Vincenzo di 18 anni). Si è laureato all’Università La Sapienza di Roma nel 1969, con il massimo dei voti e una tesi in storia del diritto romano avente ad oggetto “La democrazia nella Repubblica Romana”. E’ stato per diversi anni docente di storia del diritto romano, come volontario, come contrattista e da ultimo come ricercatore, e poi anche docente di diritto scolastico, italiano e straniero, presso l’Università La Sapienza di Roma. Il suo impegno per i consumatori è iniziato negli anni ‘70, quando è stato in prima fila nelle battaglie in difesa della casa, in favore degli sfrattati e a sostegno delle autoriduzioni delle bollette Sip ed Enel. In questo periodo collaborava anche alle attività e alle riviste edite da Magistratura Democratica. Vinta la cattedra di Materie Giuridiche ed economiche nelle scuole superiori, Rienzi ha insegnato per un anno all’ITIS Bernini di Roma. Successivamente ha lasciato il mondo della scuola, per dedicarsi all’attività di avvocato. Presidente del Codacons, è stato protagonista di numerose iniziative in difesa dei consumatori. Ha avuto anche due esperienze politiche: è stato candidato nella lista dei Verdi alla Camera dei Deputati, alle elezioni politiche del 1987, e nella Lista dei Consumatori, alle elezioni europee del 2004. Ha pubblicato circa venti saggi di storia del diritto romano e del diritto scolastico e decine di interventi in tema di diritti civili a difesa di diritti di cittadini su riviste e testi italiani e stranieri.

Intervista a Liliana Ferraro, magistrato

di Mario Avagliano

Un magistrato “di ferro”, si potrebbe dire pariodando il titolo di un famoso film di Pasquale Squitieri. E in effetti la salernitana Liliana Ferraro, 59 anni, ha speso gran parte della sua vita al servizio dello Stato e delle istituzioni, prima collaborando con il Generale Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo, poi lavorando fianco a fianco con il Pool antimafia di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino nell’inchiesta che portò alla condanna dei boss di Cosa Nostra. Fu lei a fornire ai giudici siciliani i mezzi per combattere la mafia, fu lei a sovrintendere alla costruzione dell’aula bunker nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. Dopo l’assassinio di Falcone, fu lei chiamata a sostituirlo alla Direzione Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Nel 2001 il sindaco di Roma Veltroni l’ha voluta nella sua giunta, come assessore alla sicurezza della capitale. Un incarico delicato che la Ferraro svolge con determinazione e con successo, come le è stato riconosciuto anche in occasione della recente visita del presidente americano Bush a Roma.

