Italiani al fronte, voci dalla guerra «giusta»

Italiani al fronte voci da una guerra che sedusse il Paese - Italiani al fronte, voci dalla guerra «giusta»
 
di Fabrizio Coscia
 
Attraverso lettere dal fronte della seconda guerra mondiale, Mario Avagliano e Marco Palmieri sfatano, nel saggio "Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte", il mito di un popolo al quale il regime fascista avrebbe imposto un conflitto senza consenso.
 
«Cara ti racconterò di nuovo i disastri che stiamo facendo perché eravamo partiti per andare a bruciare due paesi di ribelli, e così non ti spiego che strage abbiamo fatto». «In questo momento sono reduce da una spedizione contro gli ebrei comunisti, insieme al Battaglione squadristi toscano. Se tu vedessi mamma che macello abbiamo fatto». Basterebbero questi due stralci dalle lettere dei militari durante la seconda guerra mondiale (il primo dal fronte balcanico, il secondo da quello russo), per sfatare, una volta per tutte, il mito degli «italiani brava gente», fondato sulla lunga rimozione storica dei crimini di guerra commessi dal nostro esercito nelle ex colonie africane e nei territori occupati. 
Un mito che, in verità, già da qualche anno la storiografia ha cominciato a smantellare, ma su cui adesso arriva a mettere la parola fine il saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Il volume raccoglie appunto la corrispondenza dal fronte dei militari, semplici o graduati, di tutta Italia, indirizzata a parenti, amici, fidanzate, madrine di guerra, parroci, rappresentanti delle autorità locali o del partito o commilitoni. E in particolare il capitolo dedicato, nella parte centrale del libro, alla partecipazione degli italiani alla guerra ideologica e totale, fatta di crimini, razzismo e repressioni sanguinarie, lascia davvero pochi dubbi sul comportamento dei nostri soldati in guerra, con le terribili stragi in Tessaglia e Macedonia perpetrate tra il 1942 e il 1943, tra saccheggi, omicidi, furti, rapine, stupri e incendi di villaggi, per non parlare della Jugoslavia, o le giornate di «carta bianca» a Podgorica, le deportazioni e gli internamenti in Dalmazia, le rappresaglie nella campagna di Russia, l'aperto disprezzo razziale nei confronti di africani e albanesi, e non solo (non mancano nelle lettere riferimenti ai «maledetti» inglesi, agli americani «negroidi» e «dediti al vizio», ai russi «senza Dio», agli arabi «sporchi e rozzi»).
 
Queste testimonianze raccolte dai due storici non si limitano però a tratteggiare un ritratto del nostro esercito (e di noi italiani, in fondo) molto diverso da quello che decenni di retorica ci avevano abituati a concepire: il volume, infatti, nel suo lavoro di ricognizione di fonti e documenti coevi, riesce a disvelare anche il «processo di rimozione e oscuramento» sul consenso alle politiche fasciste da parte dei militari italiani, che fu invece, come risulta, pieno e convinto, almeno nel periodo esaminato, dal 1940 (anno della dichiarazione di guerra) al 1943 (alla vigilia dell'8 settembre). 
Nella corrispondenza riecheggiano spesso, da soldati di ogni grado ed estrazione sociale, concetti come patria, vittoria, gloria, eroismo, sacrificio, dovere, o motti della cultura fascista, che dimostrano tra l'altro una tenuta perfino ostinata dei militari sul consenso al regime, anche quando già tra i civili, con il perdurare della guerra, cominciava a serpeggiare un forte malcontento nei confronti di Mussolini che presto si sarebbe trasformato in aperto dissenso. Un dissenso che invece non si manifesterà mai tra l'esercito, se non sotto forma di un «lento declino del consenso», causato dalle delusioni e dai disastrosi fallimenti delle campagne militari, mai sfociato però in esplicito «antifascismo». 
E questo perché il mito della vittoria, accompagnato dal mito personale di Mussolini e della «guerra giusta» e «santa», non verrà mai meno nei mostri soldati, nemmeno di fronte all'evidenza fallimentare delle sorti belliche dell'Italia, almeno fino al 25 luglio 1943, ealla tragica deriva della guerra civile. Così non stupisce che, tra i tanti stereotipi storiografici che questo saggio contribuisce a demolire, ci sia anche quello legato al presunto antisemitismo di facciata degli italiani, voluto da Mussolini solo per compiacere Hitler.
 I documenti attestano al contrario, a fronte di qualche manifestazione di solidarietà, numerosi episodi di violenza contro gli ebrei, assalti alle sinagoghe e diffusioni di manifesti discriminatori. Valga per tutti questa inequivocabile relazione del settembre 1941, redatta dal maggiore dei carabinieri Antonio Patruno, capo del Centro del servizio informazioni militare di Trieste, nella quale si avverte che finché gli ebrei «non saranno completamente eliminati, non potremo mai sottrarci al loro controllo e di conseguenza a quello del nemico». 
 
(Il Mattino, 30 dicembre 2014)

Patria, coraggio, illusioni: le parole degli italiani dal fronte

di Fabio Isman 
 
Mica tanto «brava gente»: le lettere degli italiani mandati sui fronti della seconda guerra mondiale ne dimostrano, per un buon tratto, la sostanziale accettazione del conflitto, e di chi l’aveva voluto; le prime resipiscenze, soprattutto sulle sorti belliche, cominciano ad affiorare già verso il tardo 1940 (ma la censura le blocca: non le fa arrivare ai famigliari dei mittenti); e soltanto nelle ultime settimane del fascismo, a metà del 1943, la critica si fa più aperta. Ma prima, è quasi soltanto «vincere e vinceremo», «spezzare le reni alla Grecia », una rivalsa verso le demoplutocrazie (così vengono chiamate, perfino dai teatri di guerra).
Due bravi ricercatori, Mario Avagliano e Marco Palmieri, hanno scandagliato ogni possibile fonte, anche tra le missive che la censura ha stoppato, e ne hanno tratto un compendio e un campionario assai ricchi e doviziosi: 375 pagine d’un libro (Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943 Il Mulino ed.) che si legge tutto d’un fiato, e racconta tante singolarità.
 
