L'Italia di Salò, la recensione del Foglio

L’originalità del corposo lavoro di Mario Avagliano e Marco Palmieri non consiste nell’aver dato voce alle ragioni dei vinti, a quanti cioè credettero che la soluzione di Salò, ultima e crepuscolare propaggine del regime fascista che per un ventennio governò l’Italia, bensì nell’aver riportato alla luce i racconti di vita vissuta, alle esperienze personali, a ciò che spinse migliaia di uomini a seguire Mussolini anche in quella fatale esperienza.

E’ un’opera robusta e seria, come dimostra peraltro il denso apparato bibliografico e i riferimenti precisi a date, spazi, avvenimenti. Scrivono gli autori che “nonostante l’indubbio salto di qualità nel panorama degli studi, restava ancora da scandagliare in profondità, ricorrendo alle fonti coeve disponibili e alla memorialistica postuma, scevra da condizionamenti che l’hanno caratterizzata, la storia degli italiani che decisero di aderire e combattere dalla parte sbagliata”. Una storia, cioè, “che nonostante gli inevitabili distinguo individuali e particolari, riportasse alla luce in termini generali il loro carico di motivazioni, contingenti e ideologiche, le ragioni di quelle scelte, la loro evoluzione e i conseguenti comportamenti durante i venti mesi di quell’esperienza”.

Il problema maggiore è stato quello che Avagliano e Palmieri chiamano “il problema politico-culturale” che ha giocato un ruolo non indifferente nell’usare schemi rigidi a proposito di quel periodo della nostra storia, leggendo spesso il tutto in una chiave ideologica che persiste a tutt’oggi. Antifascisti e reduci, insomma, hanno lottato su Salò ben oltre il 1945.

Al di là di questo, il saggio cerca – riuscendoci – di rispondere all’interrogativo che oggi potrebbe porre qualunque ragazzo interessato alle patrie vicende storiche: cosa spinse un suo coetaneo d’allora, tra cui anche molti uomini di cultura, a risalire l’Italia disastrata per mettersi ancora una volta al servizio del Duce, in quello che ormai sembrava un epilogo disperato? Allora ecco che rileggere le lettere private, spulciare nei carteggi famigliari, diventa fondamentale per capire e conoscere le motivazioni ideologiche che portarono quegli italiani ad aderire alla Repubblica sociale. “Tra i volontari ci sono coloro i quali sono portatori di istanze che finiscono per coincidere con quelle del fascismo, ma hanno anche radici e basi che prescindono da esso, come ad esempio un certo modo di intendere l’amor di patria, il senso del dovere e l’attitudine a identificarsi e a obbedire a quella che viene riconosciuta come l’autorità legittima costituita”.

(Il Foglio, 27 maggio 2017)

Storie - L'Atlante delle stragi

di Mario Avagliano

Un lavoro di ricerca durato anni che, dopo il portale web e il convegno internazionale svoltosi a settembre 2016, finalmente approda in libreria, con un corposo saggio intitolato Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), per i tipi del Mulino, a cura di Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti.

È la conclusione del progetto di ricerca promosso da Anpi e Insmli e finanziato dal Governo tedesco, che ha coinvolto 130 ricercatori e ha portato a censire tutte le stragi compiute sul suolo italiano durante il periodo della Repubblica di Salò e dell’occupazione tedesca: un totale di 5.616 episodi di violenza con ben 23.720 vittime

Oltre agli eccidi tragicamente noti, come quelli di Monte Sole e di Sant’Anna di Stazzema, il periodo compreso fra l’8 settembre del ’43 e la fine della lotta di liberazione ha visto cadere sotto il fuoco tedesco e fascista un numero spaventoso di italiani, tutti cittadini inermi e molti del tutto estranei alla lotta partigiana, vittime di rastrellamenti o uccisi senza motivi apparenti. Questo volume fornisce una mappa delle stragi che hanno insanguinato l’Italia, analizzandole dal punto di vista storiografico, interpretativo e geografico, avvalendosi di un apparato cartografico che illustra le fasi principali del conflitto in relazione alla cronologia delle stragi.