L’infanzia e l’adolescenza hanno il profumo e il colore dei luoghi dove si è vissuti. Com’era la Salerno di Liliana Ferraro?
Era una cittadina bellissima, dall’atmosfera gioiosa e amichevole, con un lungomare di grande fascino.
Era anche una città sicura?
All’epoca sì. Non c’erano problemi di criminalità. Salerno era tranquilla. Ricordo ancora i miei anni al Liceo Tasso e le passeggiate al corso con i miei cugini e le mie amichette.
Tutti ricordi belli?
Nel mio cuore c’è posto anche per il ricordo angoscioso dell’alluvione del 1954. Non potrò mai dimenticare il giorno che ho visto uscire un braccio dal fango...
A 15 anni lei si trasferisce con la famiglia a Napoli e, dopo la maturità, si laurea in Giurisprudenza.
All’Università di Napoli ho avuto la fortuna di avere come docente di diritto penale il professor Remo Pannain. E’ stato per me un incontro importante perché mi ha consentito di fare un percorso di studio a contatto con il mondo carcerario.
Nel 1970 vince il concorso di magistratura e viene assegnata a Lodi. Come fu l’impatto con il profondo Nord?
Non fu per niente facile. Ricordo il mio primo giorno in quei luoghi, quando arrivata alla stazione di Lodi, presi un taxi. Era una giornata in cui la nebbia si tagliava a fette. Dopo un po’ il tassista si fermò e disse: “Siamo arrivati”. “Arrivati dove?”, gli risposi. Il palazzo del Tribunale non si vedeva. A parte il clima, fu un salto non da poco per me. Trovai una mentalità diversa rispetto a quella del Sud, anche se poi mi ambientai bene, stabilendo un rapporto cordiale con gli avvocati, nel reciproco rispetto dei ruoli.
Nel 1973 lei viene chiamata al Ministero di Grazia e Giustizia.
In quegli anni cominciava il terrorismo, e anche nelle carceri si vivevano momenti difficili, caratterizzati da rivolte. Ricordo in particolare il periodo in cui ministro della Giustizia era un gentiluomo meridionale, Francesco Bonifacio, di Castellamare di Stabia. Entrammo subito in sintonia.
Al Ministero conobbe e collaborò con il Generale Dalla Chiesa, che dirigeva il nucleo antiterrorismo.
Iniziai a collaborare con Dalla Chiesa già da prima, quando il ministro lo incaricò di seguire gli istituti carcerari. All’epoca non era ancora generale. Io venivo dalla magistratura, lui dall’Arma dei carabinieri, eravamo di due mondi diversi. All’inizio, dal punto di vista umano, dovetti superare la sua rigidità caratteriale. Poi il nostro rapporto divenne costruttivo e anche amichevole. Lui si mostrò davvero affettuoso con me. Conoscevo la prima moglie, che purtroppo morì d’infarto, e più tardi mi presentò anche Emanuela, che sarebbe diventata la sua seconda moglie.
Nel fortino del Ministero lei visse il periodo terribile della lotta del terrorismo.
Il Paese si trovava in una situazione devastante. Nel giro di qualche anno le Brigate Rosse uccisero magistrati, poliziotti, giornalisti, agenti di polizia penitenziaria. Vivevamo in uno stato di angoscia, unito a una sorta di sgomento perché non sapevamo bene come reagire e quali fossero le forme più adeguate per combattere il terrorismo.
Che cosa ricorda del sequestro Moro?
Furono giorni tremendi. Eravamo al lavoro praticamente 24 ore su 24, per seguire la tragedia che si stava sviluppando. Il ministro Bonifacio era grande amico di Aldo Moro. L’ho visto soffrire molto. E’ stata una lezione di vita, di come a volte il dolore personale debba convivere con il senso del dovere e con la necessità di tutelare l’interesse generale. Bonifacio adottò la decisione di non trattare con le Brigate Rosse con una sofferenza incredibile.
Nel 1983, dopo una parentesi al Corte di Cassazione, torna al Ministero e per lei si apre un altro fronte: quello della lotta alla mafia.
L’anno prima Cosa Nostra aveva ucciso Dalla Chiesa. Ai primi di agosto fu ammazzato anche Chinnici. Allora il ministro Martinazzoli decise di dare il massimo sostegno agli uffici giudiziari di Palermo e io fui inviata in Sicilia per accertare quali fossero le condizioni di lavoro dei magistrati che combattevano la mafia e per far fronte alle loro esigenze.
Che impressione ebbe?
Ho ancora in mente il giorno in cui sono entrata per la prima volta nell'ufficio di Giovanni Falcone. Era seduto su una sedia quasi sgangherata, appoggiato a un tavolo traballante dove c'erano fascicoli che cadevano da tutte le parti. Ho detto: “Iniziamo dalle cose più elementari; prendiamo una sedia comoda, un tavolo stabile”. Così abbiamo cominciato: prima la sedia, poi il tavolo, l'archivio, un sistema informatico per la gestione dei dati. Poi la sede per il gruppo della finanza, che era sommerso di carte provenienti dalle banche, il computer per i finanzieri, la microfilmatura delle carte, perché ormai i fogli erano tanti che non si trovavano più. Quindi affrontammo il problema della sicurezza.
La sicurezza?
Nino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri magistrati del Pool non erano sicuri in quegli uffici. Li feci trasferire in un piano ammezzato tutto blindato, al quale si poteva accedere soltanto bussando a un citofono sorvegliato.
Un’intesa immediata.
Sì, li ho conosciuti nel 1983 e ho subito cominciato a lavorare per loro e con loro. Nel 1984, quando ci fu il pentimento di Tommaso Buscetta, abbiamo sognato la vittoria. Nell’agosto del 1985 abbiamo pianto gli amici Cassarà e Montana uccisi dalla mafia, ma non ci siamo fermati. Falcone, Borsellino e gli altri facevano indagini e scrivevano l'ordinanza, io procuravo i mezzi materiali e facevo costruire l'aula-bunker.
Ha detto Caponnetto: senza la Ferraro non saremmo mai arrivati al maxiprocesso.
Credo che abbia detto queste parole perché tra di noi c’è stata sintonia assoluta. Mi coinvolsero totalmente nella loro battaglia e credo di aver dato un piccolo contributo a creare il consenso dello Stato intorno alla loro attività.
Che tipo era Caponnetto?
Nino Caponnetto è stato un personaggio eccezionale, di una carica umana incredibile e di una grande bontà d’animo, pari al suo rigore morale. Un uomo capace di essere dolce e fermo al tempo stesso. In un caldo pomeriggio di agosto del 1985, gli chiesi di lasciare Palermo, insieme a Giovanni e Paolo, perché non vi era certezza di difendere la loro vita. "Mai - disse Caponnetto -. Porta all'Asinara Giovanni, Paolo e le loro famiglie. Così potranno continuare a scrivere l'ordinanza tranquilli e sicuri. Io resto qui, perché non si dovrà mai dire che lo Stato fugge davanti al nemico. Nessuno di noi può interrompere il proprio lavoro".
Falcone fu oggetto di pesanti attacchi, anche da parte di colleghi magistrati. Specialmente quando decise di accettare la proposta del ministro Martelli di lavorare al Ministero di Grazia e Giustizia. Come se lo spiega?
Credo che abbia contato molto anche l’invidia, quella più becera, più stupida, determinata da sciocche ambizioni.
Il 31 gennaio 1992, la sera in cui fu resa nota la sentenza del maxiprocesso contro la mafia, lei si trovava con Falcone.
Falcone fece comperare una bottiglia di champagne, e nonostante fosse calda, brindammo. Non era allegro, anzi era attraversato da una vena di malinconia. Fu una serata di soddisfazione enorme, ma sobria. Non c’è mai stato sentimento di vendetta in noi. Brindavamo perché con quella sentenza si era affermato che lo Stato era più forte della mafia. Ma sapevamo che Cosa Nostra ce l'avrebbe fatta pagare. E il primo obiettivo era Falcone, il motore di tutta quella vicenda.
E infatti il 23 maggio del 1992 Falcone muore nella strage di Capaci.
E’ stato uno degli eventi più squassanti della mia vita. Dal punto di vista umano, era la perdita dell’amico, del collega, della persona con la quale lavoravo e vivevo gomito a gomito, condividevo battaglie, idee, ma anche pranzi, cene, giornate a tempo pieno. Dal punto di vista dello Stato, era il pagamento di un pedaggio atroce per aver difeso le istituzioni e combattuto la mafia. Gli stessi sentimenti che ho provato 59 giorni dopo, quando hanno assassinato Paolo Borsellino.
Borsellino sapeva che rischiava più di chiunque altro, eppure non si tirò indietro.
Dopo l’assassinio di Falcone, la moglie Agnese, in una sera di fine giugno del 1992, in una saletta dell'aeroporto di Roma, lo pregò di «lasciare», preoccupata per la vita del suo uomo, del padre dei suoi figli. Ma lui rispose che non era possibile. Paolo aveva con Falcone un legame che non era solo professionale e di amicizia, ma anche di fortissima stima. Essendo procuratore aggiunto a Palermo, spettavano a lui le indagini sulla morte di Giovanni, e decise che doveva trovare i responsabili.
In quegli anni le è capitato di temere per la sua vita?
Molte volte. La paura è un fatto umano.
Nell’agosto del 1992 il ministro Martelli le chiese di prendere il posto di Falcone alla Direzione Generale degli Affari Penali.
Mi cercò al telefono personalmente. Per me fu un’emozione enorme, anche se sostituire Giovanni mi sembrava impossibile. Nessuno può rapportarsi a Falcone. E’ stato un personaggio straordinario, che mi ha arricchito sotto ogni punto di vista, e difficilmente il confronto potrebbe reggere.
Lei ora è Segretario generale della Fondazione Falcone. Quale è il lascito morale di Falcone e di Borsellino alle nuove generazioni?
Penso che sia indispensabile che i giovani conoscano questo pezzo di storia del nostro Paese e comprendano quale forza morale avessero uomini come Falcone e Borsellino, il cui obiettivo primario era la difesa dello Stato e delle istituzioni, nell’interesse del sistema democratico. Oggi troppo spesso si agisce in nome di interessi personali.
Dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino, la lotta alla mafia ha fatto progressi?
L’organizzazione criminale ha subito grossi colpi. Questo non significa che la mafia sia sconfitta e che Cosa Nostra sia sparita.
Parliamo del suo incarico attuale. E’ complicato gestire le politiche della sicurezza di una grande città come Roma?
Non è semplice. Devo dire che la polizia, i carabinieri e la guardia di finanza e anche la polizia municipale fanno un lavoro eccezionale. La cosa importante è che tra i romani sta crescendo il sentimento di sicurezza.
Nonostante l’11 settembre?
Da quel giorno anche a Roma il livello di attenzione è più alto, come accade in tutte le metropoli del mondo. Ma in occasione della visita recente di Bush, abbiamo dato una prova di grande maturità.
Torna mai a Salerno?
Certo che ci torno! Mio fratello e un mio nipote vivono a Salerno. La città è molto cambiata. Negli anni Ottanta era confusa, caotica, adesso invece è tornata ad essere bella, a dimensione d’uomo, con una vita culturale vivace.
Lei ha lasciato la Campania da oltre trent’anni. Che cosa le è rimasto dentro di salernitano?
Moltissimo. Io ritengo che le radici siano la parte più importante di una persona. Io sono meridionale e credo nel Sud, nei valori della famiglia, delle tradizioni, dell’amicizia, nella concezione della tavola. A volte però sono triste ed amareggiata perché la gente del Mezzogiorno non riesce ad avere lo scatto di orgoglio che pure ci appartiene.

(La Città di Salerno, 13 giugno 2004)

Scheda biografica

Liliana Ferraro nasce a Lustra Cilento (Salerno) il 22 giugno del 1944. Laureata in Giurisprudenza all’Università di Napoli, nel 1970 vince il concorso di magistratura e viene assegnata al Tribunale di Lodi. Nel 1973 è chiamata al Ministero di Grazia e Giustizia, dove segue la riforma dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale. Tra il 1974 e il 1980 riveste l’incarico di responsabile del coordinamento tra il Ministero di Grazia e Giustizia ed il Nucleo Antiterrorismo del Generale Dalla Chiesa, occupandosi di tale tematica anche sotto il profilo normativo, per gli accordi internazionali e presso il Consiglio d’Europa per la Convenzione per la lotta al terrorismo. Dal 1980 al 1983 lavora presso la Corte Suprema di Cassazione. Rientrata al Ministero di Grazia e Giustizia, collabora con il pool antimafia di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fornendo mezzi e strutture per la lotta alla criminalità. Sovrintende tra l’altro alla costruzione dell’aula bunker nella quale fu celebrato il primo processo contro “cosa nostra” istruito da Giovanni Falcone. Nel 1991 è nominata Vice Direttore Generale del Ministero di Grazia e Giustizia, al fianco dello stesso Falcone. Dopo l’assassinio del magistrato siciliano, nell’agosto del 1992 è nominata Direttore Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Quello stesso anno riceve il premio quale “Europeo dell’anno”, per l’attività svolta in Europa. Nel 1994 diventa Coordinatore Nazionale per la preparazione e l’organizzazione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale. Dal 1996 al 2003 è Consigliere di Stato. E’ socio fondatore e Segretario Generale della Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”. Nel 2001 è nominata Assessore alle Politiche per la Sicurezza, alla Polizia Municipale ed Avvocatura del Comune di Roma.

