L’Italia del post-fascismo: monarchia o repubblica?

di Mario Avagliano

   All’indomani del 25 luglio e della caduta del fascismo, si sviluppa quasi subito in Italia il dibattito sulla cosiddetta «questione istituzionale».

Il re Vittorio Emanuele III tenta di riabilitare la sua figura agli occhi degli italiani, restaurando lo Statuto Albertino, che di fatto era stato svuotato dal potere dittatoriale di Benito Mussolini, che aveva relegato la monarchia a semplice notaio delle decisioni del regime fascista.
La nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo di un governo che oggi si direbbe tecnico va tuttavia nel segno della continuità e infatti il nuovo esecutivo si limita all’abolizione degli istituti giuridici più critici dell’ordinamento fascista.
Di contro l’uscita dalla clandestinità delle formazioni politiche antifasciste porta inevitabilmente a ridiscutere l’assetto istituzionale del Paese.
I partiti di sinistra, in testa Pci, Psi e azionisti, sono assai critici verso Casa Savoia, per l’eredità del Ventennio fascista e per il via libera dato a leggi liberticide, a partire dalle leggi razziali del 1938. Dopo l’armistizio, la fuga ignominiosa a Brindisi del re e dei vertici politico-militari contribuisce a rendere il giudizio sulla monarchia ancora più severo.
La divisione dell’Italia in due stati, Repubblica di Salò e Regno del Sud, di fatto in guerra l’uno con l’altro, e l’occupazione del suolo patrio da parte di due eserciti tra di loro nemici, rinviano ogni decisione al dopoguerra. Pesa sul rinvio anche il parere degli Alleati che, a loro volta, hanno opinioni diverse sul futuro istituzionale dell’Italia.
Gli americani, e il loro presidente Roosevelt, premono per l’abolizione della monarchia, anche sull’onda della campagna svolta negli Usa dai fuorusciti antifascisti italiani. Invece gli inglesi, e in particolare Churchill, ritengono che sia essenziale tenere in piedi la monarchia, anche in funzione anticomunista.
Il risultato di questa divergenza di opinioni è che anche il dibattito interno italiano subisce uno stop e, non senza difficoltà, viene concordata una sorta di «tregua istituzionale».

A Roma, il 9 settembre 1943, sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi, i rappresentanti dei sei partiti antifascisti (liberali, democristiani, democratici del lavoro, partito d’azione, socialisti, comunisti) danno vita al Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla resistenza contro i tedeschi e, in seguito, contro il redivivo regime fascista.
Successivamente, il 16 ottobre, il Cln approva un ordine del giorno nel quale si stabilisce che la monarchia rimane sub judice sino a dopo la fine della guerra e che «tutti» i poteri costituzionali dello Stato vengono assorbiti dal Comitato.
Di conseguenza i partiti antifascisti si rifiutano di collaborare sia con il re che con il secondo governo Badoglio, costituitosi il 16 novembre 1943, e pongono come precondizione di ogni dialogo l’abdicazione di Vittorio Emanuele.
In realtà sulla questione istituzionale i partiti del Cln sono divisi: azionisti, socialisti e comunisti sono dichiaratamente repubblicani, i democristiani sono tutto sommato agnostici, mentre liberali e demolaburisti sono tendenzialmente monarchici.

Il 28 e il 29 gennaio 1944 si celebra a Bari il congresso delle forze politiche antifasciste che si conclude con la richiesta della convocazione di una assemblea costituente da eleggersi appena finita la guerra e la conferma che l'abdicazione del re è condizione essenziale per la ricostruzione morale ed economica dell'Italia e per la formazione di un governo di coalizione democratica.
Lo stallo nel rapporto tra Cln e monarchia viene superato grazie a tre passaggi: l’entrata in scena di Stalin, che l'8 marzo annuncia il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra l'URSS e l'Italia, il rientro in Italia il 30 marzo di Palmiro Togliatti, che appena arrivato da Mosca, dice in una conferenza stampa e in un comunicato del suo partito che occorre sbloccare la situazione (la cosiddetta Svolta di Salerno), creando un governo di guerra. aggiungendo di non avere alcuna pregiudiziale nei confronti di Badoglio, e l’annuncio di Vittorio Emanuele il 12 aprile alle stazioni radio di Bari e di Napoli di ritirarsi a vita privata, di abdicare e di accettare la luogotenenza all’atto della liberazione di Roma.
Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione della capitale, Vittorio Emanuele firma a Ravello il decreto per la luogotenenza. Ma non è Badoglio a formare il nuovo governo: il Cln chiede e ottiene che esso sia presieduto da Bonomi.
I partiti nella dichiarazione programmatica affermano di volersi dedicare unitariamente alla soluzione dei «problemi vitali e urgenti dell'ora», mettendo da parte la questione «della forma istituzionale dello Stato, che non potrà risolversi se non quando, liberato il Paese e cessata la guerra, il popolo italiano sarà stato convocato ai liberi comizi mercé un suffragio universale ed eleggerà l'Assemblea Costituente».
E il 25 giugno il governo Bonomi, trasferito a Salerno, approva il suo primo decreto legislativo, che stabilisce:  «Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali dello Stato saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà un'Assemblea Costituente».
A liberazione avvenuta, l’Italia che esce dalla guerra discute di che forma istituzionale darsi, con due storie differenti alle spalle. Al Nord c’è un forte clima di speranza e una domanda di innovazione, alimentato dalla Resistenza, e i Cln incidono sulla vita dei cittadini, trattando direttamente con gli Alleati, nominando prefetti e sindaci. Al Sud, invece, che è stato liberato due anni prima e dove i Savoia hanno risieduto, il sentiment positivo verso la monarchia è molto più elevato.
Anche per questo il cammino è accidentato e si apre un dibattito assai acceso sui tempi e sul metodo di scelta tra monarchia e repubblica. Il decreto di Salerno prevedeva che le forme istituzionali sarebbero state determinate dalla Costituente. Alla fine però, dopo discussioni a tratti drammatiche e che fanno sfiorare la crisi al governo presieduto da Parri, prevale la proposta, inizialmente minoritaria, del ministro liberale Cattani di sottoporre la decisione alla diretta consultazione popolare mediante un referendum e di far eleggere contestualmente l’Assemblea Costituente. Sui tempi, vince la tesi di Nenni e di De Gasperi di fare in fretta e di non rinviare oltre, per cui il Consiglio dei ministri fissa la data del 2 giugno 1946.

La campagna elettorale si svolge in un clima non esattamente neutrale. L’apparato statale e le forze dell’ordine sono tendenzialmente monarchiche e, considerata la situazione di difficoltà economica e le agitazioni sociali, lo slogan dei monarchici secondo cui «La repubblica è un salto nel buio» ha buona presa tra i moderati e gli scontenti.
Quanto ai partiti, quelli di sinistra si schierano per la repubblica; i liberali si professano agnostici, anche se sono per lo più monarchici; la Dc dopo un referendum tra i suoi iscritti si pronuncia per la repubblica anche se De Gasperi decide di lasciare libertà di scelta ai suoi elettori.
Il 9 maggio Vittorio Emanuele III di Savoia abdica alla corona d'Italia in favore del figlio, che diventa re Umberto II.
E l’ultimo atto dei Savoia. L’Italia sta per scegliere la repubblica.

(blog Mario Avagliano, 3 febbraio 2017)

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