Da questo lavoro emergono la caratteristica di “guerra ai civili” del conflitto scatenato nell’Italia occupata (vedi il saggio di Carlo Gentile) e la responsabilità autonoma del restaurato regime fascista di Mussolini in molte delle stragi dei civili (vedi il saggio di Toni Rovatti “La violenza dei fascisti repubblicani), come evidenziato anche nel libro “L’Italia di Salò” (Il Mulino) pubblicato a marzo da me e Marco Palmieri.

L'atlante è disponibile online e accessibile all'indirizzo http://www.straginazifasciste.it e si compone di una banca dati e dei materiali di corredo (documentari, iconografici, video) correlati agli episodi censiti, ospitati all’interno del sito web. Nella banca dati sono state catalogate e analizzate tutte le stragi e le uccisioni singole di civili e partigiani uccisi al di fuori dello scontro armato, commesse da reparti tedeschi e della Repubblica Sociale Italiana in Italia dopo l’8 settembre 1943, a partire dalle prime uccisioni nel Meridione fino alle stragi della ritirata eseguite in Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige nei giorni successivi alla Liberazione. L’elaborazione su base cronologica e geografica dell’insieme dei dati censiti ha consentito la definizione di una "cronografia della guerra nazista in Italia", che mette in correlazione modalità, autori, tempi e luoghi dei fatti.

La ricerca, come ha sottolineato l’ambasciatore tedesco Susanne Wasum-Rainer, è stata finanziata dal governo della Repubblica Federale di Germania, che attraverso il Fondo italo-tedesco per il futuro ha finanziato anche un altro grande progetto, l’Albo dei Caduti Imi, gli internati militari italiani. Sarebbe bello che anche il governo italiano si facesse promotore di un analogo lavoro di ricerca su pagine nere della nostra storia. Un esempio? Il censimento degli atti di persecuzione agli ebrei perpetrati a seguito dell’entrata in vigore delle leggi razziste del 1938.

(L'Unione Informa e Moked.it del 25 aprile 2017)

  • Pubblicato in Storie

Mussolini, quell'antico patto con l'Islam

di Mario Avagliano

Il feeling tra il fascismo e l’Islam non è una novità storiografica. Già Stefano Fabei, ad esempio, ne aveva scritto in passato nel saggio «Il fascio, la svastica e la mezzaluna» (Mursia). Un libro appena uscito, «Mussolini e i musulmani. Quando l'Islam era amico dell'Italia» (Mondadori, pp. 150, euro 19), di Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch, ci aiuta a ripercorrerne le tappe e a comprenderne le motivazioni e la pesante eredità per l’Italia di oggi, con il piglio e la scorrevolezza del «buon giornalismo storico», come scrive Roberto Balzani nella premessa.

Nella ricostruzione fatta da Mazzuca e Walch il rapporto di amorosi sensi tra Benito Mussolini e l’Islam ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. A propiziarlo, nel 1913, quando Mussolini era ancora direttore dell’«Avanti!» ed era del tutto a digiuno di storia islamica, fu l'affettuosa amicizia che egli intrattenne a Milano con la giornalista Leda Rafanelli, detta l’Odalisca, di fede musulmana, che vestiva spesso una gelabiat (una specie di caffettano), e alla quale il futuro duce, dopo aver chiesto con una gaffe se era buddista, promise di leggere «Nietzsche e il Corano».

Due anni prima, nel 1911, Mussolini era finito in galera assieme ad un altro romagnolo doc, Pietro Nenni, per avere partecipato alla manifestazione di protesta a Forlì contro la guerra agli ottomani sferrata da Giolitti, deciso ad annettersi i territori libici e colonizzare i musulmani. Secondo l’allora compagno Benito, si trattava di mire imperialistiche da parte italiana: un’usurpazione vera e propria nei confronti dei poveri indigeni islamici.

La simpatia per l’Islam mise altre solidi radici nell’Italia fascista degli anni Venti, attraversata da un sentimento di rivalsa verso la «vittoria mutilata» sancita dal trattato di Versailles del 1919, condiviso anche dai paesi arabi, ancora sotto il giogo coloniale franco-inglese.

Più tardi, negli anni Trenta, l’antisionismo spinse Mussolini e gli islamici a trovarsi dalla stessa parte della barricata contro il progetto di spartizione della Palestina, fino a trovare un altro terreno di comunanza ideologica nella promulgazione in Italia delle leggi razziste contro gli ebrei.