L’«ora delle decisioni irrevocabili» affascina molti, e reprime ogni dubbio: anche se gli aerei, come il trimotore Savoia-Marchetti, sono solo «scatole di sardine»; anche se mancano i carri, e si va in regioni fredde vestiti di tela. Ma «tra pochi mesi sarò accanto a te»: l’italiano è ancora poco diffuso. L’attimo dell’attacco è solenne; lo è anche per Genserico Fontana, ufficiale dei granatieri che a Campo Imperatore, a luglio ’43, custodirà Mussolini a Campo Imperatore; e poi, terminerà la vita alle Fosse Ardeatine.
ANGOSCE
Si cerca di tranquillizzare chi sta a casa; dopo, saranno le angosce perché la guerra è arrivata anche nella Penisola. Se si racconta troppo, la lettera non arriva. Quando si limita soltanto alle speranze e agli slogan, invece sì. «Arriverà il giorno in cui le nostre forze e il nostro ardimento vendicheranno i nostri morti e feriti». Sarà una prolungata illusione: in Africa, in Grecia, e perfino in Russia. Caldo, «pidocchi, l’eterna scatoletta e galletta, i due litri di acqua al giorno che talora puzzano di benzina» non bastano, a lungo, per la presa di coscienza. L’Inghilterra resta la «oscena mantenuta col sangue e l’oro altrui», perché tanto profondo è stato l’indottrinamento. Anche dalla prigionia, sono in pochi ad ammettere che «sono trattato benissimo e ben curato; gli inglesi sono gentili, mi trattano in guanti bianchi, meglio degli italiani» (ma a casa non leggeranno). Va avanti così, magari con «i rossi cui far vedere i sorci verdi», fin quasi alla vigilia della disfatta: il soldato crede di essere il milite di uno scontro tra civiltà. E la sua, s’intende, è quella «giusta»: deve «imporsi ». 
Fino al 1943, i tedeschi sono «camerati» affidabili. In Russia è la svolta. «La morte è in agguato ad ogni angolo», scrive il tenente geniere Ezo Gilardino: l’indomani, non ci sarà più. Drammatici i racconti dal «generale inverno»; non ce la fa più a contenerli perfino la stessa diga della censura. 
Chi era partito con entusiasmo e convinzione, li perde. Arriva ormai ben altro, dai fronti, che gli
slogan di pochi anni prima. Non è soltanto la voglia, sempre più prorompente, di tornare a casa: comincia già l’antifascismo. Il generale Giulio Tamassia scrive che «fa impressione questo abbandono improvviso di tutti i più accesi sostenitori del fascismo»: anche dalle ceneri di una guerra assai mal combattuta, dalle sofferenze di mille soldati assai mal in arnese, sta nascendo la nuova Italia.
 
(Il Messaggero, 13 gennaio 2015)

Fascisti e contenti: tutti gli italiani vollero la guerra del Duce

La recensione di Sololibri.net
 
di Felice Laudadio
 
10 giugno 1940: la notizia delle decisioni irrevocabili entusiasma la Nazione intera, inconsapevole dell’orrore che avrebbe affrontato, debole e impreparata. Ma quell’ora segnata dal destino aveva tanti padri e tante madri, non solo Mussolini. La folla plaudente sotto il balcone di Piazza Venezia condivideva appieno la scelta di regolare i conti con le potenze demoplutocratiche che avevano mutilato la vittoria italiana del 1918. E se non era il dispetto per Francia e Inghilterra a giustificare l’approvazione, era la convinzione che Hitler aveva ormai piegato gli anglofrancesi e avrebbe fatto sua tutta l’Europa, quindi meglio stare dalla sua parte.
Gli italiani si erano cacciati in un guaio e di lì all’estate 1943 avrebbero perso la guerra delle armi (le nostre, superate e insufficienti) ma vinto quella della memoria, con la rimozione dell’entusiastico sostegno all’alleanza coi tedeschi. Lo spiegano, indagando sulla corrispondenza dei nostri militari, il giornalista Mario Avagliano e il saggista Marco Palmieri, autori di un saggio storico ampio ma accessibile, edito da il Mulino: “Vincere e vinceremo. Gli italiani al fronte 1940-43”, 376 pagine 25 euro.
 
Le lettere di soldati, graduati e ufficiali rappresentano una fonte di prima mano per verificare il consenso. Una mole ingentissima, una vera alluvione, quasi 9milioni 300mila nel solo primo anno. Per uomini di ogni età, di tutta Italia, di qualsiasi livello culturale e sociale, comunicare con mogli, fidanzate, genitori, parenti, amici, madrine di guerra era una necessità primaria, come il rancio, come le munizioni, come la vita stessa.
La guerra della memoria, per Avagliano e Palmieri, è quella guerra civile del ricordo, delle celebrazioni e degli studi, che ha dirottato l’attenzione sulla lotta di liberazione, mettendo in ombra l’adesione alle guerre fasciste, come se non facessero parte della storia nazionale e non vi fosse stata una fervida partecipazione popolare alle politiche aggressive del regime. Come se avessero subito l’oppressione mordendo il freno. Questo vale per il 1944 e ancora più per il 1945, ma non certo per gli anni fino al 1940, quando il piglio guerrafondaio mussoliniano eccitava militari e civili ed era sostenuto da tutti, per primi gli industriali e compresi i cattolici.
Nelle lettere, con sorpresa anche per la censura, l’adesione al fascismo e al conflitto risultano l’atteggiamento prevalente, insieme alla convinzione in buona fede della bontà della causa per cui si combatteva. I militari lontani sembrano nonostante tutto più motivati dei connazionali a casa, soggetti a disagi e privazioni meno facili da accettare, per non dire dell’effetto demoralizzante dei bombardamenti dell’aviazione alleata sulle città.
La guerra, del resto, quale atto eroico per difendere la Patria, la famiglia ed anche la fede cristiana, era stata inculcata dal regime in generazioni di italiani dalle scuole elementari. Concetto ben accolto anche dalla Chiesa, ribadito dall’oratorio al catechismo, finanche dal pulpito. È da sfatare, quindi, l’opinione che il consenso al fascismo declinasse presto tra i militari. Nel 1940 era certamente plebiscitario, poi perse intensità lentamente – decadde più rapidamente tra i civili, si è detto – lo dimostrano le sincere attestazioni di fiducia nella vittoria finale e nelle italiche ragioni.
I contenuti epistolari documentano che la svolta si è avuta solo alla vigilia della fine del ventennio (25 luglio 1943). Sul Mussolini ha sempre ragione si era abbattuta l’esperienza devastante in Russia, l’ennesima tragica constatazione della debolezza del nostro apparato bellico (mancavano cannoni capaci di fermare i carri armati medi) e della violenza razzista dei tedeschi. Eppure il regime aveva fatto di tutto per nascondere i pochi sfiniti reduci dalla ritirata nelle steppe. Era riuscito quasi fino in fondo ad oscurare la verità.
Lo stesso esito, mascherare i fatti - sia pure perseguendo un risultato di segno opposto: regalare una patente antifascista alla maggioranza degli italiani - è stato conseguito dalla rimozione nazionale dell’altra verità: fino a poco prima erano stati tutti fascisti e contenti.
 