Intervista a Aldo Vigorito, musicista jazz

di Mario Avagliano

“La mia musica ha il profumo e le sonorità del mare di Salerno”. Aldo Vigorito, 45 anni, controbassista e compositore jazz, la sua città la porta nel cuore, anche quando è in tournée in Italia e per il mondo. Un po’ più “anziano” della generazione dei Deidda e di Scannapieco, ha suonato a lungo nella band di Romano Mussolini, collaborando con alcuni tra i più grandi musicisti italiani e internazionali, da George Benson a Maurizio Giammarco, da Enrico Pierannunzi a Lew Tabackin. Il suo ultimo album, uscito qualche mese fa, s’intitola Napolitanìa e, come ha scritto la critica, realizza “un ponte immaginario tra la tradizione del jazz americano e le atmosfere mediterranee”. Da Milano, dove è in concerto con la band di Carla Marciano, Vigorito racconta le tappe della sua carriera, parla con entusiasmo dei jazzisti salernitani e propone di rilanciare la rassegna Jazz Estate al Forte la Carnale.

La Salerno dei suoi anni giovanili era diversa da quella di oggi?
Direi di sì. Era una città sicuramente meno curata. Il corso non aveva un’isola pedonale, non c’era attenzione all’arredo urbano, mancavano locali dove ascoltare musica dal vivo, il lungomare era in stato di abbandono. In compenso, il problema della droga era appena agli inizi, il numero dei tossici era assai limitato, le canne non erano diffuse come adesso, il fenomeno delle discoteche era ristretto.
Com’è entrato la musica nella sua vita?
In famiglia la musica era di casa. Mio padre Enrico suonava il pianoforte e anche i miei fratelli, più grandi di me di una decina di anni, si dilettavano a strimpellare i pezzi dei Beatles con la chitarra e le tastiere. Prendevano lezioni a casa, dal maestro Pierino Magliano, e io li guardavo affascinato.
Lei quando ha cominciato?
A 10-11 anni di età. Suonavo la chitarra e il pianoforte. La passione man mano è cresciuta. E’ stata decisiva l’amicizia e la mezza parentela con Guglielmo Guglielmi, il cui padre era un ottimo clarinettista e arrangiatore. Ricordo che nel 1974, quando avevo 16 anni, quasi ogni domenica, su invito di Guglielmo e del padre, partecipavo a una sorta di jam-session alle quali intervenivano musicisti napoletani come Franco Coppola e musicisti salernitani come Angelo Cermola ed Enrico Parrilli. E’ lì che ho cominciato a cimentarmi con il basso elettrico. Innamorarsi del jazz e poi passare al contrabbasso, è stata una conseguenza naturale.
Chi sono stati i suoi maestri?
Finito il liceo scientifico a Salerno, mi sono iscritto al Conservatorio di Avellino e dopo un anno mi sono trasferito al Conservatorio di Roma. E’ stato importante per acquisire una padronanza dello strumento e naturalmente per la mia formazione musicale in senso ampio. Per quanto riguarda il jazz penso che, aldilà di un breve periodo di studio con Riccardo Del Frà alla Saint Louis di Roma, posso considerarmi un autodidatta. Ascoltare i dischi dei grandi jazzisti di tutti i tempi mi ha aiutato moltissimo.
Nel dicembre del 1980, subito dopo il terremoto, Aldo Vigorito ha fatto le valigie ed è andato a vivere nella capitale. Come mai?
Avevo deciso che il jazz era la mia vita e a Salerno era una missione impossibile vivere di musica. Non c’erano locali, non si organizzavano rassegne. A Roma era tutto diverso. Conobbi un giovane talentuoso chitarrista, Eddy Palermo, e cominciammo a suonare insieme al Saint Louis e nel quartiere Testaccio.
Nel 1984 lei entrò stabilmente nella jazz band di Romano Mussolini. Come lo conobbe?
Romano aveva bisogno di un bassista e Eddy gli fece il mio nome. Sono stato nella sua band per sette anni. E’ stata un’esperienza davvero formativa. Ho girato il mondo, calcando palcoscenici molto importanti, in America, in Canada, in Germania, in Inghilterra, in Svizzera. Ho suonato con musicisti del calibro di George Benson. Sono cresciuto anche musicalmente, confrontandomi con linguaggi musicali diversi dal mio.
Che tipo è Romano Mussolini?
Una persona spiritosissima e gioviale. Un grande parlatore, capace di affascinarti con i suoi aneddoti e le sue battute. Insomma, non sembra proprio il figlio del duce.
Arriviamo al 1987. Vigorito diventa direttore artistico della rassegna Jazz Estate, che per sei anni animò le serate estive salernitane al Forte la Carnale.
Fu un festival straordinario, con edizioni ricche di bei nomi del jazz italiano e internazionale. Molti salernitani lo rimpiangono ancora.
A Salerno proprio in quegli anni si affacciavano sulla scena musicale molti giovani talenti. E’ solo un caso?
L’idea del Festival Jazz nacque indipendentemente dal fermento giovanile del periodo. La crescita del fenomeno jazz era nell’aria in tutt’Italia,. Certo, non escludo che la possibilità di ascoltare tanti grandi artisti, possa aver stimolato qualcuno a provarci.
Quando conobbe i Deidda e gli altri jazzisti salernitani?
Fu proprio negli anni di Jazz Estate. Prima non tornavo quasi mai a Salerno e quindi ignoravo l’esistenza di questa realtà giovanile così effervescente. Ricordo che i tre fratelli Deidda, assieme ad Amedeo Ariano, Giovanni Amato, Daniele Scannapieco, Jerry Popolo ed altri, avevano affittato un posto a Fratte, dove suonavano tutto il giorno come dei pazzi. Ogni tanto ci andavo anche io e mi univo alla combriccola.
E’ nata allora la leggenda della scuola salernitana del jazz?
Non so se si possa parlare di scuola, di certo è nato un movimento, anche abbastanza atipico. Per essere una città di provincia, Salerno ha una schiera di musicisti eccezionali.
E’ un movimento che produce frutti tuttora? Ci sono musicisti salernitani emergenti?
Io credo che il periodo d’oro degli anni Novanta sia irripetibile. Qualche giovane bravo c’è, ma sarà il tempo a dire se vale davvero. Un nome mi sento di farlo, il pianista Julian Olivier Mazzariello, di Cava de’ Tirreni. Lui è un vero talento.
Il suo primo album è datato 1990, s’intitolava “Do it”, e coincise con la sua uscita dalla band di Romano Mussolini.
Fu uno degli ultimi vinili della storia del jazz, maturato peraltro in periodo “mussoliniano”. Quel disco nacque dal bisogno che sentivo dentro di me di scrivere qualcosa di mio, anche perché la musica che prediligevo era abbastanza lontana da quella della band di Romano.
In oltre venti anni di carriera lei ha suonato con i più grandi musicisti jazz italiani e con molte star d’oltreoceano. Le esperienze che ricorda con più calore?
Farei due nomi, Enrico Pierannunzi e George Benson. Enrico è un musicista che ho sempre stimato ed ammirato e avevo un grande desiderio di suonare con lui. Ci sono riuscito e di tanto in tanto ricapita. Ogni volta è un’esperienza fantastica. Di George Benson ricordo con piacere la vigilia del concerto. Passammo un giorno intero a provare. Fu davvero molto divertente!
Com’è nato il suo ultimo album, Napolitanìa?
Volevo un qualcosa che avesse il profumo del mare, che risuonasse di melodie dense di quella ricchezza tipica delle città di mare, e del magma umano che le compongono. Che si tratti di Buenos Aires o di Napoli, della mia Salerno, di Oporto o dell'immaginaria Innsmouth, le città a cui i titoli fanno riferimento, non ha nemmeno tanta importanza. In fondo il mare è uno spazio senza fine, un'apertura verso il mondo sconosciuto e misterioso, una sorta di disposizione mentale per cui si è sempre pronti a navigare ed accogliere tutto quello che s'incontra sulla propria rotta…
Come definirebbe la musica jazz di Napolitanìa?
E’ un jazz direi europeo, un po’ impressionista, che da’ delle chiazze di colore quà e là, ma sempre con riferimenti melodici.
In Napolitanìa suona con musicisti con i quali lavora da anni.
Si tratta del pianista Francesco Nastro e del batterista Peppe La Pusata, con i quali formo da tempo un affiatato trio. Ho voluto con me anche il sassofonista Stefano "Cocco" Cantini. Avevo suonato con lui solo una volta, ma lo conoscevo bene da un punto di vista musicale…
Quali sono i suoi modelli musicali?
Miles Davis, Bill Evans e Chet Baker.
Quale strumento usa?
Uso un Grunert, un contrabbasso di un artigiano tedesco, e talvolta il mio primo contrabbasso realizzato dall'artigiano napoletano Marino Tarantino.
Progetti?
Quest’anno ho inciso una decina di dischi che sono in uscita, con Enrico Del Gaudio, con Jerry Popolo, con Francesco D’Errico, con Salvatore Tranchini, con un trio di percussionisti molto bravi, Don Moye, Babà Sisoko e Maurizio Capone. Mi piacerebbe anche ricordare un altro disco cui tengo molto che è "Trane's grooves" di Carla Marciano, dedicato alla musica di John Coltrane. Questo mese io e Carla siamo in concerto a Milano, Vicenza, Bolzano e Roma.
Le piace vivere nella Salerno di oggi?
Moltissimo. Mi piace il clima, mi piace l’ambiente, la città è più bella del passato, e anche dal punto di vista musicale sono soddisfatto: la presenza di tanti bravi jazzisti costituisce per me un’occasione continua di confronto. Se devo fare un appunto, è che non esiste un vero e proprio jazz club e soprattutto manca una cultura manageriale dei promotor. I musicisti sono lasciati al proprio destino.
Magari si sente anche la mancanza di un festival jazz.
La rassegna invernale organizzata quest’anno al Teatro Verdi non era affatto male. Certo, sarebbe bello riproporre Jazz Estate al Forte la Carnale. Con quel panorama mozzafiato, è la location ideale.