In quegli anni il duce guardò all’Islam con sempre maggiore attenzione, imponendo già nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con i paesi dell'Islam, tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano.

Il duce venne ricambiato con fervore dai paesi arabi, nei quali nacquero diversi movimenti (le Falangi libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto, le Camicie azzurre) che seguivano il fascismo con particolare interesse, come alternativa al modello della Gran Bretagna e della Francia e come scorciatoia per nazionalizzare le masse per via autoritaria, evitando i rischi della democrazia occidentale. Non a caso di recente Hamed Abdel-Samad, politologo e storico tedesco nato al Cairo, ha dato alle stampe un saggio dal titolo significativo: «Il fascismo islamico». 

La stessa guerra di conquista dell'Etiopia nel 1936, definita da Indro Montanelli, che vi partecipò, «una bella lunga vacanza dataci dal Grande Babbo in premio di tredici anni di scuola», e ottenuta anche con l’impiego dei gas tossici, venne presentata come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani. Tanto è vero che, ricordano Mazzuca e Walch, il 20 marzo 1937, testimone Italo Balbo, Mussolini fece ingresso a Tripoli su uno splendido cavallo sguainando la famosa Spada dell'Islam, un gioiello in oro massiccio, cesellato da artigiani fiorentini.

«Il Messaggero» dell’epoca, al pari degli altri giornali italiani, titolò: «La spada dell’Islam al fondatore dell’Impero», citando alcuni brani del discorso del duce: «L’Italia Fascista intende assicurare alle popolazioni mussulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam ed ai mussulmani del mondo intero». Tra i pochi commenti negativi, ci fu quello di Leo Longanesi, che sentenziò: «Sbagliando s'impera».

Balbo, da governatore della Libia, aprì nuove frontiere al mondo arabo e intensificò il dialogo con i musulmani, costruendo la via Balbia, istituendo la Gioventù araba del littorio e facendo ottenere nel 1939 la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B.

Il feeling tra il regime fascista e i musulmani, raccontano Mazzuca e Walch, proseguì anche negli anni di guerra, con il progetto di costituire in Italia una legione araba fedele alle forze dell’Asse, con la benedizione del Gran Mutfì di Gerusalemme, il quale - dialogando anche con Hitler - ambiva a creare un superstato in grado di riunire Iraq, Siria, Palestina e Transgiordania, contro britannici ed ebrei. Il progetto di una legione araba, accarezzato fin dal 1941, prese corpo nel maggio del 1942, e il primo nucleo, peraltro esiguo, di volontari musulmani giurò di «combattere contro le Forze britanniche e i loro alleati fino alla completa liberazione dei Paesi Arabi del Vicino Oriente». Saranno poi impiegati a partire dal gennaio 1943 in Africa settentrionale, accanto alle truppe italiane.

Qualche anno prima Mussolini, nel settembre del 1936, come risulta da un appunto conservato nella sua segreteria particolare, si era anche dichiarato disponibile a fornire al Gran Mutfì di Gerusalemme, postosi alla testa di un’infiammata rivolta araba, il materiale e il personale necessari per avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv, la città in cui si era stabilito il maggior numero degli ebrei arrivati in Palestina. Per fortuna il piano fu poi abbandonato, anche se al Mutfì arrivarono dal governo italiano 138 mila sterline.

(pubblicato in versione più sintetica su "Il Messaggero" del 22 aprile 2017)

  • Pubblicato in Articoli

Cosa fu davvero l’Italia di Salò

di Marco Di Porto

Dopo l’8 settembre 1943, quando cadde il regime fascista e l’Italia si divise in due, quanti aderirono alla neonata Repubblica sociale e presero le armi? E quali erano le loro motivazioni e i loro sentimenti?

L’ultima, vergognosa e tragica pagina del fascismo, che ne rappresentò l’epilogo e durante la quale avvennero le razzie e le deportazioni degli ebrei, gli eccidi di innocenti, gli arresti e gli internamenti di partigiani, militari e oppositori nell’Italia occupata dai nazisti, è stata indagata dagli storici e giornalisti Mario Avagliano e Marco Palmieri nel recente “L’Italia di Salò – 1943-1945”, edito dal Mulino.