(Sololibri.net del 15 gennaio 2015)

Quando eravamo fascisti

(Mario Avagliano – Marco Palmieri, Vincere e vinceremo!, Il Mulino, Bologna, 2014) 
 
di Andrea Rossi
 
Avagliano e Palmieri proseguono il lavoro di scavo nella storia dell’Italia fascista, e dopo aver illustrato nel loro precedente studio quanto fossero diffusi e radicati gli stereotipi razzisti nel nostro paese, gettano ora una luce sinistra sul “comune sentire” degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, attraverso l’indagine della corrispondenza inviata da tutti i fronti di guerra dal 1940 al 1943. L’affresco che ne emerge è impietoso, fin dal titolo, quel “vincere e vinceremo” con cui decine di migliaia di italiani chiudevano le proprie missive dall’Africa come dalla Russia o dai Balcani; una locuzione che nessuno obbligava a inserire nella propria corrispondenza privata, e che rivela quanto gli italiani in larghissima parte fossero entusiasti dell’entrata in guerra del paese, mutuando spesso dalla propaganda fascista i temi e la retorica. 
 
Il mito del presunto e progressivo distacco dal regime mussoliniano fin dai primi rovesci sul fronte albanese e africano, è ampiamente smentito dall’accurata indagine degli autori: i nostri soldati combatterono, soffrirono e morirono non per un Italia qualsivoglia, ma per l’Italia fascista, come emerge da un numero impressionante di lettere; la fede nella vittoria restò inscalfibile almeno fino alla fine del 1942, così come l’adesione totale alle versioni di comodo della propaganda ufficiale: su tutto ci restano impressi gli scritti dei componenti del nostro corpo di spedizione in Unione sovietica, i quali, più che manifestare entusiasmo per sopravvissuti all’inverno russo, parevano realmente convinti di aver assestato durissimi colpi all’armata rossa, tanto da attendere nel giro di qualche mese il crollo del regime comunista. 
Se già in diversi studi dell’ultimo decennio si era ben compreso che la nostra occupazione nei Balcani era stata tutt’altro che “allegra”, impressionano le narrazioni delle operazioni contro i partigiani di Tito, da cui emerge un abbruttimento morale delle nostre truppe davvero sconcertante; così come lascia sgomenti l’insensibilità diffusa alla sofferenza delle popolazioni civili vittime della nostra brutalità. 
Se il 1943 è l’anno di svolta delle vicende belliche, i segnali di insofferenza diffusa iniziarono a comparire soltanto dopo la catastrofe nel teatro di guerra dell’Africa settentrionale e – soprattutto – dopo il rientro dei reduci dalla campagna di Russia; comunque, ancora dopo la caduta del regime, una consistente minoranza delle nostre forze armate restava convinta della necessità di proseguire a oltranza la guerra assieme ai nazisti, confermando come le motivazioni di molti dei futuri aderenti alla RSI fossero preesistenti all’armistizio dell’8 settembre. 
In conclusione, il lavoro di Avagliano e Palmieri si rivela fonte preziosa per arricchire il dibattito storico attorno alla guerra degli italiani, sfrondandolo da versioni oleografiche che, davvero, a settant’anni dalla fine del conflitto non hanno più ragione di esistere; fa riflettere semmai come il mito degli “italiani brava gente” è tuttora duro a morire. Evidentemente l’autoassoluzione collettiva è una delle scorciatoie per affrontare il passato. E anche il presente.
 
(Orientamenti Storici, 26 gennaio 2015)

Vincere e vinceremo, lo specchio dell'Italia fascista che fu

di Enrico Zuccaro

Con Vincere e Vinceremo, l’ormai collaudato binomio Avagliano-Palmieri prosegue nella sua opera di rigorosa revisione della nostra storia nazionale per troppo anni intrisa di tanta retorica e luoghi comuni.
Tra questi ultimi quello secondo cui  gli italiani non vollero  e sopportarono a malincuore la decisione del fascismo di entrare in guerra nel 1940 a fianco dell’allora Germania nazista.
In realtà le cose andarono diversamente, perché tanti italiani vollero la guerra, salvo poi pentirsene, come gli autori dimostrano non attraverso l’analisi dei documenti ufficiali, bensì tramite una lettura attenta, critica e ben contestualizzata di centinaia di lettere di combattenti, relazioni di polizia, carabinieri, spie e fiduciari dell’ occhiuto apparato repressivo del regime fascista.
La storia propostaci dagli autori è quindi una storia scritta più che mai dall’interno, una storia di  donne e uomini che combatterono e soffrirono tra il 1940 ed il 1943, UNA STORIA POTREMMO DIRE “EMOTIVA”, come  ci suggerisco gli autori nella loro introduzione,  ma che sin dalle prime pagine assume l’autorevolezza di un analitico saggio sull’opinione pubblica degli italiani di allora.
 