(La Città di Salerno, 6 giugno 2004)

Scheda biografica

Aldo Vigorito è nato a Salerno il 11 luglio del 1958. Ha studiato contrabbasso al Conservatorio di S.Cecilia di Roma con Franco Petracchi e Federico Rossi. Nella capitale ha le prime significative esperienze jazzistiche collaborando con Eddy Palermo, Marcello Rosa, Cicci Santucci. Dal 1984 al 1990 fa parte del gruppo di Romano Mussolini, con il quale partecipa a numerosi festival e tournèe internazionali. Dal 1987 al 1992 è stato direttore artistico della rassegna "Jazz estate" di Salerno e di altri eventi di rilievo come il Festival jazz di Maiori. Nel 1993 ritorna a Salerno dove ritrova un ambiente jazzistico effervescente ed in continua evoluzione. Inizia una proficua collaborazione con Daniele Sepe, che si concretizza con varie incisioni discografiche e partecipazioni a festival di tutta Europa. Attualmente suona col trio di Francesco Nastro, e collabora con musicisti quali Giovanni Amato, Alfonso Deidda, Pietro Condorelli, Carla Marciano, Miles Griffith.
Molto attivo come sideman, ha suonato con alcuni tra i più importanti personaggi della scena musicale italiana e internazionale: Lew Tabackin, Bob Mover, Gary Bartz, Gianni Basso, Dave Sanborn, Jim Snidero, Paolo Fresu, Irio De Paula, Stefano Battaglia, Valery Ponomarev, Bruce Forman, Joe Magnarelli, Antonio Faraò, Tony Scott, Claudio Fasoli, Rosario Giuliani, Fabrizio Bosso, Roberto Ottaviano, Gary Smulian, George Benson, Jimmy Owens, Pat La Barbera, Lester Bowie, Dado Moroni, Adrienne West, Maurizio Giammarco, Enrico Pierannunzi, Stefano Bollani, Rita Marcotulli, Helen Merrill, Eddie Daniels, Eliot Zigmund, Benny Golson e tanti altri. Ha inciso con Romano Mussolini, Irio de Paula, Flavio Boltro, Daniele Sepe, Nino De Rose, Leo Aniceto, Carlo Lomanto, Fausto Ferraiuolo, Carla Marciano, Pietro Vitale, Ondina Sannino, Francesco Nastro, Francesco D'Errico e David Gross. Come solista ha al suo attivo due album, dal titolo "Do it" (1990) e “Napolitanìa” (2003).

Intervista a Giuseppe De Nardo, fumettaro

di Mario Avagliano

Alla Bonelli, la casa editrice di fumetti numero uno in Italia, c’è un salernitano che non è armato di pennino e di china, ma che scrive storie, anzi - per essere più precisi - sceneggiature. Alcune delle tante avventure da incubo di Dylan Dog e delle indagini sui serial-killer della criminologa Julia sono firmate da Giuseppe De Nardo, nato “incidentalmente a Napoli”, come dice lui, ma cresciuto e formatosi a Salerno. De Nardo sarà uno dei protagonisti del numero-cult che i disegnatori salernitani hanno in corso di preparazione per il ventennale della fanzine “Trumoon”, la mitica rivista che lanciò Bruno Brindisi, Raffaele Della Monica, Luigi Siniscalchi, Giuliano Piccininno e tanti altri. Da Pellezzano, dove ora vive, De Nardo parla della Salerno di ieri e di oggi e dei nuovi talenti della scuola del fumetto salernitano.