Tra resoconti di polizia, corrispondenze intercettate dalla censura, diari, memorie e documenti editi e inediti, i due autori – Avagliano è storico collaboratore di Pagine Ebraiche, e autore, anche con Marco Palmieri, di diversi volumi sulle vicende degli ebrei italiani durante la guerra – ricostruiscono la storia dei fascisti di Salò. Raccontando le scelte e le storie dei volontari, dei coscritti, degli internati in Germania che “optarono” per la Rsi, dei prigionieri degli Alleati che rifiutarono di collaborare, delle seimila ausiliarie e dei fascisti che operarono nelle zone già liberate. In tutto oltre mezzo milione di aderenti, volontari o forzati, che vissero i venti mesi della guerra civile “dalla parte sbagliata”.

“Nel dopoguerra la Resistenza è stata oggetto di innumerevoli studi, ricerche e memorie, e il punto di vista resistenziale, spesso alimentato da storici che ne erano stati protagonisti, ha rappresentato una narrativa dominante”, scrivono gli autori nell’introduzione. “La vicenda dei tanti italiani che scelsero di aderire e combattere per la Rsi, al contrario, è rimasta a lungo marginale, finendo per rappresentare un autentico vuoto nel panorama storiografico e un tassello mancante nel composito quadro della conoscenza e della memoria di quel periodo.”

Un vuoto a cui gli autori hanno cercato di porre rimedio con questo volume di quasi cinquecento pagine, che racconta l’Italia della guerra civile, dalla caduta di Mussolini alla Liberazione.

La maggior parte degli aderenti a Salò, anche coloro che commisero gravi delitti, non pagarono o pagarono in misura lieve per le loro azioni. Casi esemplari sono il comandante della X Mas Junio Valerio Borghese, imputato per quarantatré omicidi, condannato a dodici anni di reclusione ma subito liberato, e il comandante dell’esercito di Salò Rodolfo Graziani, condannato a diciannove anni ma libero tre mesi dopo. Molti altri scamparono, in vario modo, alla giustizia, sfruttando anche la tendenza assolutoria che si intensificò dopo la sconfitta delle sinistre alle elezioni del 1948.

“In buona sostanza – si legge ancora nell’introduzione – nel giro di appena un decennio dalla fine della guerra la gran parte dei fascisti sfuggiti alle vendette post-Liberazione era di nuovo in libertà e la mancata applicazione delle pene diede di fatto un contributo decisivo alla più generale rimozione di memoria alla quale si è assistito nel dopoguerra.”

Non è un caso se, già nel 1948, il Msi raccoglieva il 2 per cento dei voti, e nel 1953 il 6 per cento, divenendo parte stabile del panorama politico della prima repubblica. “Segno evidente – continuano gli autori – che una domanda di rappresentanza politica del neofascismo effettivamente c’era, dovuta anche al retaggio di consenso e di adesioni che il fascismo e la sua esperienza finale di Salò avevano proiettato nell’Italia del dopoguerra, nonostante la tragedia del conflitto mondiale, l’orrore della guerra civile e le indubbie colpe del regime mussoliniano.”

(Moked.it del 25 aprile 2017)

 

25 aprile: in un libro il volto inedito dell'Italia di Salò

di Gabriele Le Moli

La firma dell'armistizio, l'8 settembre del 1943, segnò per  l'Italia non la fine della guerra ma l'inizio di un nuovo, e se  possibile più feroce conflitto, che spaccò in due il Paese. Accanto a quella fra gli eserciti regolari, fu combattuta  una 'guerra civile' e 'contro i  civili' che vide schierati su fronti opposti gli italiani inquadrati nella Resistenza e i connazionali che invece scelsero di seguire ancora il fascismo aderendo alla Repubblica sociale italiana.