Va da sé che ciò che gli autori ci propongono è quanto risulta dall’esame di  posta accuratamente passata al vaglio della censura, come avveniva, per ovvi motivi di sicurezza, in tutti gli eserciti di allora.
Nondimeno il quadro che ne risulta spicca per originalità  di analisi e per veridicità.
In nove capitoli  per un totale di 313 pagine, gli autori ripercorrono i tre anni e tre mesi che intercorrono dal 10.06.1940 (entrata in guerra)  alle giornate del 25.07. ed  8.09.1943, che notoriamente segnano la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio con gli Alleati.
Grazie alla lettura della corrispondenza inviata dai militari, gli autori scandagliano l’animo degli italiani che in 3 anni e tre mesi appunto passano dall’adesione entusiastica alla guerra, alla disillusione, al malcontento ed infine alla avversione ed all’ antifascismo.
E la posta- da sempre considerata forse in chiave troppo sentimentale solo come momento di malinconico sfogo e di struggente  nostalgia- diviene invece specchio di un intero paese, suggerendo al lettore numerose chiavi di lettura.
La prima, intorno a cui ruota un po’ tutto il libro, è quella dell’analisi dei molteplici aspetti del  consenso al regime,  e soprattutto al suo capo. Un consenso chiaramente indotto, diremmo fabbricato (come dalla nota monografia di Cannistraro; “La fabbrica del consenso”) da diciotto anni di propaganda martellante, attuata dal PNF, dal regime e dalle sue organizzazioni satelliti (dopolavoro ecc.) in una sorta di tentativo di controllo di ogni settore della vita degli italiani.
Un consenso in cui però non mancano note di sincera ammirazione, talvolta sconfinanti in un vero e proprio culto della personalità di Mussolini, DESTINATARIO DI MOLTE LETTERE DI SOLDATI e visto come il capo indiscusso e indiscutibile, che ha sempre ragione  che non sbaglia mai e che soprattutto, quando le cose vanno male su qualsiasi fronte, è ignaro di quanto sta accadendo perché incolpevole vittima degli inganni dei gerarchi e sottoposti.
Dall’esame delle lettere riprodotte nel testo scaturisce, ancora, con chiarezza cristallina, la periodizzazione del consenso al regime ed il suo progressivo deteriorarsi, il suo andamento ondivago perché connesso alle mutevoli sorti degli eventi bellici, sin dai primi mesi di guerra infauste per le armi italiane.
Gli umori che traspaiono da  quanto scrivono  i nostri soldati non sfuggono agli zelanti censori, né  ai Carabinieri, né alla polizia, né ai servizi segreti. Mai i loro rapporti, che pure giungono sino alle più alte sfere del regime fascista, pensiamo ai cosiddetti “Promemoria per il duce” nulla producono, all’ infuori della segnalazione  di questo o quel militare alle competenti autorità di polizia o al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Una seconda chiave di lettura- strettamente connessa alla prima -   è quella relativa alle opinioni che i nostri militari hanno dei loro nemici, così come le troviamo espresse nelle  loro lettere.
Smentendo, qualora ce ne fosse  ancora bisogno, l’adusato cliché dell’italiano buono contrapposto al tedesco cattivo, l’immagine del nostro soldato che traspare dalle lettere riportate nel testo è quello di un soldato razzista con il nemico, che talvolta ammira il crudele alleato tedesco, che è  antisemita e consapevole di tanti stragi perpetrate dai nazisti, anticomunista, o meglio antibolscevico e  feroce col nemico (lettera del lanciafiammista), specie  nella repressione anti partigiana.
(A dire il vero si era razzisti anche in altri eserciti; tra gli altri anche in quello americano, specie sul fronte del Pacifico, nei confronti dei giapponesi).
A questi due ultimi riguardi (anti bolscevismo e repressione anti partigiana) va riconosciuto al libro un elevato valore storico-documentale, specie  nei capitoli dedicati alla guerra in Russia ed ai crimini di guerra, non a caso forse tra i più estesi dello intero volume.  Sono pagine che ci hanno riportato alla memoria gli scritti  dolentissimi di “Italiani senza onore”  di Costantino Di Sante; di “Qui si ammazza troppo poco” di Gianni Oliva, e del più recente “L’Occupazione italiana dei Balcani”, di Davide Conti. Pagine dalle quali l’onore delle Armi italiane esce indelebilmente macchiato ma che aiutano a fare senza reticenza alcuna  i cosiddetti conti con il passato, cosa che noi italiani non abbiamo ancora fatto completamente.
 
Una terza chiave di lettura è quella relativa alle manipolazione delle coscienze che emerge chiaramente in tante lettere, talvolta con toni anche grotteschi ma che testimoniano del  lavaggio cerebrale subito da taluni nostri soldati.
E così capita di leggere di militi che credono alle bombe avvelenate lanciate dal nemico o che dopo la loro eventuale morte chiedono, dopo la cremazione, di caricare un proiettile con le loro ceneri e di utilizzarlo contro il nemico.
In quest’ottica vanno analizzate, in particolare, le lettere che arrivano dal fronte russo, dove tanti soldati credono di combattere una guerra santa, contro un nemico senza Dio e perciò barbaro e sacrilego (un po’ come il  “Dio lo vuole” delle crociate ed il Got mit uns tedesco).
 
Una ultima chiave è quella di carattere più spiccatamente sociologico.
L’ampio campione di scritti riportati dagli autori, conferma, purtroppo,  che il livello di istruzione media del fante italiano era la seconda elementare.
Da qui errori e strafalcioni di ortografia che caratterizzano tutte o quasi le lettere dei nostri soldati.
Soldati che continuano ad  indirizzare tante loro missive  ai parroci dei loro comuni di residenza, così come facevano venti anni prima, durante il primo conflitto mondiale i loro genitori, perché a casa nessun altro sapeva leggere.
E ciò suona a conferma del non innalzamento dei livelli di alfabetizzazione degli italiani, specie nelle zone rurali e nonostante i 20 anni di un regime, nelle parole molto vicino al suo popolo, nei fatti poco attento all’istruzione del medesimo.
A proposito delle lettere indirizzate ai parroci, c’è un ulteriore aspetto che merita di essere sottolineato: l’organicità di parte del clero al regime fascista, organicità tradotta spesso in incoraggiamenti rivolta ai soldati, specie a quelli attivi sul fronte russo.
La  lettura sociologica della posta dei nostri soldati si rivela particolarmente interessante, laddove si esamina il circuito di comunicazione Fronte di combattimento- Fronte interno. E qui paradossalmente si scopre che  in tantissimi  casi, non è dalle mura domestiche che giunge conforto ai nostri soldati, ma che sono piuttosto questi ultimi, talvolta con incrollabile fede nella vittoria finale, a dare sostegno a chi è rimasto a casa.
E ciò la dice lunga sulla qualità del consenso  al regime; una qualità che impallidisce, di fronte alla tenuta del fronte interno della Germania hitleriana, mantenutosi  granitico sino quasi alle ultime settimane di guerra.
 
