Prefazione alla raccolta di Tommaso Avagliano, "Torna domani, inverno" (Marlin editore, 2022)

Mario Avagliano

Dal terrazzo fiorito della casa di mio padre Tommaso Avagliano, che sorge a Sant’Arcangelo, una frazione di Cava de’ Tirreni incastonata sotto la mole imponente di Monte Finestra, si intravede un lembo di mare della Costiera Amalfitana, che lui amava con ardore. Era la casa di famiglia del padre Mario (di cui porto il nome) e sovrastava la stalla e la bottega citate nei versi di alcune poesie di questa raccolta.

Il comodino accanto al letto di mio padre è ancora ingombro di libri e di fogli. Fino al 21 settembre, giorno della sua morte, c’era anche un volume de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, «odoroso d’inchiostro e di vita», ancora con la copertina nera del V ginnasio, consumata dalla lettura, che lui stesso ha chiesto a mia madre Lia di portare con sé nel suo ultimo viaggio (vedi i versi della poesia Testamento).

Accatastati l’uno sull’altro, trovo La luna e i falò di Cesare Pavese, le poesie di Catullo e diversi quaderni dei tempi in cui insegnava nelle scuole statali, dove scopro con commozione che nel corso degli anni ha pazientemente appuntato a mano liriche di vari poeti, dai classici greci e latini a Ungaretti e D’Annunzio, da Sinisgalli a Puskin, da Emily Dickinson a Rilke, da Salvatore Di Giacomo a Trilussa. Liriche che spesso recitava a memoria.

La poesia batteva nel suo cuore fin dai banchi del ginnasio. Ci raccontava che da ragazzo, non appena racimolava qualche soldo, invece di spenderlo in «cose futili», dalle sigarette alle bibite e ai gelati, come facevano tanti suoi amici, acquistava romanzi e libri di poesia che divorava in notti arse di passione per la letteratura. Era quello il suo «divertimento».

Non che disdegnasse la vita. Aveva una moto Bianchi con la quale faceva allegre scorribande in Costiera, si atteggiava un po’ a James Dean de noantri (era il suo mito), con i capelli tirati indietro e imbrillantinati, adorava Marilyn Monroe, l’abatino Gianni Rivera e i fumetti di Tex Willer, e più tardi i film in bianco e nero dell’America degli anni Quaranta e Cinquanta e quelli del neorealismo e di Totò, Peppino e Aldo Fabrizi (Miseria e nobiltà su tutti), le canzoni napoletane di Salvatore Di Giacomo (Era di maggio la sua preferita, che ha voluto alla cerimonia funebre) e lo sport, in particolare Valentino Rossi, il ciclismo (tifava per Moser e poi per Pantani) e la Ferrari. Ma ciò che più gli faceva perdere la testa erano i versi di un poeta, un romanzo, un dipinto, un’anticaglia.

La sua casa è affollata di queste sue passioni. Ogni centimetro di muro e ogni tavolino, sgabello, comò, scaffale, mensola, vetrina sono occupati da libri, immagini dei familiari o dei poeti o scrittori amati, sculture, oggetti di antiquariato o di ceramica vietrese d’antan, acquerelli, incisioni, dipinti ad olio e ritagli di giornale, in particolare del “Corriere della sera”, che acquistava e leggeva fin da ragazzo. Ogni centimetro della sua casa trasuda di Tommaso Avagliano.

Nel corso della sua vita, oltre ad insegnare (e lo faceva con severità ma soprattutto con grande generosità verso i suoi alunni), ha coltivato il suo amore per le arti. È stato gallerista, giornalista, uomo di cultura, fondatore della prima sezione di Italia Nostra della sua città, fondatore e direttore della casa editrice omonima e poi con mio fratello Sante della casa editrice Marlin, ha scritto o curato una ventina di libri, collaborato a numerosi quotidiani e periodici nazionali e locali.

Ma al di là di questo, mio padre si considerava prima di tutto un poeta. «Ho scritto la mia prima poesia a quattordici o quindici anni» per il giornale della scuola “Caleidoscopio”, ha annotato su un foglio tra le sue carte, risalente al 2014. «Si può immaginare la mia delusione quando mi fu riferito che il comitato di redazione l’aveva cestinata, giudicandola troppo ben fatta per essere farina del mio sacco».

Nelle cartelle conservate nel suo studio le prime poesie sono del 1958, quando aveva appena 18 anni, e ha continuato a scrivere liriche per tutta la sua vita. Non a caso nel testo del manifesto di lutto, che lui stesso ha lasciato ai familiari, la parola «poeta» figura al primo posto, prima di «scrittore» ed «editore». E tra i fogli sparsi sul suo comodino, abbiamo trovato un’ultima versione in dialetto napoletano de L’Infinito di Giacomo Leopardi, datata 6 settembre 2021, tre giorni prima del suo ricovero in ospedale.

Nel suo lascito testamentario ha voluto come epigrafe i versi di un poeta greco anonimo («Piangimi di un pianto breve, nato dal segreto del cuore. Dimmi una tua parola tenera. Di me ricorda, quando con me più non sarà la vita») e ha chiesto alla famiglia di pubblicare la raccolta completa delle sue poesie in lingua italiana, a cui da tempo stava lavorando, ma non in modo organico.