Una spaccatura che ancora oggi sembra non essere rimarginata, se si guarda alle polemiche  legate alle celebrazioni per il 25 aprile. Una distanza, quindi, mai  colmata, e che per anni è stata raccontata come una contrapposizione  fra 'giusti e sbagliati', semplificando valori e motivazioni in base  alla logica dominante dei vincitori. La vicenda personale, civile e  morale dei tanti italiani che scelsero di schierarsi 'dalla parte  sbagliata' - rimasta a lungo marginale nella storiografia del dopoguerra - è affrontata adesso con rigore scientifico nel volume "L'Italia di Salò. 1943-45" di Mario Avagliano e Marco Palmieri,  uscito in questi giorni per Il Mulino.

Il volume, grazie ad un voluminoso e ricchissimo corpus di documenti storici, in parte  inediti, scandaglia a fondo e 'dal basso' lo spettro di motivazioni  che indussero oltre mezzo milione di italiani ad aderire alla Rsi.  Attraverso diari, lettere, testamenti ideologici, documenti di polizia  e relazioni delle forze armate emerge un ritratto di quei giorni e di  quei protagonisti, più vivo e reale e liberato dai condizionamenti  ideologici e politici tipici della memorialistica post-bellica.

I documenti raccolti da Avagliano e Palmieri rispondono così ad una serie di domande su aspettative e motivazioni degli italiani rimasti fedeli al Regime, e passano in rassegna le loro diverse esperienze militari (dall'esercito nazionale apolitico alle milizie di partito come la Guardia nazionale repubblicana e le Brigate nere, fino alle sanguinarie bande irregolari ed alle SS italiane comandate dai tedeschi). Nelle parole e nei sentimenti di chi visse lo choc dell'armistizio - sentito da molti come un tradimento - diventa chiaro come per tanti italiani l'8 settembre non rappresentò un taglio netto col Ventennio, ma una svolta in continuità rispetto ad un percorso di formazione culturale e politica, il cui naturale conseguenza fu proseguire con la militanza nella Rsi.

(Ansa, 24 aprile 2017)

I combattenti della parte sbagliata

di Raffaele Liucci

Arduo scrivere una storia condivisa della Repubblica Sociale Italiana (1943-45). Eppure Mario Avagliano e Marco Palmieri in L'Italia di Salò (Il Mulino) ci sono forse riusciti, indagando un passato segnato dal «disconoscimento totale e reciproco dell’umanità dell’avversario», come ha osservato Luigi Ganapini, autore nel 1999 di uno dei primi studi scientifici d’insieme sulla Repubblica delle camicie nere. Rispetto alle precedenti, questa nuova sintesi privilegia una ricostruzione dal basso, dando spazio ai diari e alle lettere coeve degli uomini comuni. Una fonte non priva di trabocchetti (i testimoni diretti non sono quasi mai i migliori giudici di se stessi), ma utilissima per aprire uno squarcio su una realtà magmatica, non del tutto riconducile all’ideologia dei capi. Altra peculiarità di questo tomo è lo sguardo esteso anche alle propaggini estere della Rsi, dai «non cooperatori» nei campi di prigionia alleati sino al «fascismo clandestino» operante al Sud, nell’Italia liberata.

Sia chiaro: questi documenti confermano molti tratti distintivi dei combattenti «dalla parte sbagliata». Lo choc del 25 luglio e la vergogna provata per il «tradimento» dell’8 settembre. La volontà di riscatto, anche solo per «perdere una guerra a modo mio». La propensione a considerare il duce vittima di «falsi fascisti» e la rinnovata fiducia nelle sue doti quasi sovrannaturali. L’odio per «la zona grigia degli indifferenti e dei rassegnati». L’ansia di vendetta e il desiderio di combattere non solo al fronte, ma anche contro i «ribelli» (smentendo così la tesi di una certa refrattarietà dei militi di Salò a scontrarsi con altri italiani). Le invettive contro i «negri» e i «porci angloamericani». Una concezione del mondo complottistica e manichea, con «massoni» ed «ebrei» gran burattinai. Del resto, come stupirsene? La Rsi dichiarò di «nazionalità nemica» tutti gli israeliti italiani e collaborò alacremente al genocidio ebraico.