Si sente più napoletano o salernitano?
Salernitano, non c’è dubbio. Ho vissuto a Salerno dall’età di cinque anni, nel quartiere di Torrione, e ho fatto tutte le scuole lì. I miei amici sono salernitani e io amo profondamente la mia città.
Com’era la Salerno degli anni Sessanta e Settanta?
Era confusa, disordinata. Una città che cresceva urbanisticamente e socialmente senza riferimenti precisi. Certo, forse era più genuina della Salerno di oggi, e ripensando al passato mi prende sempre un po’ di magone. Mi vengono in mente “la casa del caffè”, le macchine parcheggiate a pettine ai lati del Corso Vittorio Emanuele, il doppio senso di transito delle arterie principali, i palazzi che crescevano come funghi. Credo che la città negli ultimi anni abbia fatto passi avanti da gigante e abbia trovato una sua identità forte intorno al centro storico e al porto.
Immagini di scrivere una sceneggiatura per un fumetto. Come rappresenterebbe la Salerno di allora?
Mi capita di pensare a storie ambientate negli anni Sessanta e Settanta e di immaginarle a Salerno che, come molte città d’Italia, viveva quel clima particolare fatto di speranze, di fermenti, di creatività e, certo, anche di conflitti generazionali e di violenza. Chissà che prima o poi non ne esca fuori una sceneggiatura. Si è scritto e si è girato poco su quel periodo. Soltanto adesso qualcuno comincia ad esplorarlo.
Quand’è scoppiata dentro di lei la febbre del fumetto?
Da ragazzo. Non mi bastava leggere, non mi bastava vedere. Sentivo dentro la voglia di dire qualcosa, di esprimermi, di raccontare, e di farlo possibilmente per immagini. L’incontro con il fumetto è stato naturale. Certo, conta l’attitudine al disegno. Ma va anche tenuto conto che il fumetto è una forma di comunicazione estremamente economica. Avrei avuto molte più difficoltà a fare un film. C’era il problema di racimolare i pochi spiccioli per i “giornaletti”. Figuriamoci rimediare una cinepresa.
Quando è diventata una cosa seria?
Nel 1977, dopo il Liceo (classico De Santis) e mentre iniziavano i lunghi anni universitari. Insieme a Giuliano Piccininno, a Raffaele Della Monica, a Vincenzo Lauria, a Maurizio Picerno e ad altri amici è nato il gruppo che poi avrebbe dato vita a Trumoon. A questo nucleo originario, nei primi anni Ottanta si sono aggiunti Bruno Brindisi, Luigi Coppola, Luigi Siniscalchi e tutti gli altri.
E’ stato importante fare gruppo per arrivare al successo professionale?
Se non si fosse costituito il nostro gruppo, non so cosa avrebbero fatto molti di noi. Forse Bruno sarebbe diventato un operatore televisivo. Qualcun altro avrebbe fatto il rappresentante di commercio... Credo che la capacità di crescere insieme e l’amicizia siano stati determinanti per la nostra carriera professionale.
Un’amicizia che continua tuttora, visto che avete in preparazione un numero speciale celebrativo di Trumoon.
E’ vero, è rimasta una grande amicizia, anche se ci si sente e ci si vede un po’ di meno. Quanto a Trumoon, fu una vetrina che ci permise di fare il salto di qualità, di passare dal dilettantismo al professionismo e di prendere contatti con gli editori. Non nascondo che coltivavamo anche la velleità di metterci in proprio, di autoprodurci, e questo non ci riuscì. Il numero speciale è un omaggio a quella stagione, e anche – perché no? - a quella che è stata definita la scuola salernitana del fumetto.
All’epoca di Trumoon era già passato dal disegno alla scrittura?
No, facevo l’uno e l’altro. Disegnavo e scrivevo storie, per me e per gli amici. Però già cominciava a maturare in me la scelta di approfondire non tanto la tecnica del disegno ma i dialoghi e il ritmo della sceneggiatura.
Qual è stata la sua prima esperienza da professionista?
Sono entrato nel giro perché avevo scritto alcune storie per Bruno Brindisi, proposte in seguito, quando lui era già un affermato professionista, alla casa editrice Universo, che editava l’Intrepido. Per l’Intrepido realizzai anche un personaggio tutto mio, Billiteri. Dopo alcune decine di storie brevi comparse sulla rivista, l’editore mi propose di realizzare una serie autonoma di albi, durata 12 mesi. Si trattava di un personaggio al di fuori degli schemi e dei generi abitualmente frequentati dal fumetto italiano.
Chi era Billiteri?
Un giovane studente universitario fuoricorso, esattamente come lo ero stato all’epoca, che viveva situazioni di sopravvivenza quotidiana intorno alla triade soldi-donne-amici, in una città immaginaria. Non una metropoli. Una città di provincia come tante, con qualcosa di Salerno, magari. Le storie erano a metà tra il realistico e il grottesco. Le infarcivo di elementi autobiografici o basati, comunque, sulla realtà che conoscevo. Forse era questo che le rendeva genuine e apprezzate dal pubblico degli addetti ai lavori.
Il personaggio di Billiteri la fece conoscere nel ghota del mondo del fumetto italiano.
Sì, nel 1995 mi chiamò Marcheselli. A lui e a Sclavi, Billiteri piaceva. Mi chiese se avevo voglia di scrivere una sceneggiatura per Dylan Dog.
La voglia le venne?
Beh, lavorare alla Bonelli per un fumettaro è il massimo. Appena conclusa la mia esperienza con l’Intrepido, ho iniziato a scrivere Dylan Dog. Poi anche Berardi mi ha voluto nella sua squadra, quando ha cominciato a lavorare a Julia.
Come fu l’approccio con la Bonelli?
Difficile, e non solo perché si trattava di lavorare per progetti che avevano già una definizione precisa. Era la prima volta che mi confrontavo con la lunghezza dell’albo bonelliano e che dovevo partire da un soggetto. Fino a quel momento avevo sempre lavorato d’istinto, di getto, senza pianificare ciò che avrei scritto in sceneggiatura. Lasciavo che i personaggi mi prendessero la mano, che la storia si raccontasse da sola, pagina dopo pagina. Alla Bonelli ho dovuto adottare un metodo di lavoro diverso.
Ci descriva una sua giornata tipo.
Prediligo lavorare al mattino, quando l’altra mia attività, l’insegnamento, me lo consente. Una volta che il soggetto è definito, butto giù una bozza dei dialoghi. Li scrivo e li riscrivo fino a quando non mi sembrano giusti. Sono i dialoghi che danno un ritmo alla storia. Prima dei dialoghi, però, c’è un lavoro di preparazione e di documentazione che, a volte, mi porta via delle settimane. Bisogna leggere libri, riviste, navigare su Internet, vedere film.
E’ paziente di carattere?
Dicono di sì. Per il mio amico Piccininno sono pigro e irritante.
A proposito, visto che lei è un manipolatore di parole, proviamo a definire i suoi amici fumettari salernitani. Partiamo proprio da Piccininno.
Sprucido e antipatico. Gli voglio bene.
E Bruno Brindisi.
Una contraddizione: estro e stacanovismo.
Roberto De Angelis?
Noir ed eleganza. Lo batto regolarmente a tre sette con il pizzico.
Luigi Siniscalchi?
Un enfant prodige. Ex enfant prodige. Ormai ne ha più di trenta sul groppone.
Raffaele Della Monica?
Un talento verace. E’ capace di lavorare anche con un pennello da barba. E’ stato il primo di noi ad approdare al professionismo. L’apripista del gruppo. Mi piacerebbe batterlo a bigliardo.
Luigi Coppola?
L’unico che riesca a disegnare con una sigaretta tra le labbra, una tazza sempre colma di caffè tra le dita, senza mai togliere la mano sinistra dalla tastiera del computer.
Ho dimenticato qualcuno?
Daniele Bigliardo. E’ napoletano, ma fa parte della scuola salernitana dagli inizi. Abbiamo fatto insieme Billiteri e continuiamo a fare insieme Dylan Dog.
Ci sono nuovi talenti emergenti della scuola salernitana?
Eccome. Ne citerei almeno tre. Luca Raimondo, un ragazzo tenace, testardo, che ha fatto tesoro dei nostri consigli, non si è mai perso d’animo e ora lavora alla Bonelli. Poi due donne: Antonella Vicari, che lavora pure lei alla Bonelli, e Elisabetta Barletta, la compagna di Bruno Brindisi.
Come mai ha scelto di restare qui, invece di trasferirsi a Roma o a Milano?
Scherziamo? Salerno è una delle città più belle del mondo. Da qui non mi muovo.
A che progetti lavora in questo momento?
Sto lavorando a due sceneggiature. Una di Julia, quasi terminata, che sarà pubblicata entro l’anno, e una di Dylan Dog, appena agli inizi.
Che differenza c’è tra questi due personaggi?
Tantissime differenze. Appartengono a due mondi completamente diversi. Con Dylan Dog ho più spazio per metterci del mio, inventare dialoghi e situazioni brillanti. Julia è un personaggio più vincolante. Non ne scrivo i soggetti e, in fase di sceneggiatura, cerco di avvicinarmi quanto più possibile allo stile di Berardi.
Chi sono i suoi maestri?
Considero Tiziano Sclavi e Giancarlo Berardi due straordinari maestri. Da loro c’è sempre qualcosa di nuovo da apprendere. Per la verità, ho conosciuto Tiziano solo attraverso le sue storie, mai di persona. La distanza tra Milano e Salerno è incolmabile sia per lui che per me. Da tempo progetto un pellegrinaggio fino alla redazione, ma finisco sempre col rimandare a poi. Tiziano è un grande scrittore, non solo di fumetti. “Non è successo niente” è un romanzo tra i più veri e coraggiosi scritti in Italia negli ultimi vent’anni. Alla scuola di Berardi ho colmato molte mie lacune. La mia indole mi porta a cercare situazioni di tipo grottesco. Scrivendo Julia ho imparato a muovermi sul terreno di un rigoroso realismo.
Le viene mai la crisi da foglio bianco?
Sempre, ogni volta che comincio una storia. Non trovo subito la chiave giusta per raccontarla. Niente è scontato. Niente è automatico. Ogni volta devo rimettermi in discussione. La sofferenza è sempre la stessa. Per fortuna ho un altro lavoro. Un lavoro normale, che mi porta a contatto con la gente. Il fatto di insegnare e di avere un rapporto quotidiano con miei alunni e i colleghi mi aiuta ad evitare quello che è il più grande problema di chi scrive: la solitudine. Ci sei tu, lo schermo del computer, il foglio bianco. Quando non so come andare avanti, chiudo la porta, abbasso la persiana, e lì, al buio e nel silenzio, in una sorta di deprivazione sensoriale, a volte per ore, aspetto di sentire voci, di vedere immagini.
Ha sogni nel cassetto?
Ho cominciato a sognare da bambino e non ho ancora smesso. Oddio, mi manca Billiteri. Mi piacerebbe riprendere a raccontare le sue storie. Ne ho certe per la testa. Ma Dylan, Julia, mio figlio e mia moglie, i miei ragazzi a scuola riempiono già abbastanza la mia vita.

(La Città di Salerno, 30 maggio 2004)

Scheda biografica

Giuseppe De Nardo è nato il 3 marzo del 1958 a Napoli. Ha vissuto a Salerno, dove ha seguito gli studi classici al Liceo De Santis, laureandosi poi in Architettura. Le prime esperienze in campo fumettistico fanno capo alla fanzine "Trumoon", vera palestra per quasi tutti i fumettisti della scuola salernitano-partenopea. Nel 1992, la pubblicazione della sua prima storia breve per la rivista "Intrepido". La collaborazione alla testata di punta dell’editrice Universo proseguirà fino al 1995, con la serie "Billiteri" (disegnata inizialmente da Bruno Brindisi, poi continuata da Luca Vannini e altri) e con il mensile "Billiband" (disegni di Vannini e Daniele Bigliardo). Nel 1995, De Nardo inizia a collaborare con la Sergio Bonelli Editore, scrivendo per Dylan Dog ("La città perduta", n. 137, e "Sperduti nel nulla", Almanacco della Paura 1999). Ha debuttato nel nuovo noir di casa Bonelli, Julia, con il n. 7 della serie, "La lunga notte di Sheila", su soggetto di Giancarlo Berardi.