Non è stato un compito facile selezionarle e organizzarle, sia perché alcune sono incomplete, sia perché di qualche lirica (per fortuna poche) l’autore aveva proposto più versioni. Le cartelle di lavoro testimoniano l’intensa attività poetica di Tommaso Avagliano, che un po’ artigiano un po’ musicista cesellava i suoi versi ragionando a lungo sul suono segreto di ogni parola (nelle bozze si trovano minuziosi elenchi di aggettivi e sostantivi), provando varie alternative, anche a distanza di anni. Non di tutte le poesie è stato possibile rintracciare la datazione, ma ovviamente questo poco toglie alla lettura. In qualche caso il testo è stato da lui mutato o integrato anche dopo trenta-quaranta anni, come è avvenuto per Orme, a cui ha lavorato fino alle ultime settimane della sua vita.

Per alcune sezioni della raccolta (come Familiaria, Stagioni ed Epigrammi) Tommaso Avagliano ha lasciato una schema di organizzazione abbastanza definito. Per le altre sezioni, ho seguito discrezionalmente un criterio tematico/emozionale, ad eccezione delle poesie giovanili, che sono in appendice, per le quali ho adottato un criterio cronologico. Per alcune poesie il titolo è il medesimo e in questo caso ho aggiunto un numero progressivo per distinguerle.

Buona parte delle poesie di questa raccolta è inedita, ad eccezione di quelle comprese nei volumi Poesie a Lil (1964) e In un’ora di luce (1990), peraltro stampati fuori commercio e ormai introvabili. Le liriche in dialetto napoletano sono invece raccolte nel volume Tra veglia e suonno del 2005. Una sezione della raccolta è dedicata agli “esercizi di traduzione” di poeti classici greci e latini, tratti in gran parte dal volume Giornale di viaggio del 1987.

Dalle cartelle di lavoro dell’autore sono state tratte anche alcune poesie non rientranti nella sua selezione o perché scritte su fogli volanti ritrovati in mezzo ai suoi appunti, e probabilmente da lui stesso dimenticate, o perché in fase di stesura finale, ma assai potenti per il loro afflato lirico.

Nelle poesie di Tommaso Avagliano emerge con forza l’attaccamento alle sue radici cittadine e familiari. Era innamorato di Cava de’ Tirreni, ma non prigioniero del suo “provincialismo”. I suoi versi infatti trattano i temi universali della formazione adolescenziale, dell’amore per la moglie Lia, i figli, i genitori, i nonni, dell’amicizia, del tradimento, della natura, della bellezza, del paesaggio, dell’arte, toccando anche la storia e l’attualità, dalla Primavera di Praga alla guerra in Afghanistan e all’ascesa di Silvio Berlusconi.

E già ventenne riflette sulla morte, a cui dedicherà svariate liriche. Aveva perso la madre Anna – alla quale, assieme al padre, è dedicata questa raccolta – all’età di 7 anni e soffrirà questo vulnus durante tutta la sua esistenza, come attestano i suoi versi: «Oh madre, dove sei? / Perché tardi tanto a venire? / Eppure / mi sei vicina, lo sento: / non puoi / avermi lasciato per sempre».

«Fresche e leggere di colori come acquerelli sono in gran parte queste poesie brevi – osserva lui stesso in un appunto recentissimo –, scritte in vari periodi della mia vita, accanto ad altre di maggior peso e consistenza, paragonabili, per rimanere in metafora, ai dipinti ad olio nell’opera di un pittore. Non tutte però brillano come gocce di rugiada al sole, e qualcuna tende addirittura al grigio o al fosco. Ma pazienza, non si può essere sempre lieti e sereni quando si mette penna in carta. Mi è sembrato che, tutte assieme, possano dare testimonianza di un lavorio poetico al quale mi applico ormai da un sessantennio – con alti e bassi, s’intende – ma senza mai deviare».

Al Tommaso Avagliano leggero, passionale, nostalgico, malinconico, si accompagna anche un alter ego puntuto, ironico e irriverente, con lo pseudonimo di Masoagro, un «ilare folletto» (parole tratte da una sua nota) i cui versi, per lo più sotto forma di epigrammi, prendono di mira in modo mordace uomini e donne, usi e costumi, o giocano con eleganza su argomenti erotici, solo in parte già pubblicati in una raccolta intitolata Epigrammi di Masoagro (1987). Se ne propone un’ampia selezione, escludendo – per coerenza – quelli in dialetto napoletano (destinati ad altra raccolta) e quelli da lui stesso definiti metelliani, che si riferiscono a personaggi di valenza locale.

«Questi epigrammi – avverte l’autore in un altro appunto – non li ho scritti io. Li ha scritti il mio amico Masoagro, che ancora una volta ha voluto fossi io a firmarli. Lui preferisce così. E non gl’importa di espormi a critiche e pettegolezzi, trattandosi di poesiole che scivolano volentieri nell’erotico e nel “proibito”. Ma proibito da chi? Oggi se ne vedono e se ne leggono di tutti i colori che non ci si scandalizza più di niente. Anzi nei suoi versiccioli c’è una grazia di dettato che non scade mai nel volgare o nel pornografico. Se li gusti perciò, con piacere, il lettore goloso. Il mio amico li ha raccolti proprio per lui».

Mentre mi accingo a concludere la stesura di questa introduzione, continuando a consultare i quaderni di mio padre, spunta fuori un altro foglietto volante da lui appuntato a penna, con la sua calligrafia arrotondata che – confesso, il dettaglio m’impressiona! - assomiglia così tanto alla mia. Vi trascrive una lirica della poetessa Vivian Lamarque, che mi pare riassuma la sua filosofia di vita, e perciò la riporto:

 

Post scriptum

Siamo poeti.

Vogliateci bene da vivi di più.

Da morti di meno.

Che tanto non lo sapremo.

 

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