D’altra parte, questa ricognizione svela un quadro assai più variegato dei «gregari di Salò». Non soltanto coscritti entusiasti, ma anche «tiepidi, recalcitranti, renitenti, disertori». Molti di loro, trasferiti in Germania per un periodo di addestramento, scrivono alle famiglie messaggi densi di angoscia per la fame, il freddo, la fatica e la sensazione «di essere agnelli ai comandi di alcuni ufficiali tedeschizzati». C’è poi chi si rifiuta, in Italia, di partecipare a esecuzioni sommarie di partigiani e civili. Per non parlare di quanti passeranno al fronte avverso, come il futuro storico del colonialismo Angelo Del Boca, qui citatissimo. Degne di riflessione anche alcune missive di «repubblichini» in attesa di essere giustiziati, intrise di dignitosa compostezza, tanto che potrebbero essere quasi scambiate per lettere di condannati a morte della Resistenza: «Muoio con l’animo tranquillo perché ho la coscienza di aver fatto tutto con slancio e devozione a quella Patria che ho amato più di me stesso, più della famiglia, forse più di Dio».

Gli autori non trascurano la persecuzione degli ebrei, la «guerra ai civili» e le torture anti-partigiane. Utile corollario a queste pagine è un recente libro di Alberto Mandreoli (Il fascismo della repubblica sociale a processo. Sentenze e amnistia, Il Pozzo di Giacobbe), che ricostruisce in modo capillare i processi celebrati a Bologna nell’immediato dopoguerra contro i fascisti responsabili di stragi e violenze varie, con sentenze di condanna annacquate dall’amnistia di Togliatti (giugno ’46). È il tema della mancata Norimberga italiana.

Ma Avagliano e Palmieri non dimenticano neppure la resa dei conti scattata dopo il 25 aprile ’45: l’ultimo capitolo del libro è infatti riservato alle vendette partigiane e al «sangue dei vinti». Un esito ahimè prevedibile, giacché una guerra civile non può cessare per decreto da un giorno all’altro, e quella italiana era iniziata con il primo squadrismo. Ma è anche vero che la Resistenza permise a molti antifascisti dell’ultima ora di rifarsi una verginità, facendo dei «repubblichini» (spesso giovanissimi) i capri espiatori di una lunga stagione avviatasi nel ’22, non dopo l’8 settembre ’43. Come se il Tribunale Speciale, il patto con Hitler, le leggi razziali e la pugnalata alla schiena della Francia non fossero episodi altrettanto gravi del revival crepuscolare di Mussolini, dall’autunno ’43 a piazzale Loreto.

(Il Sole 24 Ore, Domenicale, 23 aprile 2017)

I giovani e la Repubblica di Salò. «Una rivincita generazionale»

di Pietro De Leo

«L’Italia di Salò. 1943-1945»è il titolo di un saggio, edito da Il Mulino, di Mario Avagliano e Marco Palmieri, entrambi giornalisti e storici. Ma, soprattutto, è un tentativo riuscito di rileggere con oggettività quei due anni che vanno dall’8 settembre del ’43,data dell’armistizio con le forze alleate, all’aprile del ’45, quando il 28 del mese Benito Mussolini venne fucilato. Era l’Italia, appunto, della Repubblica Sociale Italiana, un Paese disegnato dai tratti della presenza dell’esercito tedesco, nel Centro-Nord, alleato, a Sud (risalendo lungo lo Stivale) e della guerra civile. "Repubblichini" contro partigiani. Ma è l’Italia in cui circa mezzo milione di giovani fecero la scelta di difendere, fino all’ultimo, quell’ideale di Patria che il fascismo aveva forgiato. È dunque in questo solco che si snoda il lavoro di Avagliano- Palmieri, uscito nelle librerie da qualche settimana e ieri presentato a Roma, presso la Biblioteca di Storia Moderna e contemporanea. A coordinare i lavori il giornalista di Radio Rai Ruggero Po.

Avagliano va subito al punto, spiegando la differenza con molte precedenti rese storiografiche del periodo di Salò: «Molti libri sull'argomento sono stati scritti da ex partigiani o da reduci. Perciò le visioni erano quelle di uno Stato fantoccio o di una Repubblica necessaria ». Questo lavoro, invece, va oltre, proprio perché fa parlare le fonti: lettere, resoconti di polizia, diari, dispacci di regime. Da cui si ricostruisce come quella dell’adesione fu una scelta dettata da un forte influsso generazionale: si aderiva, spiegano gli autori, per una sorta di rivincita contro la categoria del tradimento, incarnata dall’armistizio dell’8 settembre. Si aderiva, chiaramente, anche per ideologia, per conseguenza pratica dell’indottrinamento.