Intervista a Carla Marciano, musicista jazz

di Mario Avagliano

Una musicista dal “suono ruggente e graffiante”. Un “fiume di note spesso velocissime”. Un “nuovo talento” del jazz italiano. Un’artista di “forte passionalità”, capace di “assoli interminabili” e di un “sound acido e metropolitano”. Dopo l’uscita del suo primo disco, la salernitana Carla Marciano, classe 1968, sax alto e sopranino, ha collezionato recensioni positive da tutte le riviste più qualificate della musica jazz. Fidanzata con Alessandro La Corte, a sua volta eccellente pianista, la lady del jazz made in Salerno annuncia a la Città che ha in preparazione un nuovo cd, che conterrà per lo più brani originali, da lei composti.

Com’è nata la sua passione per la musica?
Credo di aver ereditato la passione da mio padre Giovanni, che se non avesse fatto il dentista, sarebbe diventato sicuramente un chitarrista. Casa mia era frequentata da musicisti, ho ascoltato dischi jazz fin da quando ero bambina.
Il suo primo strumento è stato il pianoforte, non il sax.
Ho cominciato a suonare intorno all’età di 11 anni, strimpellando note sul pianoforte che avevamo nel salotto. A 13 anni ero già attratta dagli strumenti a fiato. Soffrivo d’asma, e all’inizio i miei genitori non ne volevano sapere di questa mia fissazione. Il giorno del mio sedicesimo compleanno eravamo in vacanza al mare. Mio padre mi fece una splendida sorpresa. Al momento di soffiare le candeline sulla torta, tirò fuori da una scatola un magnifico sassofono alto che diventò subito l’inseparabile compagno delle mie giornate e dei miei sogni.
Inseparabile?
Beh, abbandonai tutte le altre cose: lo sport, gli amici. Il sassofono divenne la mia unica passione. Io ero molto studiosa, e trasferii la forza di volontà, la capacità di applicarmi, dalla scuola alla musica. Passavo interi pomeriggi a suonare, ad imparare da autodidatta il jazz, con l’aiuto dei dischi. In classe mi sentivo un po’ un corpo estraneo. Ricordo che i miei compagni mi prendevano in giro per la mia dedizione assoluta alla musica.
Conseguita la maturità al Liceo Classico Tasso, lei si è iscritta al Conservatorio di Salerno.
Allora il sassofono era entrato da poco come disciplina nel Conservatorio, e per questo motivo ho scelto il clarinetto. Ho studiato come un’ossessa. Mi sono diplomata in tre anni, rispetto ai sette che erano necessari.
Contemporaneamente si era iscritta all’Università di Medicina a Napoli.
La carriera musicale era un salto nel buio, lo studio dentistico di mio padre era una solida realtà: avevo la strada spianata... E così decisi di iscrivermi all’Università, ma durò poco. Sostenni appena due esami, prendendo un 30 e un 18. Poi mi ritirai. Gli studi al Conservatorio assorbivano tutto il mio tempo, e avevo capito che la musica era la mia vita.
Ricorda la sua prima esibizione dal vivo?
Eccome! E’ stata a Salerno, in un locale che si chiama Arethusa, a Pastena, vicino al Mumble Rumble. Era, credo, il 1989, e ricordo che ero emozionata dall’evento, anche perché io di carattere sono timida, riservata, introversa, e anche abbastanza problematica.
A Salerno in quegli anni nasceva quella poi è stata definita la “scuola salernitana del jazz”.
Sul finire degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, Salerno ha vissuto una stagione musicale forse irripetibile. C’era davvero un bel fermento, una voglia di fare che si avvertiva a pelle. Io allora non facevo ancora parte del movimento jazz salernitano, che ha prodotto tanti musicisti talentuosi e preparati, ma lo seguivo dall’esterno e ne ero affascinata.
Il fatto di essere donna è stato un vantaggio o uno svantaggio?
All’inizio, quando ho cominciato a frequentare gli altri musicisti salernitani, mi sono fatta un mucchio di problemi. Mi sentivo quasi fuori luogo fra tanti maschi. Loro però sono stati gentili e disponibili, e mi hanno aiutato a integrarmi. Ora ho un bellissimo rapporto con tutti e spesso lavoriamo insieme.
C’è qualcuno che deve ringraziare più degli altri?
Direi Dario Deidda, che mi ha stimolato molto a crescere. C’è stato un periodo, tra il ’94 e il ’96, che veniva a casa mia quasi tutte le sere. Io vivo in un attico in via Roma, nel palazzo dell’ex Hotel Diana, dove ho allestito una stanza interamente dedicata alla musica. Dario arrivava e insieme ad Alessandro La Corte, il mio fidanzato, ci mettevamo a suonare fino a notte inoltrata. Lui era molto più avanti di me, ed avere la sua stima era importante.
A suo giudizio, chi sono i musicisti salernitani più talentuosi?
Sono tutti musicisti di alto livello, è difficile scegliere. Rischierei di fare torto o di dimenticare qualcuno.
E tra i più giovani?
Citerei almeno Julian Oliver Mazzariello. Temo, comunque, che le nuove generazioni di musicisti salernitani abbiano meno possibilità di quante ne abbiamo avute noi.
Come mai?
I locali salernitani propongono poca musica dal vivo. Solo negli ultimi mesi c’è stato un timido risveglio. L’interesse del pubblico di Salerno per il jazz è scarso. E poi, se devo dirla tutta, le istituzioni non aiutano granché il movimento jazz. Prenda me, più che darmi una mano, a volte mi hanno messo il bastone tra le ruote. Quando c’erano manifestazioni, ero regolarmente ignorata. Per fortuna io di natura ho la “capa tosta” e ho continuato per la mia strada.
Lei ha suonato con alcuni tra i più grandi musicisti italiani e stranieri contemporanei. Chi l’ha colpita di più?
Ultimamente Antonio Onorato. E’ un grande musicista e una bellissima persona. Ho lavorato qualche volta con lui e c’è stata una sintonia totale.
Qual è il suo modello musicale?
John Coltrane. Lui, nel mio cuore, supera tutti con il suo sound modale, con le sue doti di inarrestabile improvvisatore. Certo, ce ne sono tanti altri che mi fanno impazzire: Charlie Parker, Joe Henderson, Bill Evans, McCoy Tyner, Sonny Rollins, Dexter Gordon ecc, ecc… la lista sarebbe infinita.
A Coltrane ha dedicato il suo primo cd, intitolato "Trane' s Groove".
Il disco è dedicato a Coltrane ma non contiene nessun pezzo suo. Alcuni brani sono miei, uno di Alessandro La Corte, uno di Dario Deidda, altri ancora sono degli standard classici. Però l’intero disco è percorso dalle atmosfere coltraniane, da un alternarsi di suoni gravi ed acuti.
La band che suona con lei è composta da musicisti salernitani, con l’eccezione del batterista Donato Cimaglia.
Ho voluto suonare con alcuni dei miei amici di sempre: Dario Deidda, Aldo Vigorito, il mio fidanzato Alessandro La Corte. L’intenzione era quella di dare vita a un disco “ruspante”, quasi live.
La critica ha parlato di un “lavoro rigoroso e cangiante, di forte spessore emotivo, in cui la sonorità aspra e nasale del sopranino sembra provocare squarci”...
La mia timidezza nasconde una grande passionalità. All’esterno sono una persona tranquilla, ma dentro sono agitata. Quando suono, mi trasformo e scarico nel sax le mie rabbie, le mie passioni. Questo mi porta ad avere un tipo di sound energico, quasi torrenziale.
Nel disco c’è anche spazio per tonalità melodiche. C’è chi ha scritto che lei “sotto una superficie scabra e forte, nasconde uno scrigno morbido, sinuoso e sfuggente”.
E’ vero. Sono le due facce della mia personalità, che da un lato è graffiante e dall’altra è dolce. Non a caso nel mio repertorio, accanto ai pezzi modali, entrano anche le ballads. Nel mio disco c’è poi un pezzo tutto elettronico, con suoni campionati, intitolato India's Mood, scritto dal mio compagno Alessandro, che ha un gusto world music o di indo jazz-fusion, per dirla con il Joe Harriott di tanti anni fa. Ho voluto rischiare inserendo questo pezzo in un disco tutto acustico perché sottintende, invece, una coerenza di base con il resto del disco. Sono contenta, infatti, che Alessandro, essendo un musicista molto versatile abbia aperto la mia mente, “unicamente” jazz, verso nuovi orizzonti musicali e nuove sonorità.
Condividere la stessa passione con chi si ama è un fatto positivo per la vita di coppia?
Io ritengo di essere stata fortunata a trovare un compagno musicista. Anche perché una persona che non suona, non mi avrebbe mai sopportata. Caratterialmente siamo due persone completamente diverse. Lui è energico, simpatico, brillante, molto piacevole da conoscere. Ha portato una ventata di allegria nella mia vita.
Come e quando vi siete conosciuti?
Ci siamo conosciuti alla Polymusic, nel 1987. Mi telefonò e mi chiese se volevo far parte di un quartetto jazz, con Gaetano Fasano. Cominciammo a suonare insieme e un paio di anni dopo è scoccata la scintilla e ci siamo fidanzati.
I suoi prossimi progetti?
Quest’anno girerò molto per l’Italia. Sono stata invitata a molti Festival jazz, a Bolzano, a Vicenza, a Milano, a Roma. Sono davvero contenta, perché il mio lavoro viene apprezzato. Inoltre, la mia casa discografica mi ha chiesto di produrre un altro disco.
Quando uscirà?
Andrò in sala di registrazione in autunno e il cd uscirà in primavera. Questa volta conterrà quasi tutti pezzi miei. Spero che verrà fuori un bel disco, ricco di sound e di energia.