Altro interessante spunto di riflessione, ancora  in chiave sociologica, è quello che si trae dai giudizi sugli americani e conseguentemente sul loro esercito, espressi nelle parole dei nostri soldati.
Benché timorosi della eventualità di scontrarsi con parenti od amici emigrati oltre oceano, i nostri militari  vedono nei loro coetanei statunitensi degli “sciampagnoni” ), infiacchiti dalla vita comoda (si vedano in proposito tanti brani del Diario  di Ciano), un po’ come gli omologhi inglesi, definiti con disprezzo  “popolo dei 5 pasti”. Si tratta , ovviamente di giudizi intrisi di sconsiderata superficialità.
Dolenti, ancora sul versante sociologico, i tanti accenni al malcostume della corruzione, presenti in tante missive di militari che lamentano la violazione a scopo di furto dei pacchi loro inviati.…  
 
Gli  ultimi  3 capitoli del libro sono i capitoli della disillusione, della sconfitta e della presa di coscienza del tradimento ordito dal fascismo contro l’Italia.
I terremoti indotti dalle sconfitte in terra d’Africa e tanto più in Russia, avevano già svelato a tutti l’inadeguatezza del nostro apparato militare dietro il quale, lo sappiamo tutti, c’è sempre un apparato politico. Tali inadeguatezze risaltano ancor più quando gli Alleati sbarcano i  Sicilia provocando in pochi giorni la caduta del regime.
Nonostante tutto, anche  dopo il 25 luglio ed il conseguente sbando, dalle lettere dei nostri militari traspare un sincero e commovente  amor di Patria, una fiducia ingenua, fino ad apparire quasi inquietante nella ripresa del nostro esercito sotto la guida del maresciallo Badoglio, successore di Mussolini dopo esserne stato complice.
Eppure  tale amor di Patria  non manca di suscitare  ammirazione e rispetto.
Giunti all’ ultima pagina del libro, chi vi parla ha più volte ripercorso le tante note a matita vergate e i tanti interrogativi suscitati da Avagliano e Palmieri, convincendosi che “Vincere  e vinceremo” è un libro che non può mancare nella biblioteca degli appassionati di storia. Un libro cui auguro tutta la fortuna che merita. 
 

(Relazione letta in occasione della  presentazione del volume svoltasi a Ceccano il 31 gennaio 2015)

Vincere e vinceremo! - La recensione del Sole 24 Ore Domenica

LA BIBLIOTECA 

 

di Giorgio Dell'Arti 

 

Soldati di stanza in Africa 

 

Assalto. «Caro Mario, con ogni probabilità domani mattina all'alba si va all'assalto; se la va bene sarà una magnifica esperienza di vita, se la va male farò la morte più bella che un italiano di vent'anni oggi possa fare» (lettera al fratello del lombardo Cesare Tosi, caduto a vent'anni in Albania, il 20 gennaio 1941).

Lettere. Durante il primo anno di guerra, 9.285.000 lettere. 

Censura. Gli uomini impiegati a controllare la corrispondenza esaminavano mediamente 150-200 lettere al giorno. 

Tipologie. Le lettere potevano essere bollate come "ammesse in corso", "ammesse in corso dopo censura parziale", da "sequestrare", da "incriminare". 

Cretino. Scrive il capitano Luigi Guerrieri Gonzaga dell'artiglieria a cavallo il 21 febbraio 1942: «Mi secca molto che un cretino di censore abbia sporcacciato tutta una mia lettera per te; deve essere un gran fesso quel tale e gli farebbe bene un po' di Russia vorrei ritrovarlo quando rientreremo in Patria. lo sono sicuro di quanto scrivo; non metto mai nulla che possa anche lontanamente servire di indicazione o comunque essere "pericoloso"».

Familiari. I soldati, soliti rassicurare i propri familiari attraverso formule ricorrenti: «Sto bene», oppure «Non pensate a me» spesso accompagnate da invocazioni di tipo religioso. 

Mussolini. Dal 1941, «Mussolini non lo sa» o «se la sapesse Mussolini».

Negroidi. I «maledetti» inglesi, gli americani «negroidi» e «dediti al vizio», i russi «senza Dio», gli arabi «sporchi e rozzi». 

Inglesi. Gli inglesi, «i maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti», «soldati dai cinque pasti e dalla pancia troppo piena», «audaci fresconi che l'illusione ha voluto per un po' vittoriosi».

Tedeschi. Da una relazione del Comando generale dei Carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all'apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche».

Rapporto. Dalla lettera alla famiglia di un militare temano di stanza in Africa, datata 24 febbraio 1942, che di fronte alla richiesta di redigere un rapporto sul morale delle truppe, dopo aver lamentato che il partito chiede il pagamento della tessera anche ai militari richiamati e inviati al fronte, così si sfoga: «Vengano un po' a domandare ai nostri soldati ed avranno una risposta più che esauriente. È naturale che il rapporto non potrà che dire le solite cose; ma vengano pure tra i soldati e sentiranno. Posta che non arriva, pacchi che sono in giro da mesi e di cui non si ha notizia; se qualcuno ne arriva è ridotto al solo involucro; giornali che vengono distribuiti una volta al mese; un pasto al giorno, cotto al mattino alle io e mangiato alle 2 del pomeriggio. Tutto questo potrebbero rispondere i nostri soldati se venissero interrogati; ma siccome non lo saranno mai, tutto questo rimane sconosciuto e si parlerà soltanto dello spirito di sacrificio e del morale altissimo del soldato italiano». 

Guerra. «Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall'Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d'università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché credettero che l'avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra [...] Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l'Italia non è responsabile» (Gaetano Salvemini, Lettera a E. Rossi e L. Valiani, io agosto 1946). 

 

Notizie tratte da: Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, Il Mulino, Bologna, pagg. 376, euro  25,00.

 

(Il Sole 24 Ore, Domenica, 29 marzo 2015)

Come e perché Mussolini e le sue guerre ebbero tanta popolarità

Introduzione alla presentazione del libro “Vincere e Vinceremo” 

 

di Massimo Taborri

Circolo Culturale Montesacro, 11 aprile 2015

 

 - Prima di entrare nel merito della pagine del bel libro “Vincere e Vinceremo”, Gli italiani al fronte tra il ’40 e il ’43, ho pensato di aprire insolitamente questa mia introduzione con una breve notazione di carattere familiare che non mi pare stonata nel contesto delle cose di cui parleremo, perché se avessi saputo che Mario Avagliano e Marco Palmieri stavano lavorando ad un’opera così vasta e approfondita – come quella che presentiamo oggi – avrei volentieri messo a loro disposizione un piccolo archivio di famiglia, formato da 24 lettere scritte da un mio parente, uno zio che portava il mio stesso cognome Taborri, che ha concluso la sua esistenza in Russia durante la tragica ritirata dei primi mesi del ’43.

 

 - Un ragazzo di 20 anni, Otello, chiamato subito a combattere sulle Alpi Occidentali, sul confine francese, poi in Grecia e quindi in Russia con la Divisione Tridentina

 

 - Tra queste lettere ce n’è una spedita dal Moncenisio che porta la data del 20 giugno ’40. Sono dunque i giorni della guerra con la Francia, quelli della famosa pugnalata alla schiena (visto che – come è noto - l’esercito tedesco aveva già piegato l’Armata francese entrando il 14 giugno a Parigi), durante i quali l’esercito italiano arrivò a Mentone e in poche altre località delle prime valli francesi, appena al di là delle Alpi.