E sul punto insiste Mauro Canali, docente di storia contemporanea all’Università di Camerino, che sottolinea come scorrendo le lettere alle famiglie di molti ragazzi di Salò si notano dei ricorrenti topoi linguistici tipici della propaganda di regime, come fossero stati inculcati nel linguaggio. «Ci sono dei riferimenti che ricorrono continuamente », spiega Canali, «e anche questo testimonia la forza del mito mussoliniano e del mito fascista». E ancora, sottolinea Canali, la peculiarità di questo libro è che «la sostanza viene data dai cittadini comuni», in pratica, «è un libro sui giovani». L’ossatura generazionale della RSI si ritrova anche nei profili di quei nomi che hanno fatto, in vari campi, la storia del nostro Paese e che poi presero strade diverse: da Giorgio Albertazzi a Dario Fo, da Raimondo Vianello a Giorgio Bocca.

Quella di Salò fu anche una storia di donne, repubblichine e partigiane. A metterlo in evidenza è Michela Ponzani, storica, conduttrice del programma «il tempo e la storia» su Rai Storia. Nell’esperienza di Salò, «lo stupro era un’arma di repressione politica», spiega Ponzani, riportando delle testimonianza di un giovane aderente alla RSI che raccontava le angherie contro una donna partigiana trattenuta in arresto in una caserma. Tuttavia, accanto a questo c’era anche la partecipazione di tante donne al progetto di Salò, e venivano variamente impiegate, o come segretarie, traduttrici e i lavori «di retrovia», oppure in prima linea o nell’articolata e capillare attività di delazione, che segnò nel profondo l’esperienza repubblichina. Altro aspetto rilevante del volume, l’analisi delle varie esperienze regionali che sorsero qui e là per l’Italia a sostegno dell’esperienza di Salò. Dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Calabria a la Campania, questo a smentire la vulgata che vuole la fase repubblichina come espressamente circoscritta al territorio sul Garda.

Sulla complessità del lavoro storiografico pone l’accento proprio Marco Palmieri: «Dopo l’8 settembre la confusione in Italia era enorme», evidenzia mettendo in luce come la mancanza di ordini precisi avesse fatto piombare l’esercito nel disordine più totale. E non è un mistero, dunque, come tra le motivazioni che spinsero molti giovani ad abbracciare la Repubblica Sociale vi fosse anche una profonda insoddisfazione verso i vertici militari dell’epoca. Tutto questo lo si ravvisa attraverso la ricostruzione puntuale delle fonti che hanno messo in atto i due autori. «Il nostro - spiega- Palmieri, non è un libro né di destra né di sinistra. E forse per questo ha ottenuto delle recensioni positive dalla stampa di qualsiasi orientamento politico-culturale. Una lettura senz’altro utile in vista del 25 aprile, quando come al solito sulla conquista della memoria condivisa prevarrà l’infuriare di una guerra ideologica dove il vincitore di oggi coincide, immancabilmente, con quello di allora.

(Il Tempo, 19 aprile 2017)

  • Pubblicato in News

Nel cuore della «zona grigia». Fascisti o partigiani per caso

di Renato Besana

«Noi fascisti repubblicani siamo in pochi, italiani, ma siamo gente di fede, decisa a tutto osare, poiché probabilmente più nulla avremo da perdere, tutto da riconquistare, nessun diritto allora, solo dedizione e doveri»: così si legge in un volantino anonimo, rinvenuto nel bagno dell’allora Teatro Nuovo, a Roma, nell’ottobre 1944, quattro mesi dopo l’ingresso delle forze alleate in città. È, questa, una delle testimonianze raccolte da Mario Avagliano e Marco Palmieri ne L’Italia di Salò (il Mulino, pp. 490, euro 28), volume che sarà presentato oggi a Roma alle 17.30, presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea (via M. Caetani 32), da Mauro Canali e Michela Ponzani.