(La Città di Salerno, 9 maggio 2004)

Scheda biografica

Carla Marciano nasce a Salerno il 15 luglio del 1968. Si avvicina alla musica all'età di undici anni, dapprima al pianoforte, poi al sax alto e nel '91 si diploma in clarinetto presso il Conservatorio di Salerno. Nel '94 viene selezionata per il Progetto Biennale di Formazione e Qualificazione Professionale nel campo della Musica Jazz e Contemporanea, diretto da Ettore Fioravanti e Bruno Tommaso. Entra, così, a far parte della "Matera Concert Band" di E. Fioravanti, con la quale si esibisce in alcuni festival italiani di jazz. Nel '96 viene scelta con altri 11 altosassofonisti per partecipare al 1° Premio Nazionale M. Urbani per il "miglior altosassofonista italiano emergente" (tenutosi ad Urbisaglia , con il supporto ritmico di Franco D'Andrea, Giovanni Tommaso e Fabrizio Sferra), classificandosi quarta. Ha fatto parte della Posilliporchestra (orchestra stabile dell' Otto Jazz Club di Napoli). Attualmente è impegnata con il progetto "Trane's Groove", con il quale, tra brani originali, standards e classici del repertorio coltraniano, desidera rendere omaggio al grande sassofonista americano John Coltrane, esplorando e rivisitando il suo linguaggio strumentale. "Trane' s Groove" (con Alessandro La Corte-pianoforte, Aldo Vigorito e Dario Deidda-contrabbasso, Donato Cimaglia-batteria), è anche il titolo del cd inciso per l'etichetta DDQ (SoulNote/BlackSaint - IREC - Milano), in distribuzione dall’aprile 2003. Collaborazioni: Ernst Reijseger, Stefano Sabatini, Ettore Fioravanti, Carl Anderson, Karl Potter, Joy Garrison, Dario Deidda, Aldo Vigorito, Giovanni Amato, Antonio Onorato ed altri. Per la musica pop: Enzo Avitabile.

Intervista a Yari Gugliucci, attore

di Mario Avagliano

“Vota Antonio, vota Antonio. Alle prossime elezioni mi presenterò come assessore allo spettacolo del Comune di Salerno”. Scherza Yari Gugliucci, 29 anni, salernitano, giovane speranza del cinema italiano e apprezzato interprete di Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino ucciso dalla camorra, nel film E io ti seguo, di Maurizio Fiume. Dal set di Cinecittà, dove sta girando la nuova fiction televisiva “Cuore contro Cuore”, che andrà in onda sulle reti Rai la prossima stagione, Gugliucci proclama il suo amore per Salerno, afferma che la città “è bella e convincente” e ha superato “la fase buia degli anni Ottanta”, ma non rinuncia a suggerire qualche idea agli amministratori comunali “per attrarre i turisti europei e giapponesi”.