 

 - La guerra dichiarata da Mussolini il 10 giugno del ’40 che, sul fronte francese, impegnò i reparti italiani solo per 4 o 5 giorni, visto che le operazioni militari praticamente presero avvio intorno al 20 giugno e appena cinque giorni dopo fu firmato dalla Francia, a Parigi, l’armistizio con le potenze dell’Asse.- “Cara mamma, non allarmarti se siamo vicini alla Francia - scrivevo mio zio a 2.500 metri di quota – noi restiamo sempre indietro (Otello era un radiotelegrafista addetto al Comando di Divisione che, in effetti, restava un po’ indietro dalle prime linee, ma può anche darsi che scrivesse questo per non impensierire a casa, n.d.r.) e poi ormai si può dire che la Francia è finita, infatti da più notti non si sente nemmanco un colpo d’Artiglieria.” E aggiungeva: “ avrei però da chiederti un favore, dovresti mandarmi un paio di calze pesanti, possibilmente nere o grigie verdi, che qui ai piedi si sente molto freddo, addosso no perché ho il maglione militare ma ai piedi non ho che calze fine, se puoi mandarmele al più presto possibile mi farai un gran piacere”.

 

- Sul Moncenisio, anche nel mese di giugno, la temperatura soprattutto di notte scende vari gradi sotto lo zero. Dunque indossare un paio di calze di lana sarebbe stata una gran fortuna, ma quelle calze dovevano essere rigorosamente nere o grigio verdi perché, in caso contrario, non avrebbe potuto utilizzarle.

 

- La guerra con la Francia, come dicevo, durò pochi giorni eppure costò tra soldati e ufficiali oltre 600 morti, oltre 600 dispersi e più di 2.600 tra feriti e congelati: naturalmente congelati… ai piedi. Il dato è conosciuto da storici e studiosi ed è richiamato nel libro di M. A. e M. P., ma non è forse poi così noto al grande pubblico.

 

- Per entrare ora nel merito del libro mi pare che il suo significato sia ben raccolto e spiegato nell’epigrafe che è stata scelta dagli autori a presentazione dell’opera. Si tratta di una lettera di Gaetano Salvemini dell’agosto ’46 scritta dagli USA e indirizzata a Ernesto Rossi e Leo Valiani.

 

- Salvemini fu un socialista un po’ atipico, un antifascista costretto all’esilio in Francia, un accademico che negli anni ’30 se ne andò poi negli Usa, per insegnare ad Harward. Per tornare in Italia solo nel lontano ’49:  

- “Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, glia alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d’università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché cedettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra (…). Anche se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non bisogna dimenticare che una larga parte seguì Mussolini, e che fra esse Mussolini godé di una larga popolarità dopo la vittoria nella guerra in Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco. E se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo. Questa è la verità (...). Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile”.

 

- E forse non è un caso che parole tanto esplicite siano state scritte da un uomo lontano dalle polemiche politiche che infiammarono gli anni del dopoguerra.

 

 - L’obiettivo del libro è dunque questo: capire come e perché Mussolini e le sue guerre ebbero tanta popolarità e di quali elementi ideologici, emotivi e psicologici, questo consenso si alimentava. Un obbiettivo importante visto che nella pubblicistica e nella letteratura del dopoguerra vi è stata – come si spiega nell’introduzione – una sostanziale rimozione delle responsabilità nazionali rispetto alle guerre italiane, quasi sempre definite guerre fasciste, con un evidente intento di autoassoluzione da parte di tutti coloro, la grande maggioranza, che avevano accolta la guerra con esultanza e convinzione, senza essere necessariamente ed entusiasticamente fascisti.

 

 - D’altra parte, come era in parte inevitabile, gli eventi successivi all’armistizio dell’8 settembre del ’43 e il riscatto rappresentato dall’epopea partigiana che da quella data cominciò a svilupparsi, hanno messo in ombra il grado di consenso popolare, lo slancio e l’entusiasmo con cui gli italiani, avevano, prima dell’8 settembre, preso parte alla mobilitazione e alla guerra.

 

 - Il libro si incarica, quindi, di affrontare questa zona un po’ opaca della storia del popolo italiano, nel modo più efficace ed incontrovertibile: e cioè esaminando le migliaia di lettere da e per il fronte, i diari scritti da ufficiali e soldati, le relazioni indirizzate alle varie autorità, Duce compreso, dalle commissioni militari di censura che passavano al vaglio tali lettere, tutta quella che potremmo definire la letteratura coeva e proprio per questo più autentica e rappresentativa dei sentimenti diffusi.

 

 - Ne emerge un mosaico piuttosto persuasivo della dimensione ampia e radicata delle motivazioni con cui con cui gli italiani guardarono alla guerra, sia da parte del cosiddetto fronte interno (le famiglie a casa) sia da parte del fronte esterno (coloro che combattevano in prima linea), con poche o nessuna differenza tra i vari quadri d’operazione: i Balcani e la Grecia, l’Africa e poi la Russia. Un consenso che - diversamente dai proclami mussoliniani sull’efficacia delle nostre armi – assunse, di fronte alla prime serie difficoltà operative, un andamento sinusoidale, sulla base dei successi o degli insuccessi della guerra, ma che iniziò seriamente a vacillare solo nei primi mesi del ’43, dopo Stalingrado e l’arretramento italiano in Tunisia, seguito alla sconfitta italo-tedesca di El Alamein.

 

- Un consenso alla guerra che nonfu però solamente frutto della propaganda del regime ormai ventennale, o della smisurata e fideistica ammirazione attribuita al suo capo, e neppure semplicemente frutto delle promesse imperiali del fascismo, che - come si sa - rivendicava all’Italia il diritto della nazione giovane ed emergente ad una diversa distribuzione delle risorse nel quadro internazionale, oltreché il suo naturale primato all’egemonia nei Balcani e nel Mediterraneo.

 

 - Perché si trattò di un consenso ideologico derivato anche da motivi più atavici, legato per es. alla tradizione cattolica del Paese, che alimentava o perlomeno giustificava la guerra in Russia come crociata antibolscevica ed antislava. Non erano pochi alpini e fanti che scrivevano ad es. direttamente a parroci e curati delle località da cui provenivano, e da questi ricevevano risposte di incoraggiamento a continuare nella loro azione anche in nome di Dio. Per non parlare della questione della persecuzione e della deportazione razziale nelle zone occupate dall’esercito italiano su cui di certo si soffermeranno gli autori. O anche del capitolo riguardante la repressione contro partigiani e popolazione civile messa in opera dall’esercito italiano in Grecia o in Jugoslavia.

