La colpa di chiamarsi Mengele. Così vissero i figli dei nazisti
- Scritto da Mario Avagliano
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di Mario Avagliano
Le colpe dei padri ricadono sui figli? La risposta, in linea teorica, è no. Ma è difficile se non impossibile evitare di fare i conti col passato oscuro del nazismo, tanto più se ti chiami Himmler, Göring, Hess, Frank, Bormann, Höss, Speer o Mengele e sei figlia o figlio di un gerarca criminale del cerchio magico di Adolf Hitler.
È quanto racconta Tania Crasnianski, avvocato penalista franco-tedesca ma con origini russe, nel suo saggio «I figli dei nazisti» (Bompiani, pp. 268, € 18), in libreria in Italia dal 27 gennaio e già in corso di stampa in tutto il mondo, frutto di una lunga ricerca negli archivi pubblici e privati e dello spoglio di carte giudiziarie, lettere, libri, articoli e interviste sulla vita privata dei gerarchi del Terzo Reich e dei loro discendenti.
Otto storie esemplari, narrate con una scrittura rigorosa ma incalzante, sui figli dei fedelissimi di Hitler, nati tra il 1927 e il 1944, cresciuti in un’infanzia dorata, lontana dai clamori della guerra e dalle violenze del nazismo, garantita loro da padri in genere tanto crudeli e cinici nella loro attività di governo, di amministrazione o di polizia quanto affettuosi e amorevoli in famiglia. «La mia famiglia fu l’altro mio santuario. Il mio legame con essa fu saldissimo», ebbe modo di dire Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Una doppia personalità, quasi schizofrenica, che in qualche modo veniva fuori già dal ritratto di Eichmann che aveva tracciato Hannah Arendt ne «La banalità del male».
«Ciò che il padre ha taciuto – annotava Nietzsche in «Così parlò Zarathustra» – prende parola nel figlio; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del padre». E infatti molti di questi rampolli dei gerarchi nazisti hanno scoperto la verità sui propri genitori e sul loro ruolo nella macchina di distruzione di massa del nazismo e di sterminio degli ebrei solo dopo la fine del conflitto. Ma le reazioni sono state differenti, a volte completamente opposte.
Giudicare i propri genitori è un’impresa difficilissima. «Come guardare in modo spassionato e imparziale alle persone che ci hanno messo al mondo? Maggiore è la prossimità affettiva, più problematico risulta prendere partito», scrive la Crasnianski. Anche in Italia, personaggi illustri hanno dovuto affrontare il dramma del confronto con il passato fascista dei genitori, dai giornalisti Pierluigi Battista e Giampiero Mughini al comico Paolo Rossi e agli scrittori Marco Lodoli e Margaret Mazzantini.
Le soluzioni adottate dai figli dei gerarchi nazisti si sono polarizzate in modo netto: alcuni si sono allineati alle posizioni dei genitori, altri le hanno condannato fermamente, rarissimo l’atteggiamento di neutralità.
Sono soprattutto le figlie uniche a non aver rinnegato i padri: Gudrun Himmler (chiamata dal padre Püppi, bambolina), sola discendente legittima di Himmler, l’architetto della Soluzione Finale, sempre in giro con una spilla d’argento con una svastica formata da quattro teste di cavallo disposte in cerchio; Edda Göring, figlia del maresciallo del Reich, considerato il Nerone nazista; e Irene Rosenberg, il cui padre era Alfred Rosenberg, l’ideologo del nazismo, nonché ministro dei territori occupati sul fronte orientale. Divenute donne, hanno finito per vivere nel culto del genitore, dedicando la propria vita alla sua riabilitazione.
Anche Hans-Jürgen, il secondogenito di Höss, il comandante di Auschwitz, è rimasto fedele ai vecchi ideali del proprio genitore. Il figlio Rainer lo ha descritto come un uomo violento, dittatoriale e antisemita.
Sull’altro versante, ci sono figli che non se la sono sentita di amare il padre “mostro” e hanno preso le distanze da lui. Niklas Frank, il figlio di Hans Frank, detto il «boia di Cracovia», considera il padre un «assassino», giudicandolo «debole», «fatuo», «ipocrita», «vile», oltre che un patetico «leccaculo». Insieme alle fotografie dei suoi cari, porta con sé anche un’immagine del cadavere del genitore. «Mi piace come è venuto in quella fotografia: è morto», risponde a chi gli domanda chiarimenti.
Rolf Mengele, il figlio di Josef, il medico della morte, ha voluto cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna familiare. E non è mancato chi ha cercato di espiare le colpe dei padri scegliendo la via della fede, come Martin Adolf Borman, figlio del potente segretario di Hitler e figlioccio del Führer, diventato missionario cattolico. Addirittura c’è chi si è convertito all’ebraismo, come Aharon Shear-Yashuv, all’anagrafe Wolfgang Schmidt, diventato rabbino dell’esercito israeliano, e la nipote di Magda Göbbels, cioè la figlia del figlio che Magda ebbe dal primo marito Günther Quandt.
E Hitler? Era contento di non avere discendenti: «Che problemaccio se avessi dei figli! Magari si cercherebbe di fare di mio figlio il mio successore! E non è tutto! Per uno come me non c’è speranza che gli nasca un ragazzo in gamba. È la regola. Si veda il figlio di Goethe: un individuo che non servì assolutamente a nulla!».
(Pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero del 26 gennaio 2017)