Ciascuno dei due autori si era già occupato, in libri precedenti, delle tragiche vicende che si dipanarono dal ’43 al ’45; in questo, hanno inteso indagare la realtà umana di coloro che aderirono alla Rsi. «Non c’è dubbio che nella ricostruzione storica del periodo», scrivono nella nota introduttiva, «abbia pesato anche un problema politico-culturale relativo al corretto recupero della sua memoria, basato sull’analisi ampia e approfondita delle fonti, fuori dagli schemi rigidi e dalle letture ideologiche che hanno caratterizzato il lungo dopoguerra».

Intendiamoci: Avagliano e Palmieri non mostrano simpatia alcuna per chi militò dalla «parte sbagliata», ma cercano d’indagarne le ragioni, attingendo di volta in volta anche a lettere, memoriali, rapporti di polizia. Ne esce un quadro di straordinaria vivezza, soprattutto perché affidato alle parole dei protagonisti, a volte sconosciuti, a volte approdati alla notorietà a guerra finita, da Fo ad Albertazzi, da Livio Zanetti a Enrico Maria Salerno, da Giuseppe Berto a Enrico Ameri, da Pio Filippani Ronconi ad Alberto Burri, e l’elenco potrebbe continuare. Al ritorno di Mussolini, nell’autunno ’43, i fascisti convinti si contrappongono agli antifascisti di vecchia data che si mobilitano per organizzare la Resistenza. Tra le due minoranze, sia pur cospicue, «c’è un’ampia zona grigia, caratterizzata da una magmatica incertezza che porta a fare l’una o l’altra scelta, o prima l’una per poi passare all’altra, sulla base di fattori e circostanze contingenti».

Fascisti e partigiani per caso: il testo ne dà ampio conto, citando vicende personali, spesso minute, che restituiscono la somma confusione di quegli anni. Una scelta drammatica tocca ai militari italiani internati dai tedeschi dopo l’armistizio o già prigionieri degli Alleati. Ai primi, soprattutto agli ufficiali, fu proposto di costituire i quadri del nuovo esercito repubblicano. Alcuni accettarono convintamente, altri soltanto dopo il primo, durissimo inverno di detenzione; la maggioranza rifiutò. I Pow, i Prisoners of war rinchiusi in campi sparsi per il mondo - i peggiori furono quelli dei francesi - ricevettero la richiesta di cooperare come manodopera a favore degli Alleati. In molti decidono per il no, sopportandone le conseguenze. Anche qui, la rievocazione si avvale di lettere e testimonianze rese da chi visse quelle vicende.

Avagliano e Palmieri dedicano poi un capitolo a un fenomeno poco indagato: la resistenza nera nelle regioni occupate dagli anglo-americani. Si tratta per lo più di gruppi, come quello di «Onore», attivo a Roma, che nella clandestinità continuano a dirsi fascisti, svolgendo attività di propaganda. Lungo il filo delle pagine si dipana il racconto degli avvenimenti che precipitano verso la resa. L’Enr, l’Esercito nazionale repubblicano del maresciallo Graziani, è male equipaggiato e malvisto dai tedeschi, che preferirebbero impiegare gli italiani nel lavoro coatto. Nell’estate ’44, Pavolini istituisce le Brigate nere; come lui stesso annota, sono organizzate sul modello delle formazioni partigiane, allo scopo di combatterle: alla guerra contro gli Alleati si aggiunge la terribile guerra civile.

La linea del fronte sale, le diserzioni nelle file della Rsi aumentano, ma fino agli ultimi giorni non mancano i giovanissimi che si arruolano. Che aria tiri lo spiega bene una lettera spedita da Belluno a un soldato fascista: «Quando finirà la guerra sarà bene che non torni subito a casa, non per gli inglesi né per gli americani, ma per gli italiani stessi, specie per quelli del tuo paese, che ti faranno la pelle». Avagliano e Palmieri chiudono il libro con gli avvenimenti che seguono il 25 aprile. Ecco l’ultima resistenza degli irriducibili, ecco i rinchiusi nel campo di Coltano, dove confluiranno i militi repubblicani caduti in mano alleata, ecco le lettere dei fascisti condannati a morte. Dove finisce L’Italia di Salò, comincia Il sangue dei vinti di Gianpaolo Pansa.

(Libero, 18 aprile 2017, pag. 25)

Sottoscrivi questo feed RSS