 

 - Così come non mancò, nelle motivazioni che spinsero ufficiali e soldati ad operare in Russia, come in Africa o in Grecia – in condizioni davvero proibitive – il semplice amor di patria, la volontà di fare fino in fondo il proprio dovere, di dimostrare la propria coerenza, soprattutto dopo che si erano veduti via via morire centinaia di commilitoni, spesso amici con cui sui erano condivisi così tanti sacrifici. Proprio come era accaduto ai propri padri nella prima guerra mondiale, al cui esempio molti si richiamavano.

 

 - Tutto questo consenso – come sentiremo – comincerà a declinare solo nei primi mesi del ’43 e soprattutto con l’occupazione anglo americana della Sicilia del luglio ’43. Il fattore fondamentale che – come si sa - determinò la caduta di Mussolini. Un evento, questo della caduta del Duce, che vide le piazze di tutta Italia riempirsi di una gran folla esultante ed eccitata, quando il peggio doveva ancora venire. Un entusiasmo straripante che aveva le sue legittime motivazioni, ma che non convinceva del tutto un uomo come Nuto Revelli, appena tornato dalla drammatica ritirata dalla Russia, che assiste, convalescente, dalle finestre della propria casa di Cuneo a queste manifestazioni di gioia e crede di vedere in tale generale esultanza, i segni della solita tendenza endemica al trasformismo, tipica del popolo italiano, di una inclinazione al conformismo e al gattopardismo, di una eccessiva facilità all’emozione piuttosto che alla riflessione. Caratteristiche senza considerare le quali – a mio giudizio – non si spiegherebbero neppure diversi passaggi, apparentemente incongruenti, che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese anche nei decenni successivi. E scrive Revelli annotando sul suo diario in quei giorni:

- “è caduto il fascismo, viva l’esercito, viva Badoglio, hanno gridato stanotte in Via Roma. Ho risposto con un urlo, come se mi avessero ferito: Che confusione! Odio con tutte le mie forze i tedeschi, disprezzo i fascisti, i gerarchi imboscati, corrotti, vigliacchi. Ma i morti, i nostri poveri morti di Russia, non mi danno pace. Morti per nulla, proprio come se la Patria non esistesse più. Si grida abbasso il fascismo, viva l’esercito. Ma quale esercito! Quello dei morti per nulla,quello dei vivi che non sanno più per che combbattere. Volevo scendere stanotte. Forse mi sarei fatto picchiare. E più avanti:”Vedo i cortei, sento i discorsi: voglio vedere e sentire tutto. Riconosco troppi fascisti di ieri. Più fascisti erano ieri più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano”.

 

 

 - Gli amici Mario Avagliano e Marco Palmieri lavorano insieme e con successo ormai da diversi anni. Giornalisti e storici entrambi hanno prodotto sempre col solito metodo del ricorso alla letteratura coeva, negli ultimi anni una serie di opere, a mio giudizio, preziose:

 - 1) Di pura razza italiana, un libro che rappresenta un documento sulle reazioni degli italiani di fronte alle leggi razziali. Una storia di indifferenza, complicità e opportunismo, accanto ad episodici casi di solidarietà. Un libro che sarà presto tradotto e pubblicato in Germania.

 - 2) Voci dal lager, un libro basato sulle lettere dei deportati politici dal lager (che abbiamo presentato con Marco Palmieri anche in questa sede).

 - 3) Gli internati militari italiani, la vicenda, prima scarsamente conosciuta, degli oltre 600 mila militari italiani chiusi nei lager nazisti, che si rifiutarono di collaborare col nazismo e la RSI.

 

La registrazione della presentazione

Il partigiano Montezemolo

Il partigiano Montezemolo

PREMIO FIUGGI STORIA 2012 e PREMIO "De Cia" libri storia militare

- GIA' ALLA SECONDA EDIZIONE -

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(Dalai, 416 pagine, 22 euro)

Una biografia minuziosa e commovente del capo della resistenza militare dell’Italia occupata, che agiva nella Roma del 1943-44 e morì alle Fosse Ardeatine. Da uno storico affermato, un saggio che colma una lacuna nella storiografia sulla Resistenza.

Il libro si è aggiudicato il Premio “Fiuggi Storia 2012”, promosso dalla Fondazione Levi-Pelloni, come migliore biografia dell’anno, e il Premio “Gen. Div. Amedeo De Cia”, promosso dall’Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, per i saggi di storia militare.

Un mese dopo la liberazione di Roma, il generale Alexander, capo delle Forze Alleate in Italia, inviò una lettera privata alla marchesa Amalia di Montezemolo, moglie del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo esprimendole profonda ammirazione e gratitudine per l’opera del marito.

Chi era questo colonnello di origine piemontese e di nobile lignaggio (imparentato con Luca Cordero di Montezemolo), ufficiale dello Stato Maggiore dell’Esercito, segretario particolare di Badoglio dopo il 25 luglio 1943, e quale ruolo svolse il Fronte Militare Clandestino di Roma (FMCR) da lui guidato nella guerra contro i tedeschi?

La vicenda del partigiano con le stellette Montezemolo, militare di carriera, monarchico convinto, anticomunista ma in ottimi rapporti con Giorgio Amendola, costituisce un esempio significativo sotto diversi aspetti di come la storiografia abbia per troppo tempo oscurato o sottovalutato personaggi e movimenti della Resistenza di matrice moderata.

Colmando tale lacuna, questo saggio ricostruisce la vita di Montezemolo attraverso un certosino lavoro di ricerca negli archivi dello Stato Maggiore dell'Esercito, l’intervista di vari testimoni dell'epoca, l’analisi di centinaia di documenti, saggi e libri di memoria, molti dei quali inediti o rari e introvabili, e la consultazione degli archivi familiari, dal cardinale Andrea Montezemolo alla marchesa Adriana Montezemolo fino al primogenito Manfredi e ai nipoti Carlo, Saverio e Ludovica Ripa di Meana.

Ripercorrendo le tappe della vita di Montezemolo – dalla Grande Guerra alla Guerra di Spagna, al suo ruolo nel secondo conflitto e nel colpo di stato che destituì Mussolini e poi come capo della resistenza militare in Italia e a Roma, fino alla tragica morte alle Fosse Ardeatine – il libro contempera l’efficace ritratto storico del Paese con la commovente storia familiare di un padre, marito e militare, descrivendo con efficacia l’abbaglio di una generazione di italiani per il fascismo e il loro riscatto durante la Resistenza.