Venti anni fa, quando lei era un ragazzino, Salerno era una città diversa da oggi?
Io vivevo protetto nel mio guscio, all’interno di una famiglia unita e numerosa, ma ricordo che il mio rapporto con l’esterno, con la città, era molto duro. Salerno era pericolosa, era la capitale della droga dopo Verona. Il lungomare era impraticabile, all’altezza del Bar Nettuno non di rado si assistiva a scene violente di risse. Anche a via dei Mercanti e al corso c’erano diverse traverse poco raccomandabili.
Quali scuole ha frequentato?
Le elementari a via Giacinto Vicinanza, le medie al De Filippis e le superiori al Liceo Tasso. Il mio rapporto con la scuola è stato assai travagliato. Al Tasso ho avuto grossi scontri con gli insegnanti, tranne con quelli di italiano e di filosofia, che erano due materie che mi piacevano. Per il resto, la mia passione per il teatro mi assorbiva totalmente, e i miei docenti non lo tolleravano.
Perché?
Perché io preferivo imparare il Giulio Cesare di Shakespeare piuttosto che Ugo Foscolo. Per me i discorsi di Marcantonio erano più attraenti della fisica o dell’Anabasi di Senofonte.
Quando ha cominciato a fare teatro?
Prestissimo, a 13-14 anni. Il mio amico del cuore, Peppe Amato, nipote di Antonio, l’industriale del Pastificio, mi disse che avevano organizzato una leva teatrale al San Genesio e mi invitò a partecipare. Alessandro Nisivoccia mi prese subito a ben volere e quando avevo appena 15 anni, mi lanciò come protagonista di uno spettacolo di Edoardo, “Le bugie con le gambe lunghe”. Fu il mio debutto sulla scena.
Il teatro San Genesio è stato anche per lei una palestra di formazione?
Certo. Ricordo che all’inizio Nisivoccia e il suo team mi parvero molto severi, anche a causa dell’impostazione gasmaniana del loro teatro. Con Alessandro siamo rimasti buoni amici, una volta mi ha anche chiamato a tenere una lezione ai suoi allievi. Il San Genesio a Salerno è un’istituzione. Molti valenti professionisti salernitani sono passati attraverso Nisivoccia, compreso l’attuale Presidente della Provincia Andria. Qualcuno, come me, ha continuato, anche se continuare significava inevitabilmente lasciare la città.
E lei ha trovato il coraggio di farlo, ad appena 18 anni...
Il distacco da Salerno è stato davvero complicato. Io vengo da una famiglia legata agli studi, fatta di medici e di avvocati. Per me il mondo dello spettacolo era un salto nel buio. Peraltro partivo da una situazione in cui non ero figlio d’arte e non avevo nessun legame a Roma.
Come ha fatto a convincere i suoi?
Con una bugia. A distanza di anni, lo posso rivelare. Mi sono inventato con i miei genitori una lettera inesistente di convocazione da parte della Scuola di Teatro di Gigi Proietti. In realtà ero un figurante, ero soltanto ammesso ad ascoltare le lezioni. La lettera era il frutto di una cortesia della segretaria della Scuola che aveva ceduto alle mie insistenze e aveva apposto un timbro su un foglio.
Inizi difficili...
I primi due anni sono stato mantenuto dalla mia famiglia. Nel frattempo mi ero iscritto a Sociologia, all’Università di Fisciano. Poi ho cominciato a lavorare come aiuto-regista per il teatro, prima con Livia Mancinelli, moglie di Carmelo Bene, poi con Ivonne D’Abraccio. Ad un certo punto pensavo che avrei finito per fare il regista.
E invece?
Invece nel 1994 Roberto Pacini mi chiamò a recitare in uno spettacolo di teatro sperimentale, intitolato “Dialoghi al Caffè Notturno”, tratto da alcuni racconti di Pirandello. Debuttammo a Napoli, alla Galleria Toledo, e fu subito un grande successo. Fu la svolta della mia carriera.
Arrivò la prima scrittura per un film.
Sì, nel 1996 girai “Isotta”, un film di Maurizio Fiume che partecipò anche al Festival di Venezia.
Da allora è stato un crescendo: L’ultimo Capodanno di Marco Risi, Ferdinando e Carolina di Lina Wertmuller, fino a La verità vi prego sull’amore di Francesco Apolloni e a Luisa Sanfelice dei fratelli Taviani.
Tutte esperienze eccezionali. Anche se forse, il personaggio che mi è rimasto attaccato di più sulla pelle, è quello di Michele, il pazzo del film Luisa Sanfelice, che ritengo sia stata la mia migliore interpretazione. L’ultimo lavoro dei Taviani non è stato un grande successo in Italia, ma ha venduto in 34 Paesi e credo che sarà rivalutato.
Che tipi sono i fratelli Taviani?
Dal punto di vista professionale, sono incredibilmente bravi. Girano una scena a testa, in perfetto accordo e senza gelosie. Dal punto di vista umano, sono molto divertenti. All’inizio m’incutevano timore, mi sembravano due presidi di Liceo, di quelli terribili che segnano sul registro le note in condotta. Superata la timidezza, quando si sono aperti, ho lavorato benissimo con loro.
Lei ha recitato con grandi attori italiani, da Sofia Loren a Giancarlo Giannini, da Paolo Villaggio a Lino Banfi. Chi l’ha impressionata di più?
Non ho dubbi: Sofia Loren, che ho conosciuto sul set di Francesca e Nunziata. Mi ha colpito in maniera incredibile la sua umiltà e semplicità. Non me l’aspettavo da un’attrice che ha lavorato con i più grandi attori e registi mondiali, da Marlon Brando a Cary Grant, da Totò a Vittorio De Sica.
C’è stato mai un momento della sua carriera in cui le è capitato di esclamare: “Mamma, quanto sono bravo!”
Nel 1999 ho vissuto un’esperienza irripetibile: ho recitato in inglese a Londra, all’Oliver Theatre, in un testo attualizzato di The Tempest di Shakespeare, per la regia di Stanley Ribinsky, insieme a Kevin Klein e Michelle Pfeiffer. Interpretavo la parte di un barbone italo-americano che viveva sull’isola di Manhattan. Tutto è nato per caso. Ribinsky stava girando a Cinecittà il film Sogno di una notte di mezza estate. Siccome è un ammiratore della Wertmuller, è venuto a curiosare sul set di Ferdinando e Carolina. Cercava un attore italiano, mi ha visto, gli sono piaciuto e mi ha chiamato per un provino in Inghilterra.
Che cosa ha provato?
Beh, recitare Shakespeare in inglese, a Londra, nel tempio del teatro inglese, per me che partivo da San Genesio, Salerno, è stata un’emozione unica. Ho pensato: “E’ finita, dopo di questo devo andarmene. Chiudo. Cambio lavoro!”.
Lei ha anche interpretato il ruolo del giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra, nel film del napoletano Maurizio Fiume.
Il film ha partecipato al festival di Montreal ed è stato presentato anche a Sorrento. Ci sono state grosse polemiche intorno alla sceneggiatura. Non entro nel merito. Dico solo che personalmente ho cercato di dare il meglio di me stesso nell’interpretare quell’uomo così coraggioso.
Gli altri registi campani, invece, non li ha mai incrociati...
In effetti io sono un solitario, non faccio clan. E per questo nel mio percorso artistico non ho mai incontrato i Martone, i Capuano, i Corsicato, i Patroni Griffi. Non è che non mi piacciano, anzi. Chissà, in futuro potrà capitare di recitare con qualcuno di loro. Mai dire mai.
Ha mai lavorato a Salerno?
Ho collaborato con Claudio Tortora al Premio Charlot. E’ stato un piacere. Ero un suo fan dai tempi della Rotonda.
Si può avere amici nel mondo dello spettacolo?
Per quanto mi riguarda, la risposta è sì. Tra i miei migliori amici ci sono Claudia Gerini, Luca Zingaretti e Adriano Giannini. Li ho portati anche a Salerno e in costiera amalfitana, facendo loro da Cicerone e mostrando le nostre bellezze storiche e paesaggistiche.
Progetti in corso?
Ho appena finito di girare una serie televisiva dal titolo “Il Capitano”, sulla Guardia di Finanza, insieme con Alessandro Preziosi. In queste settimane sono sul set dello Studio 6 di Cinecittà per una nuova fiction del gruppo Valsecchi, quello di “Distretto di Polizia”, dal titolo “Cuore contro cuore”, dedicata ai divorzi e alle separazioni. E’ un bel cast: oltre a me, ci sono Rocco Papaleo, Isabella Ferrari ed Ennio Fantaschinini. E poi, finalmente, si cambia un po’ il soggetto, dopo tante serie dedicate ai medici e alle forze dell’ordine.
Qual è il suo legame attuale con Salerno?
Quando ne ho abbastanza del mondo dello spettacolo, delle paranoie degli attori e dei registi, stacco tutto e ritorno nel mio bacino salernitano, dove ci sono i miei amici d’infanzia, con cui posso parlare di calcio, di cibo, di amore. Me ne vado al lungomare, che ora è così bello, o mi perdo nei vicoli della Salerno vecchia.
Parla quasi da innamorato!
Io sono innamorato di Salerno, della Salerno dei bar del lungomare, delle corse da Piazza della Concordia all’Hotel Jolly, degli anni d’oro del Vestuti e della serie B con Agostino Di Bartolomei, di mia nonna Wanda, che mi ha insegnato tutto nella vita e dal cui balcone, in via del Carmine, sognavo il cinema e di diventare un attore.
Segue la Salernitana anche adesso?
Non sono un tifoso acceso, però mi informo. Spero che i granata si salvino, sia dal punto di vista sportivo che societario.
Il quadro che traccia di Salerno è tutto roseo?
Credo che Salerno abbia fatto passi da gigante negli ultimi anni. Il sindaco De Luca è stato bravo. Però, se fossi assessore allo spettacolo, avrei qualche idea da proporre.
Immaginiamo che sia nominato assessore.
Porterei avanti tre progetti. Primo, istituirei delle corse di minibus per la Costiera Amalfitana. Basta con quei grossi autobus di linea o turistici che intralciano il traffico! Secondo, renderei il lungomare di Salerno come quello di Cannes, con ristorantini sul mare, negozi, e punti di attrazione per i turisti europei e giapponesi. Terzo, riaprirei cinema storici come l’Astra, il Capitol, il Mini, facendoli diventare sale d’essai dove grandi registi vengano a presentare in anteprima i loro film.
Guardi che qualcuno la potrebbe prendere sul serio e “ingaggiarla” nel Palazzo.
Che dire: Vota Antonio! Vota Antonio!

(La Città di Salerno, 25 aprile 2004)

Scheda biografica

Yari Gugliucci è nato a Salerno il 15 ottobre del 1974. Nonostante la giovane età, vanta già una buona esperienza, maturata in circa dieci anni di attività. Per il cinema ha recitato in Luisa Sanfelice (2004) dei fratelli Taviani; Stai con me (2003) di Livia Giampalmo; E io ti seguo (2001) di Maurizio Fiume; La verità vi prego sull’amore (2001) di Francesco Apolloni; Un anno in campagna (2000) di Marco Di Tillo; Una vita non violenta (1999) di David Emmer; Ferdinando e Carolina (1999) di Lina Wertmuller; L’ultimo Capodanno (1998) di Marco Risi; Isotta (1996) di Maurizio Fiume. In tv ha fatto parte del cast del film Francesca e Nunziata (2003) di Lina Wertmuller e ha interpretato il ruolo di ispettore nel serial Valeria medico legale. Nel suo curriculum figura anche il teatro: nel 1999 ha recitato a Londra, all’Oliver Theatre, in The Tempest di Shakespeare, per la regia di Stanley Ribinsky, insieme a Kevin Klein e Michelle Pfeiffer.

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