La biografia è corredata da alcuni documenti e da un apparato iconografico di fotografie del personaggio e dei familiari.

 

Paolo Mieli, Corriere della Sera: "Un libro esaustivo sulla figura di Montezemolo".

Aldo Cazzullo, Corriere della Sera: "Una biografia che non indulge mai alla retorica o all’agiografia, tenendo ferma la barra di una ricostruzione puntuale e documentata in ogni dettaglio, come è testimoniato dal ricco apparato di note. Ne viene fuori un libro di storia scritto con il rigore dello specialista e con freschezza narrativa. Insomma, un 'romanzo' non romanzato, che svela un eroe italiano di prima grandezza, che se non fosse stato trucidato alle Fosse Ardeatine, sarebbe stato senza ombra di dubbio un protagonista dell'Italia del dopoguerra".

Mimmo Franzinelli, storico: "Questa documentatissima biografia rimedia a un’ingiustificata trascuratezza e reinserisce la figura di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo nel circuito storiografico, quale organizzatore militare della Resistenza nella capitale. E ne presenta l’intero arco della breve e intensa vita, nell’ambito familiare come negli aspetti professionali".

 

pallanimred.gif (323 byte) La scheda del libro sul sito della Dalai

pallanimred.gif (323 byte) Il servizio sul libro del Tg1 Storia di Roberto Olla (6 agosto 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il filmato della presentazione de "Il partigiano Montezemolo" a Milano (22 maggio 2012) con Paolo Mieli, Mimmo Franzinelli, Dino Messina e Mario Avagliano

pallanimred.gif (323 byte) Servizio sulla presentazione de "Il partigiano Montezemolo" a Roma (30 maggio 2012) con Aldo Cazzullo

 

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LE RECENSIONI (quotidiani, agenzie e periodici nazionali)

pallanimred.gif (323 byte) Giuseppe Montezemolo. Il partigiano con le stellette, Corriere della Sera, di Aldo Cazzullo (10 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Montezemolo. Il colonnello partigiano che volle riscattare il re, Il Messaggero, di Mimmo Franzinelli (11 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il capo partigiano nelle mani di Kappler, Il Mattino, di Mario Avagliano (13 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il partigiano Montezemolo e la Resistenza tradita, Il Venerdì di Repubblica (13 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Libri: Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo, AGI (14 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Editoria: con "Il partigiano Montezemolo" va in scena l'altra Resistenza, Omniroma, di Giuseppe Musmarra (21 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Risarcimento alla memoria del partigiano Montezemolo, l'Osservatore Romano, di Gaetano Vallini (25 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Partigiano Montezemolo per la patria e per il Re, La Stampa, di Michele Brambilla (25 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) La lotta di Montezemolo, il patriota non partigiano, Il Giornale, di Mario Cervi  (25 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Montezemolo: i veri esclusi dalla Festa della Liberazione, Europa, di Federico Orlando (25 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) La stanza di Mario Cervi - Il realismo dell'eroe Giuseppe Montezemolo, Il Giornale, di Mario Cervi  (29 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Tutta un'altra Resistenza. Un colonnello scomodo, Orientamenti Storici, di Andrea Rossi  (29 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il partigiano con le stellette, Ansa, di Gabriele Le Moli (4 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) La resistenza dimenticata dei 'patrioti', Avvenire, di Antonio Airò  (8 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) A Montezemolo, con fraterno affetto, L'Espresso, di Denise Pardo  (10 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, un eroe dimenticato, blog Corriere della Sera, di Dino Messina (24 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Un eroe dimenticato, La Nazione, di Maria Rita Parsi (30 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Un eroe dimenticato, Il Giorno, di Maria Rita Parsi (30 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Un eroe dimenticato, Il Resto del Carlino, di Maria Rita Parsi (30 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Montezemolo, l'eroe dimenticato, Pagine Ebraiche, di Mario Avagliano  (giugno 2012)

 

 

LE RECENSIONI (portali web e quotidiani locali)

pallanimred.gif (323 byte) L'eroico Cordero Lanza di Montezemolo, Ciociaria Oggi (14 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) La biografia di un eroe dimenticato della Resistenza, l'Indro, di Annamaria Barbato Ricci (25 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il patriota Montezemolo. Intervista a Mario Avagliano, Il recensore.com, di Alessandra Stoppini (23 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il partigiano Montezemolo eroe dimenticato, Il Quotidiano di Calabria (21 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Montezemolo. Un eroe italiano, La Sicilia, di Anna Asero (28 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Frignani e il Fronte clandestino, La Voce di Romagna, di Aldo Viroli (28 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, un partigiano dimenticato, La Gazzetta di Lucca, di Silvia Toniolo (29 aprile 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Montezemolo, eroe dimenticato della Resistenza, Il Giornale di Vicenza (6 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Montezemolo, eroe dimenticato della Resistenza,  Bresciaoggi (6 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Il partigiano Montezemolo, La Provincia di Cremona (7 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Resistenza grigioverde, La Gazzetta del Mezzogiorno, di Michele Pacciano (21 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Quel Montezemolo partigiano dimenticato, Lettera43, di Maria Rosaria Iovinella (29 maggio 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Avagliano ed 'Il Centro del fiume' svelano la Resistenza sconosciuta, La Provincia di Frosinone (7 giugno 2012)

pallanimred.gif (323 byte) Grande successo per 'La resistenza nella Roma occupata 1943-44', Ciociaria Oggi (9 giugno 2012)

 

pallanimred.gif (323 byte) L'autore

Mario Avagliano, giornalista e storico, è membro dell'Istituto Romano per la Storia d'Italia dal Fascismo alla Resistenza (Irsifar), della Società Italiana per gli Studi di Storia Contemporanea (Sissco) e del comitato scientifico dell’Istituto “Galante Oliva”, e direttore del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio. Collabora alle pagine culturali de «Il Messaggero» e de «Il Mattino». Ha pubblicato tra l’altro: Muoio innocente. Lettere dei caduti della Resistenza romana (Mursia, 1999); Generazione ribelle. Diari e lettere 1943-1945 (Einaudi, 2006); Gli internati militari italiani (Einaudi, 2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 2011), Voci dal lager (Einaudi, 2012), Il partigiano Montezemolo. Storia del capo della resistenza militare nell'Italia occupata (Dalai, 2012)

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